Zver: la bestia. Al tramonto di una notte senza Luna, il terreno smosso si separa lentamente. Per lasciar passare, tra le intercapedini della coscienza, un muso grigio a forma di bottone. Ben presto seguito dalle zampe con gli artigli arcuati, che trascinano nell’aria tersa quella forma senza un chiaro davanti né dietro. Senza un suono, senza un obiettivo chiaro, la bestia vaga in cerca di… Qualcosa. Poiché essa non può vedere, il suo deambulare non segue il tragitto di una singola linea diritta, bensì il sinuoso incedere di un tozzo e irsuto serpente. Ma dato che l’olfatto è adeguatamente funzionale, entro poco tempo riesce ad individuare quello che stava cercando: un piccolo cumulo di terra, come circa una dozzina ne circondano quella particolare posizione nella valle tra i fiumi Dnieper e Volga, di quel dramma senza un’Era. Senza remore né nessun tipo di ripensamento, Zver comincia dunque ad emettere un suono. Una sorta di ringhio a bassa frequenza, cui subito risponde il breve abbaio della femmina in attesa percepito da quei buchi sulle tempie che costituiscono le orecchie, da sotto la coperta impenetrabile di quel tumulo improvvisato. Segue una pausa di preparazione, poco prima che lei emerga, cautamente, nella stessa identica maniera. Ciò che segue, raramente è stato visto dagli occhi umani. E di certo, mai da quelli posseduti dai due reciproci protagonisti della scena…
Creatura comune in tutta la Russia europea e zone limitrofe, inclusa l’Ucraina, il ratto talpa maggiore o Spalax microphthalmus, alias spalacino, ha ben poco a che vedere con il ragionevolmente più famoso portatore glabro dello stesso nome. Fatta eccezione per lo stile di vita sotterraneo ed il tipo di dieta, che i due esseri perseguono del resto in maniera del tutto differente, e l’appartenenza al grande ordine dei roditori. Laddove la famiglia e il genere sono del tutto tassonomicamente distinti, come del resto avviene anche per il ratto talpa del Damaraland della Namibia centro-meridionale. Quasi come se il fatto stesso di aver compiuto le particolari scelte evolutive che conducono a una simile esistenza possa essere la risultanza di una serie di concause differenti, conduttive verso quella condizione che magari, un giorno, potremmo giungere a condividere su questa Terra: arti forti, utili a scavare in modo rapido ed energeticamente efficiente. Incisivi orientati in avanti, come attrezzi utilizzabili per smuovere e mettere da parte il terriccio. E una saliente quanto utile ridistribuzione degli organi sensoriali in dotazione del singolo individuo. Perché a cosa potrebbe mai servire una vista acuta, se si vive esclusivamente all’interno di gallerie dove la luce non è di casa? Il tipico anellide non possiede a conti fatti nessun tipo di ausilio oculare e lo stesso potrebbe dirsi del nostro Zver. Fatta eccezione per il doppio agglomerato di cellule visive atrofizzate e completamente coperte da una membrana di pelle, per evitare che possano riempirsi di detriti. Ed è notevole osservare, qualora se ne abbia l’opportunità, la differenza che può fare questo semplice accorgimento, con il ratto-talpa maggiore che non soltanto può scavare, ma si tuffa letteralmente a capofitto in mezzo alla sterpaglia, penetrando attraverso il suolo come si trattasse di un sottile foglio di carta. Per offrire ancora una volta il suo contributo, al complesso network di gallerie che può costituire, di volta in volta, la città sotterranea di un insediamento di questi roditori. Un ambiente capace di raggiungere anche le svariate decine di esemplari e una profondità di 4-5 metri soprattutto nei mesi invernali, per un’estensione orizzontale che supera abbondantemente il centinaio. Senza giungere a costituire, tuttavia, l’approssimazione funzionale di un formicaio sovradimensionato, con tanto di ruoli rispettivamente assegnati, come nel caso dei ratti talpa glabri dalle dinamiche eusociali famosamente simili a quelle delle formiche. Sebbene anche questi loro pelosi cugini orientali possiedano, dal canto loro, una preziosissima regina…
ecologia
