In assenza della rigida struttura gerarchica implicata da una religione organizzata, tolto il clero, le chiese ed ogni soggettiva vocazione a dedicarsi anima e corpo alla divinità suprema, gli atti sacri dedicati al grande Spirito del Mondo avevano la propensione a dipanarsi per il tramite di un tipo di veicoli profondamente diversi. Vedi quello evidenziato dall’orgoglio identitario della casta dirigente e sacerdotale del popolo dei cosiddetti Bakongo, il gruppo etnico facente parte del gruppo bantu che nel XIX secolo era stato convinto, dall’impietoso ingegno dell’uomo bianco, che il Dio cristiano altro non fosse che il padre celeste Nzambi a Mpungu, creatore del mondo, delle genti e gli animali che vivevano sulla Terra. Continuando nonostante tutto a mantenere, come si trovò a notare l’allora giovane studente americano di storia naturale James P. Chapin, alcuni fattori esteriori della loro ancestrale filosofia. Primo tra questi, l’abbigliamento e il distintivo copricapo simbolo della categoria, reso inconfondibile dalla presenza di talune lunghe penne bluastre, in merito alle quali nessun occidentale aveva ancora dato segno di aver fatto mente locale. Almeno finché nel 1913 il ventiduenne Chapin, già un esperto in molte branche della scienza e invero destinato a diventare uno dei maggiori ornitologi della storia moderna, non si ritrovò a chiedersi ad alta voce: “Che diamine di uccello è questo?”
Ma trovò difficile comunicare in modo comprensibile la propria sorpresa, o chiedere ulteriori delucidazioni ai nativi. O forse la sua posizione collaterale all’intento dichiarato della spedizione, rintracciare il misterioso giraffide destinato a diventare noto come l’okapi (O. johnstoni), unita alla natura schiva e cauta del misterioso volatile, rimandò sensibilmente l’opportunità di scoprirne l’agognato aspetto. Ci vollero per questo ulteriori 21 anni, perché l’ormai affermato Dr. Chapin, ricercatore associato alla Columbia University, si ritrovasse per caso ad osservare un paio di volatili considerati dei pavoni dall’aspetto insolito presso il Museo Reale dell’Africa Centrale a Teruven, nelle Fiandre. Quando là, proprio sotto i suoi occhi increduli e incapaci di dimenticare un dettaglio, la vide come se non fosse trascorso neanche un giorno: la piuma sul cappello bianco posseduto dai capi spirituali makongo. Ritrovandosi probabilmente ad imprecare, contro uno studio tassonomico che tendeva ad accorpare uccelli dalla coda lunga e variopinta con qualcosa di più simile a un tacchino aerodinamico, i colori cangianti molto atipici e la corporatura di una pernice europea dieci volte più grande. Perciò “Signori, ascoltatemi” egli scrisse prima possibile: “Ciò che abbiamo innanzi altro non è che un pollo (fowl). Il pollo del Congo.”
Vero, falso, giusto, indegno. All’uccello tutto questo non importa. Purché potesse continuare, nel suo modo, a cantare le opportune lodi di Nzambi a Mpungu, controllore del Sole e di ogni cosa che arde sotto il suo sguardo superno…
studio
Oltre un secolo e non sentirlo: l’esasperata metafora parassitaria dell’ipnolumaca
Ah, il GUANO, che magnifico sapore! La deiezione dei pennuti, colazione dei campioni. Escrementi che piovono dai cieli, ovvero: piatti prelibati, i più pregevoli alimenti! Così mentre deambulavo alacremente, l’umida scia un tracciato diagonale sulle foglie, ebbi l’improvvisa ispirazione di dirigermi verso la fonte di quel delicato aroma. L’invitante aurifero sentore di gusci d’insetto consumato, liberi lombrichi, qualche pezzo chitinoso di uno scarabeo danzante. Un pasto sopraffino per un cuore di lumaca dentro il guscio, come il mio, meschino. E sgranocchiando, trangugiando ed espiando, nel profondo, non compresi fin da subito quello che era capitato al mio Destino. Giorno 5: tutto a posto, a parte la sgradita sensazione di un corpuscolo nell’occhio sinistro, o per meglio dire quel tentacolo che lo sostiene, nei molluschi di terra. Poco male, dopo tutto? Basterà che aspetti pazientemente, prima di poter tornare a ritirarlo dentro il corpo centrale. Giorno 10: oh, sventura. L’occhio pulsa e si trasforma, è gonfio, pieno e dolorante. Vedo strani e plurimi colori, avverto un cambiamento nel profondo del mio essere. Cosa diamine c’era, all’interno di quel GUANO traditore?
