Il glorioso assalto della cavalleria francese era, in genere, tutto ciò che serviva per porre fine ad una battaglia. E non c’era una particolare ragione per pensare che quel giorno, ad Agincourt, le cose sarebbero andate diversamente. Tanto più che l’armata di Enrico V d’Inghilterra, sviata con tattiche di guerriglia a Piccardia, si trovava ora in condizione di marcata inferiorità numerica, con circa 6.000 soldati contro 14-15.000 uomini armati di tutto punto. Ma era il 25 ottobre 1416 ed il paradigma stesso della guerra, in un singolo sanguinoso pomeriggio, stava per cambiare radicalmente. Così con la carica in un lungo corridoio tra i boschi, i fieri soldati al comando di Carlo I d’Albret dovettero rallentare aggirando la palizzata appuntita approntata dai difensori, mentre questi ultimi facevano piovere su di loro una letterale grandinata di frecce. Il che era del tutto previsto e non avrebbe dovuto costituire, nell’opinione dei comandanti francesi, alcun tipo di problema: in quell’epoca era in effetti risaputo che una freccia non poteva penetrare il tipo di armatura a piastre utilizzata dagli uomini d’arme in grado di permettersi anche un cavallo, che restando ferito ed imbizzarrendosi poteva costituire, piuttosto, il principale pericolo in questo tipo di circostanze. Tanto che, ormai da secoli, non era più comune neanche dotarsi di alcun tipo di scudo. Ma le solide piastre metalliche ribattute su testa, petto ed arti quel giorno avrebbero potuto essere fatte di carta. E gli assaltatori morivano a destra e a manca, così come sarebbe successo, qualche ora dopo, alla fanteria pesante. Questo perché gli arcieri britannici, in buona parte popolani al comando di Thomas Erpingham, si erano lungamente addestrati nell’utilizzo di un particolare tipo di arco lungo. La cui caratteristica principale era quella di essere stato realizzato con il legno del Taxus baccata o in altri termini, l’albero maledetto del Mondo.
Tranquilla era la vita rurale nella campagna inglese e scandita da abitudini ripetitive. Gli abitanti dei villaggi coltivavano i campi, trascorrevano ore di svago in famiglia ed una volta alla settimana, si recavano a messa presso la chiesa della comunità. Passando davanti al cimitero e prestando saluto, com’era l’usanza, al suo torreggiante guardiano, di cui ogni singola parte costituiva l’anticamera della fine. Non a caso questo tipo di arbusto fu sempre associato, nella cultura poetica e letteraria, al concetto implacabile della morte, fin da quando Cativolcus, il capo dei celti Eburoni, scelse di usarlo per suicidarsi prima di doversi arrendere e mettere al servizio dei Romani. Il tasso costituisce, in effetti, un veleno capace di agire sulla funzionalità cardiaca di umani ed animali in ogni sua singola parte, dalle radici alla corteccia, ai rami, alle foglie lanceolate quasi-aghiformi ed al seme particolarmente letale, pur essendo racchiuso nell’unica parte dolce e commestibile della pianta, il piccolo frutto rosso noto come l’arillo (benché gli uccelli possano comunque mangiarlo, a causa dei loro succhi gastrici troppo deboli da poter erodere l’abito esterno del suddetto seme). Inoltre il suo polline fortemente allergenico può provocare difficoltà respiratorie ed altri significativi malanni. Eppure nessun insediamento nel regno finalmente unito sotto una singola bandiera poteva, in quell’epoca, esimersi dal coltivarlo e molti altri alberi erano stati importati e trapiantati, per evidente necessità belliche, dall’Europa continentale. Questo perché il temibile e nodoso vegetale dell’altezza massima di 20 metri, ma un diametro del tronco capace di raggiungerne anche 4, poteva beneficiare di un legno dalle capacità straordinarie, flessibile ed elastico, pur risultando al tempo stesso dotato di resistenza eccellente. E continuava imperterrito a crescere, anche dopo che era stato tagliato a pezzi. La soluzione ideale, per la costruzione del temibile arco lungo inglese…