Perché pur trattandosi di una chimera, non c’è proprio nulla di satanico nell’asino-capra
Non vista, non sentita e nota solamente per la sua reputazione, una creatura oscura in più di un senso tende ad aggirarsi tutto attorno all’isola di Sumatra. Secondo le leggende dei nativi, essa usa le sue corna per arrampicarsi sulla cima delle montagne e con le stesse è solita restare appesa agli alberi di sera, per non cadere preda della fame dei predatori. Storie assai probabilmente esagerate ma non poi così tanto, se si prendono in considerazione le noti uniche e l’agilità di questo essere, filosoficamente nato sotto il segno zodiacale del Capricorno. E che da esso ha preso in prestito una parte dell’aspetto ed il nome, se è vero che il Capricornis sumatraensis rientra a pieno titolo nella tribù tassonomica dei rupicaprini o capre di montagna pur presentando una conformazione fisica talmente distintiva, da aver portato in molti a dubitare al ungo che potesse essere imparentato con un dei più tipici animali della fattoria. Basso e tarchiato con un collo ampio (maschi e femmine possiedono lo stesso aspetto e dimensioni) non più alto di un metro al garrese eppure dal peso di fino a 30-40 Kg, questo ruminante dotato di grandi orecchie quasi equine assieme a piccole corna rivolte all’indietro è solito muoversi liberamente soprattutto verso le ore del tramonto, quando perlustrando i confini esterni del suo territorio va in cerca di erba nutriente, frutta e i rami più bassi, da introdurre masticando all’interno del suo sofisticato sistema digerente. Ed è soltanto in tale circostanza che talvolta, alle genti native capita di scorgerne la sagoma in lontananza, oppure si verifica l’inquadratura da parte di una delle fototrappole disposte strategicamente, lasciando sospettare un’incipiente rarità dell’essere stravagante, che comunque ormai da tempo è stato indicizzato come vulnerabile da parte dell’associazione internazionale IUCN. Il che si applica in modo particolare per la sottospecie locale così come tutte le altre nel loro vastissimo areale che include il Vietnam, la Cambogia, la Malesia ed il Laos, senza parlare delle due varianti cinesi chiamate C. milneedwardsii. Le ragioni sono molteplici, a partire dalla caccia con scopi alimentari passando per la solita predilezione della medicina tradizionale dell’Asia Orientale nei confronti ingredienti tratti da specie a rischio, nonché la sempre problematica superstizione, che ha fatto di quest’animale schivo e solitario una visione ritenuta infausta. Fino all’estremo del caso giapponese, dove la specie strettamente imparentata del C. crispus è stata chiamata per diversi secoli la “capra demone” o “mucca a nove code”. Ma il problema fondamentale, che tutt’ora impedisce a molti paesi d’inserirlo in una categoria protetta, è che il serow di Sumatra in effetti resta largamente sconosciuto, risultando privo di quel carisma implicito che attraverso gli anni ha portato allo sforzo collettivo atto a preservare i grandi carnivori, gli erbivori e gli scaltri primati sulle cime degli alberi antistanti. Persino nell’ambiente scientifico, dove si contano sulla dita di una mano gli studi scientifici pregressi, mentre manca ad esempio qualsivoglia tipo di approfondimento sul sistema di accoppiamento, la cura dei piccoli e l’effettivo ruolo ecologico di queste capre nei loro territori d’appartenenza. Mentre quel poco che sappiamo può configurarsi, senza ombra di dubbio, nella categoria degli argomenti meritevoli di almeno un transitorio approfondimento…
Limpido cubismo sottolineato sulla schiena della super-cimice africana