Leucochloridium paradoxum è l’ingrediente, o per meglio dire la condanna vermiforme, che caratterizza il gravido protrarsi di un così terribile frangente. L’infezione di trematode esteriormente accattivante (e Dio/Demiurgo può saperlo, quante ce ne sono a risultarne tali!) che trasforma la tranquilla chiocciola nella palude in un’attraente versione tangibile e mollusca del più eclettico personaggio del cartoon Futurama, l’ipnorospo. Le cui pupille cambiano continuamente geometria, al rimbombo sottilmente inquietante di una nota metallica ed aliena. E di certo tra gli uccelli molti devono essere gli appassionati di una tale serie, se crediamo alla visione non del tutto scientifica, secondo cui le povere lumache infette a questo punto si trasformano in letterali esche ambulanti, con due approssimazioni ragionevole di bruchi sulla testa. Che ogni passero, ogni merlo, qualsivoglia corvide o gabbiano vorrà fin da subito fagocitare. Nel momento stesso in cui gli riuscirà d’avvistarlo. Ed è proprio qui il nesso, l’effettivo nodo dell’intera questione. Poiché se provate a cercare, anche soltanto per un attimo, su Internet la storia di quel parassita, verrete bombardati da definizioni quali “zombificatore di lumaca” oppure “controllore ostile dei gangli mollicci” per il modo tutto suo, reale o presunto, di riuscire a trasformare il comportamento dell’ospite tutt’altro che volontario. Creando una lumaca che spontaneamente tenderà a salire verso l’alto, nei luoghi assolati o pienamente esposti. Ove risulti più probabile l’incombente predazione ad opera di uno dei suddetti produttori di GUANO. Ah, la natura!
La strana storia delle api ritrovate dentro i capitelli della cattedrale del Canale
“Quello che a Roma non fecero i barbari, lo fecero i Barberini” non è un semplice modo di dire affisso sulla statua “parlante” di Pasquino, bensì l’osservazione per lo più oggettiva che riflette l’operato di quei nobili venuti da Firenze, per fare fortuna e infine trovare il proprio spazio nel fondamento stesso dell’istituzione papale. Un trono ingioiellato che nell’epoca Barocca era sinonimo di quasi onnipotenza, nella redistribuzione dei materiali e le risorse cittadine. Cose come i marmi dell’anfiteatro Flavio, più comunemente noto con il nome di Colosseo, che notoriamente venne utilizzato da Urbano VIII come cava per dar luce all’infinita gloria di quel cognome. Scelto ad arte, perché nessuno avrebbe mai voluto che i parenti del 235° Vicario di Cristo continuassero a farsi chiamare Tafani. E fu quella l’origine del problema: poiché centinaia, se non migliaia di stemmi dovettero essere revisionati, per mostrare un trio di nobili api al posto della mosca cavallina. A meglio simboleggiare un “encomiabile” intento d’unione tra la chiesa e l’operosità della natura.