pericolo
Terrori del folklore slavo e lo spirito mortale del mezzogiorno
“La semina avviene tra marzo ed aprile, tra marzo ed aprile…” Il sacerdote dal cupo abito proveniente dalla Lusazia s’inoltrò nel campo di grano colpito dall’arcana maledizione, la piccola croce d’argento saldamente stretta nella mano destra e gli occhi saldamente chiusi, in una silenziosa preghiera rivolta ai santi della sua terra d’adozione. Nessuna ombra sembrava circondare la sua forma, grazie al potere luminoso dell’astro perfettamente perpendicolare alla scena, come nel quadro surrealista di un maestro dell’Occidente. Ma la violenza pendeva in agguato. La brava gente del voivodato di Podlasie, con zappe, rastrelli e mazzuoli, si era radunata nei pressi del granaio costruito in legno di quercia e per questo protetto dagli spiriti del bosco, in attesa del segnale precedentemente concordato. La madre che aveva recentemente perso il figlio neonato, a fianco di suo marito, era seduta silenziosamente, meditabonda. “120 giorni sono necessari affinché il lino maturi, fino all’ingiallimento delle piante” Continuò il sacerdote, rivolto alla tenue nube evanescente concentrata in un punto perpendicolare alla luce solare, senza il benché minimo segno di alcuna tangibile presenza. Ma un sussurro cigolante, seguìto da sconquassanti rumori metallici, gli fece capire che la sua offerta era stata accettata. Allora egli sollevò le braccia al cielo, lasciando ricadere l’ornamento ecclesiastico legato alla catena sul petto, nel mentre sollevando le palpebre e scrutando intensamente quel vuoto impuro. “Palesati, Poludnitsa! Fatti avanti, dama del mezzogiorno. Io pretendo di conoscere il tuo aspetto. E voglio conferire con te immantinente, dei misteri degli uomini e dei campi” Avendo studiato presso la cappella segreta dell’Ordine per lunghi mesi, ben conosceva il metodo per vincolare gli spiriti del profondo. Ed in quale maniera suscitare, in loro, una reazione. Così la sagoma evanescente, con la lama ricurva ad incorniciargli il volto, comparve stagliandosi contro il nulla. La lunga veste strappata di colore bianco, le braccia scheletriche ed il volto mostruoso, dai lineamenti contorti in un’espressione furente. Questa figura femminile, in effetti, era bizzarra; poiché a seconda di come la si guardava, sembrava talvolta alta la metà di una persona, certe altre il doppio di un cavallo. Ed a tratti, pareva riempire il cielo e l’intero paesaggio, potendo stritolare chiunque con un semplice gesto delle sue avvizzite mani. Proprio quello che era, recentemente, accaduto al figlio del mugnaio. Esattamente la ragione per cui, quest’oggi, il prete era giunto. Facendosi rapidamente il segno della croce, l’individuo attentamente che si era attentamente preparato per l’intera mattinata recitò quindi da Geremia IV: “Il vento ardente delle dune soffia dal deserto. Verso la figlia del mio popolo, non per vagliare, né per mondare il grano.” E qui, tirando fuori un fascio di lino nascosto nelle tasche del lungo mantello, fece una pausa ad effetto, scrutando negli occhi dello spirito maligno. “Un vento minaccioso si alza per mio ordine. Ora, anch’io voglio pronunziare contro di essi la condanna.” E sia! Allora l’estremità dei rami raccolti parve riunirsi in un singolo intreccio appuntito, che sembrava riflettere la luce solare. Sotto lo sguardo paralizzato degli spettatori distanti, era diventato una spada con tanto di elsa istoriata con simboli degli antichi idiomi. Contro il Diavolo ed ogni sua terribile manifestazione terrena. Contro la sorella maledetta dell’Alba! Il crociato di Dio, temporaneamente infuso del santo potere vendicatore, ne pose dunque l’estremità in perpendicolare al terreno, come il simbolo che inevitabilmente tendeva a ricordare. Sfidando ella a venire innanzi, si concentrò sull’immagine degli Arcangeli ed i Cori Celesti, radunati per guidare la sua mano.