Splende il sole al margine della savana del Mozambico, dove la vegetazione inizia a diversificarsi, e creature di ogni tipo fanno a gara per trovarsi uno spazio nel tumultuoso ecosistema estivo. Siamo a ottobre, novembre, dicembre, quando le piogge cessano ed inizia il periodo di maggior secchezza dell’aria, riuscendo indurre un latente stato di torpore negli animali vertebrati, che da tempo hanno già completato i loro compiti riproduttivi. Tutt’altra situazione vivono, del resto, gli insetti. Schiere di formiche marciano ordinate verso il proprio tornaconto, e come loro le termiti. Non c’è riposo nel vocabolario dello scarabeo della frutta, che procede alla ricerca di quel cibo che necessita per giungere l’intera estensione dei suoi cinque mesi di vita. Farfalle volano insistentemente nell’aria. E la mantide fiore, variopinta quanto l’espressione vegetativa di cui riprende l’aspetto ed il nome, si dondola insistentemente avanti e indietro, avanti e indietro, a suprema imitazione del vento mai davvero silenzioso. Ma c’è qualcosa di notevolmente piccolo, sopra e sotto alle foglie dell’ibisco, dietro alle Albizia simili a mimose, attorno al Capsicum selvatico e l’anacardio occidentale, che sembrerebbe quasi creato con l’esplicita finalità di attrarre l’attenzione. Alcuni, dall’intento particolarmente razionale e scientifico, giungerebbero a chiamarlo aposematico: ovvero dall’aspetto tanto appariscente, da creare diffidenza e persino paura nei predatori. Altri, e con essi includo buona parte del consorzio umano, più semplicemente: bellissimo. Ed è certo valido a comprendere l’effettiva portata della situazione, il fatto che l’insetto Sphaerocoris annulus sia stato soprannominato almeno negli ultimi tre quarti di secolo col nome di uno dei più grandi pittori (forse il PIÙ importante) del Novecento: Pablo Picasso in persona, che ha inventato e consacrato la corrente cubista. Eppure neanche ebbe mai ragione, o ispirazione, di dipingere una tale scena fuori dal tempo: letterali dozzine, quasi centinaia di stravaganti cimici, non più grandi di 8-10 mm ciascuna, individualmente impreziosite dal passaggio di un pennello, che attentamente vi ha dipinto una quantità media di 11 macchie ad anello verde, rosse e nere. Sfumando negli spazi negativi, con notevole attenzione ai dettagli, macchie di una tonalità verde acqua sullo sfondo di un garbato color beige. Arte, minuzia, perizia, massima delizia. Per gli occhi (al minimo) e un po’ meno per le nostre attente narici. Poiché la classificazione tassonomica di un tale protagonista, come accennato poco sopra, lo pone a pieno titolo nella famiglia degli Scutelleridae strettamente imparentati con le Pentatomoidea, ovvero la tipica cimice verde che ama occasionalmente penetrare nelle nostre case. Ma se fosse tanto bella, nell’aspetto, son pronto a scommettere che mai nessuno penserebbe anche soltanto in via teorica di andarle dietro con un foglio di giornale arrotolato, imprescindibile sinonimo artropode di perdizione.
Come rappresentanti tra i più diffusi dell’ordine cosmopolita degli emitteri, spesso chiamati in via ancor più diretta “veri insetti”, questo stravagante erbivoro non-predatorio trova quindi un ciclo vitale conforme alle caratteristiche della sua intera genìa, che lo vede deporre le uova annualmente (trattasi di specie univoltina) in agglomerati geometricamente interessanti, romboidali o rettangolari, per poi attendere pazientemente la schiusa dopo un periodo di circa 56 giorni. Al che fa seguito l’emersione, piuttosto prevedibile, delle ninfe già ragionevolmente formate dei suoi speranzosi eredi, caratterizzati da una semplice colorazione tendente al giallo paglierino. Sarà soltanto col trascorrere del lungo inverno, nelle sue calorose regioni d’appartenenza, che l’insetto potrà quindi raggiungere la sua colorazione e dimensione d’adulto, in un processo che lo fa classificare nel gruppo degli artropodi emimetaboli, ovvero soggetti a metamorfosi incompleta. Non che ciò influisca, in alcun modo apprezzabile, sulla qualità esteriore di quello che potremmo giungere a definire il “quadro” finale…
Magnifico Ginkgo, le radici di una torre d’oro dall’odore nauseabondo