Circa quattro secoli dopo il 266° portatore di quel particolare cappello, l’attuale Jorge M. Bergoglio /alias Franciscus I, si sarebbe ritrovato a sua totale insaputa un giorno a dire messa nello stesso continente che gli aveva dato i natali. Sotto i segni residui di una versione alternativa, eppure stranamente congeniale, dell’antico emblema. Inizia dunque la vicenda relativa alla sua visita del 2018 alla città di Panama ed all’imponente edificio al centro del suo culto, lungamente abbandonato fino al tempo della sua venuta a discapito del nome altisonante di Catedral Basílica Santa María la Antigua de Panamá… Fatta eccezione per il popolo di una nutrita pletora di piccole, ronzanti creature. “Scoperte come queste, non ce ne sono state molte nel corso della storia della Cristianità. In effetti, forse, nessuna!” Qualcosa di simile deve aver pensato la museologa Wendy Tribaldos, impegnata all’epoca con la Dalmática Conservaçao e Restauro, alla progressiva presa di coscienza di quanto i suoi stessi occhi stavano vedendo tra i fregi ornamentali del reredos, la pala d’altare monumentale dell’edificio. Dove tra i fini capitelli ricoperti di foglia d’oro, strane forme convesse di un’indisputabile complessità inerente sembravano essere state incluse alquanto intenzionalmente nella struttura di base. Finché non fu evidente, ad uno sguardo approfondito, che dovesse trattarsi dell’opera di un qualche tipo d’insetto… Tra i presenti, quasi subito, venne suggerita l’ipotesi falena. Quindi che potessero essere dei nidi di calabroni. Finché alla stessa Tribaldos non venne in mente, per sua e nostra fortuna, di portare le silenti vestigia presso un centro di ricerca della celebre istituzione museale statunitense, lo Smithsonian…
Un laser contro il magma, per anticipare il drastico risveglio dei vulcani
Ha fatto notizia, più volte nel corso degli ultimi anni, il percorso di approfondimento compiuto dalla vulcanologa dell’Università del Queensland Teresa Ubide Garralda, studiosa incline a investire i propri sforzi nella ricerca del sistema, lungamente giudicato una chimera, per riuscire in qualche modo a prevedere l’insorgenza e le modalità di un’eruzione vulcanica. E con ottime ragioni, vista la quantità d’insediamenti umani nati attraverso i secoli e millenni sotto le pendici di quel tipo di massicci montuose, pericolose valvole di sfogo dell’implacabile mare di fuoco che scorre sotto i nostri piedi. Un tipo di approfondimento scientifico, quest’ultimo, che prende vita dallo studio di fenomeni del tutto naturali e proprio per questo, dipendente dall’incontrollabile verificarsi dell’ennesimo potenziale disastro mai annunciato. Così nel 2018, lavorando sulle pendici dell’Etna, ella ebbe l’occasione di raggiungere un più elevato livello di comprensione dell’attività magmatica mediante l’osservazione approfondita dei minuscoli cristalli o microcrysts contenuti nel magma siliceo, destinato a scorrere sulle pendici una volta liberato nell’atmosfera il gas che l’ha portato ad emergere in superficie. E di nuovo ad osservare, all’inizio di quest’anno, il comportamento e la composizione del melt (roccia semi-liquida) fatta scaturire dal pericoloso vulcano neozelandese Taranaki, una possibile nuova strada di approfondimento verso l’acquisizione di dati storici in merito al comportamento di un tale sito, luogo di una potenziale catastrofe pliniana degli anni a venire. Il che ci porta alla svolta di questo particolare sentiero della conoscenza, compiuta in tempo per la pubblicazione soltanto nella scorsa settimana della nuova prospettiva ottenuta durante il periodo di disastrosa attività effusiva del Cumbre Vieja nelle isole Canarie, durata 85 giorni tra il 19 settembre e il 13 dicembre del 2021, consistente in copiose colate laviche capaci di causare danni a 1.000 ettari dell’isola di La Palma e con essi 3.000 edifici costruiti dall’uomo. Benché offrendo l’opportunità, per la sua progressione relativamente lenta, di evacuare la popolazione finendo per costare la vita solamente ad un singolo, sfortunato individuo. Un’opportunità particolarmente rara d’altra parte, in funzione della sua lunga durata, per comprendere l’evoluzione di questi fenomeni nel tempo ed impiegare nuovi approcci utili a comprenderne i segni rivelatori. Come ampiamente delineato nello studio della Dott.ssa Ubide assieme alla sua equipe internazionale, che in questo frangente ha scelto di mettere in campo un nuovo tipo di strumento nella guerra conoscitiva delle scienze applicate al più temuto dei disastri provenienti dalle remote profondità terrestri. Niente meno che la luce stessa, concentrata grazie a un fascio di fotoni dritta verso il punto e nesso principale della problematica di rilievo…