L’elevata prospettiva liquida degli addetti allo sghiacciamento aeroportuale
L’uomo nella cabina sopraelevata impugna la coppia di joystick con entrambe le mani, mentre al di là del vetro parzialmente appannato infuria e biancheggia la tormenta peggiore degli ultimi quattro mesi. Indefesso ed instancabile, il lungo collo del veicolo ai suoi comandi si piega ed avvicina all’oggetto che costituisce il nesso inconfondibile della questione, già pieno di passeggeri e bagagli: il grosso Airbus A330, posto diagonalmente nello spazio di parcheggio dell’aeroporto sul finire della gelida serata. Raggiunta l’estremità ideale dell’arco disegnato nella propria mente, l’addetto preme quindi il rigido grilletto alla sua destra fino al primo dei tre scatti designati, lasciando che un getto ad alta pressione fuoriesca dal bocchettone posto al centro della sua inquadratura. Lentamente, il jet di linea inizia a tingersi di un aggressivo color verde smeraldo…
Aspetto cruciale nella progettazione di qualsiasi velivolo più pesante dell’aria è il rapporto tra resistenza dell’aria e portanza, ovvero la capacità da parte delle ali di veicolare l’atmosfera in modo tale da costituire il cuscinetto invisibile che allontana il mezzo, e tutto il resto del suo contenuto, dal rigido suolo che impieghiamo normalmente per camminare. Il che significa, volendo avvicinarsi al nocciolo della questione, che i margini di tolleranza nella progettazione di questo tipo di apparecchi, intesi come rapporto tra peso e potenza, ma anche la specifica geometria delle superfici di controllo, sono straordinariamente precisi ed ogni deviazione dall’idea dai canoni studiati a tavolino dagli addetti allo sviluppo può costituire non soltanto un ostacolo alla loro efficienza, bensì un letterale pericolo per chi si trova a bordo, nei dintorni o al di sotto del loro intero tragitto. Qual è il problema, dopo tutto? Non è che qualcosa di liquido o semi-denso possa cadere dal cielo, rimbalzando sopra la carlinga e il paio d’ali per ore o minuti, finché il rapido mutamento della sua materia costituente verso lo stato solido possa costituire una patina ruvidamente impenetrabile e saldamente attaccata al corpo di un oggetto metallico temporaneamente in attesa di decollare… Fatta eccezione per determinate latitudini, s’intende. Poiché fin dalla concezione del volo istituzionalizzato e commerciale, venne compreso come la precipitazione atmosferica tipicamente rappresentativa dell’inverno potesse costituire un problema da risolvere mediante l’utilizzo di approcci coerenti ed affidabili. Ovvero che potessero funzionare, per quanto possibile, sempre alla stessa maniera.
Un concetto più difficile a realizzarsi dal punto di vista pratico di quanto, idealmente, si possa essere inclini ad immaginare…
Letale Radithor: il terribile fraintendimento dell’omeopatia radioattiva
Chi è pieno di dubbi, colui che vive perennemente nella titubanza, coltivando l’incertezza e interrogandosi continuamente in merito all’opportunità di ciò che dice o fa nel corso delle proprie giornate, è quasi impossibile da trarre in inganno. Avere successo nel corso della propria esistenza, centrare il bersaglio ancora ed ancora ritrovandosi al centro di lusso, successo e celebrità, tende tuttavia ad erodere questi specifici tratti caratteriali. Creando un tipo di personalità fondata sui presunti meriti dell’intuizione: “Sono perfettamente in grado di comprendere l’origine, la decorrenza e il sentiero utile risolvere il mio problema.” Si sarebbe congratulato con se stesso nel 1927 il facoltoso golfista, imprenditore e mecenate delle arti Ebenezer McBurney Byers, uscendo dallo studio del suo medico, il Dr. Moyar. All’interno della propria borsa una piccola bottiglia, con l’etichetta stampata in lettere eleganti: Radithor. Volere è potere. E credere nell’indomani può costituire il primo passo verso la guarigione. Ma talvolta, le strade dell’Inferno sono lastricate di perniciose particelle, in grado di far deragliare il fondamento stesso del DNA umano…
Dopo tutto non c’era una maniera semplice per giungere a comprendere l’efferata realtà. Ed egli costituiva soltanto l’ultimo esempio di un gruppo di clienti di successo nella vita e dalle significative risorse finanziarie, a cadere vittima di una truffa straordinariamente efficace, forse addirittura a fin di bene, almeno nei suoi dettagli più specifici, dal punto di vista del suo creatore. Lasciate che vi presenti a questo punto William J. A. Bailey: un dottore con finta laurea di Harvard, ma una sincera convinzione nei meriti dell’ormesi da radiazioni. Quella tragica e pericolosa convinzione, diffusa circa 100 anni a questa parte, secondo cui alcune delle sostanze più pericolose scoperte dall’uomo potessero avere un effetto positivo sulla sua salute. Convinti almeno in parte dalle rivoluzionarie ricerche di Marie Curie e suo marito Pierre, che pur essendo stati esposti per molti anni a fonti di emissioni alpha, beta e gamma non ne avevano (ancora) pagato il prezzo, in molti decisero di sfruttare l’immotivata reputazione mistica di materiali come il radio (Ra, 88). Il più pesante dei metalli alcalino-terrosi, nonché dotato di un tempo di dimezzamento abbastanza breve e virulento da produrre radiazioni un milione di volte più intense dell’uranio. Il che lo portava, in modo particolarmente affascinante, a brillare.
Ma il pericolo persistente costituito dagli oggetti che incorporavano questa tipologia di materiale, tra cui orologi e vetri fluorescenti, gioielli, soprammobili e quant’altro, non era nulla al confronto di quello corso da coloro che ne trangugiavano la dissetante risultanza, premurandosi opportunamente di distillare l’acqua preventivamente distillata onde garantirne l’assoluta “purezza”. Neanche si trattasse di una sorta di Red Bull ante-litteram, l’insapore panacea di ogni malanno…