Parliamo allora per un attimo, dell’epoca remota della grande Preistoria. Quando gigantesche creature percorrevano la Terra. Stegosauri dalla cresta ossea acuminata, il diplodoco col suo lungo collo, gli pterodattili volanti ed il kentrosauro, pinne idrodinamiche nei mari primordiali tra i continenti. Ma due cose, almeno, già si presentavano del tutto simili all’odierna quotidianità degli esseri viventi: il “comune” coccodrillo, essere capace di restare ragionevolmente identico attraverso un periodo di circa 200 milioni anni. E dal lato della flora, l’albero giallo per eccellenza, con la forma di un’alta piramide ancor prima di alcun contributo dell’uomo. Ginkgo biloba, come siamo soliti chiamarlo per l’errore nella trascrizione del suo primo classificatore occidentale. Celebre per il suo effetto nella medicina alternativa, ritenuto panacea naturale di molti mali ed allo stesso modo assai comune come albero ornamentale, nei giardini dei diversi continenti, agendo come inno tangibile al fin troppo implicito splendore della natura. Luoghi come l’area recintata dalle mura dell’antico tempio di Guanyin Gumiao, la Dea della Misericordia, presso la Chinatown di Yangon, comunità cantonese nella parte meridionale del Myanmar (Birmania) che compare in tutto il suo splendore in una serie di fotografie, recentemente diventate virali a partire dal profilo Twitter di Avayonce, utente che sembrerebbe intuire spesso quello che verrà immediatamente ricondiviso a tappeto dai suoi seguaci. Nel presente caso, per lo meno, sulla base di valori estetici evidenti, grazie alla scelta del frangente autunnale, nel preciso periodo in cui queste piante ogni anno si tingono di un colore aureo più unico che raro, poco prima di lasciar cadere nel giro di uno o due giorni l’intera chioma delle proprie caratteristiche foglie a ventaglio. Uno spettacolo che in pochi dimenticano, così come in molti luoghi riesce ad essere diversamente memorabile il periodo della primavera, visto l’acre aroma emesso dai frutti della pianta femmina, semi nel baccello la cui specifica composizione chimica maleodorante parrebbe fatta per attrarre grandi quantità d’insetti ed animali, contrariamente a quello fatto dalle rimanenti parti del notevole arbusto.
Tutte doti conduttive ad un’ineccepibile longevità, che fa di questo albero del ginkgo non soltanto una creatura antica in termini evolutivi, ma vetusta anche per quanto concerne la sussistenza del suo singolo tronco presso quel luogo di culto, che una leggenda vorrebbe essere stato piantato dall’Imperatore Li Shimin (598-649) in persona, sacro fondatore della remota dinastia Tang. Circa 1.400 anni quindi nella vita di questa notevole pianta, sufficienti a porla d’altro canto verso la metà della sua giornata tra i viventi, se è vero che attente considerazioni e analisi hanno permesso di datare altri alberi di questa specie tra i 3 ed i 4 millenni di anzianità. Ogni aspetto, nella pianta del ginkgo, sembra infatti concepito per incrementare le sue probabilità di sopravvivere in qualsiasi condizione ambientale: la capacità di clonare se stesso ed i suoi rami, gettando nuove radici aeree da segmenti periferici della sua chioma; la creazione di lignotuberi o rigonfiamenti protettivi che nascondono al loro interno nuove gemme, capaci di ricreare il resto del tronco successivamente ad eventi distruttivi di vario tipo; ed un seme grande in grado di resistere più a lungo quando trasportato in giro nei ruscelli, oppure dentro l’apparato digerente di qualche creatura di passaggio. Ma soprattutto, l’incredibile e più volte studiata mancanza del gene della senescenza all’interno del cambio (zona interna tra il tronco e la corteccia) permettendo all’albero di continuare a rigenerarsi senza una alcuna data di scadenza scritta a lettere di fuoco nel suo antico destino. Faccenda verificatosi ad oltranza, per quanto la scienza ha chiaramente dimostrato, soprattutto nella regione cinese di Tianmushan, parco naturale circostante l’omonima montagna nello Zhejiang. Letterale valle perduta, dove si ritiene sopravvivere da tempo immemore l’ultima popolazione selvatica di questi alberi, residuo dell’antica selva che un tempo dominava lo scenario ecologico della sua Era. Fino all’inizio del Cretaceo (145 mya) quando il primo manifestarsi delle piante fiorite riuscì a competere e trionfare contro le rimanenti varietà di gingko, lasciando soltanto il tipo bilobato fino all’epoca in cui potesse essere chiamato, a tutti gli effetti, un fossile vivente…