Quando si considera l’introduzione delle specie non-native, appare prevalentemente atropogenico il caso degli insetti. In quale altro modo potrebbero riuscire a propagarsi, creature tanto piccole, oltre le distanze separate da vaste aree geografiche o masse d’acqua, se non riuscendo ad ottenere un passaggio a bordo di aerei, automobili imbarcazioni? Diverso il caso degli uccelli migratori, notoriamente in grado di accumulare migliaia di chilometri nel corso di una singola stagione, da quello dei più esperti volatori artropodi, ovvero anche libellule, lepidotteri, cavallette. Svolgendosi su scala molto superiore… Nella maggior parte dei casi. Eppur del tutto prevedibile non è l’impresa dimostrata scientificamente con l’articolo presentato la scorsa estate, e soltanto adesso pubblicato sulla rivista Nature Communications, in cui Tomasz Suchan e colleghi documentano il ritrovamento lo scorso ottobre di un gruppo di farfalle nella Guyana francese appartenenti alla specie Vanessa cardui, le cui condizioni, piuttosto che caratteristiche inerenti, costituivano un sostanziale cambiamento delle nostre cognizioni in merito alle capacità e predisposizioni di cui esse possono risultare dotate. Comparendo in spiaggia, in posizione di riposo, con ali dall’aspetto piuttosto rovinato. Esattamente come tende ad avvenire dopo i lunghi e faticosi voli migratori affrontati ad ogni cambio di stagione da questi agili insetti, con una singola quanto importante diversità di contesto. Quella verso cui la squadra di ricerca avrebbe fatto riferimento approfondendo i propri validi sospetti, giungendo a dimostrare quanto precedentemente sarebbe stato considerato assai probabile: l’effettiva provenienza di questo minuto gruppo di creature, dal vecchio continente e per essere precisi dall’Africa, partendo dalla quale in una traversata “al contrario” rispetto al normale (durante l’autunno boreale, il più delle volte, simili creature volano in direzione sud) hanno deviato verso ovest fino alle prime propaggini di quell’azzurrina distesa che noi siamo soliti chiamare Oceano Atlantico. Per attraversarlo, agevolmente, da un lato all’altro. Impresa niente meno che impressionante per creature dall’apertura alare di 20-23 mm, benché dotate della migliore conformazione adatta al volo raggiungibile attraverso i processi d’evoluzione. E che potrebbe aver richiesto in base alle teorie degli studiosi un periodo di circa 6-8 giorni, senza riposo, senza l’opportunità di poggiare le proprie zampe o ricerca alcun tipo di nutrimento prima del concludersi del coraggioso tragitto. Una predisposizione, quest’ultima, possibilmente accessibile alle farfalle proprio per il loro possesso di una piccola ma significativa riserva di grasso, mantenuta sotto l’addome al compiersi della metamorfosi dopo la prima e più lunga fase della loro esistenza. Mentre in merito a come abbiano potuto mantenersi abili all’impresa per tutto il tempo necessario a compierla, gli scienziati non hanno dubbi, facendo riferimento alla probabile capacità di planare sfruttando correnti aeree e ventose, una possibilità ulteriormente esplicitata dagli almeno due giorni climaticamente favorevoli a tal fine documentati nel periodo immediatamente antecedente alla probabile conclusione dell’itinerario. Un proposito, cionondimeno, abbastanza incredibile da richiedere l’ottenimento di una serie di conferme mutualmente utili allo scopo…
volo
Come ricercando un metodo per avviare gli aerei, nacque il primo mezzo di supporto nei campi di volo
L’uomo avanza sulla pista con il suo veicolo dotato di una protrusione evidente. Il suo incedere è piuttosto lento, ma la destinazione chiara. Finché giunto innanzi al placido biplano Bristol F.2B Fighter, estende il palo verticale e poi manovra lentamente fino al mozzo dell’elica fermo dai tempi della prima guerra mondiale. Un guizzo, un bacio, un trasformazione: adesso ciò che marcia e quello che decolla, appaiono come una cosa sola. Con un singolo mulino a vento che agisce come punto di congiunzione. Il quale inizia, ben presto, a girare…
Molte sono le caratteristiche tecnologiche dei mezzi di trasporto, in via teorica inerenti, che derivano effettivamente da lunghi anni o decadi di perfezionamento. Anche quando, nella procedura alternativa che deriva dalla loro assenza, si prospetta un’usabilità di veicoli o dispositivi drasticamente ridotta. Persino inaccessibile, dal punto di vista dei loro utilizzatori moderni. Prendete, per esempio, l’aeroplano: il più avanzato ed ingegneristicamente comprensivo approccio agli spostamenti su media o lunga distanza, in cui ogni aspetto è incorporato con preciso intento, attentamente calibrato e privo di evidenti prospettive d’inefficienza. Ed è proprio nella continuativa applicabilità di tale importante aggettivo, fin dall’inizio del XX un pilastro dell’aviazione, che si può individuare il nocciolo della questione in oggetto. Giacché quando ancora un sistema elettrico volante d’inizio secolo, che avrebbe dovuto essere basato su pesanti batterie chimiche, sembrava profilarsi come superfluo, perché mai includerlo? Ed a quel punto, come sarebbe stato possibile far partire il motore? Giacché radiale o in linea che fosse, indipendentemente dal numero dei cilindri presenti, ciascun meccanismo necessitava di essere ottimizzato per il funzionamento a regime. E non aveva un modo incorporato, per dar l’inizio alla sferragliante festa del movimento. Si supponeva d’altro canto che i piloti fossero dei giovani piuttosto forti ed agili nei movimenti. Per cui nulla o nessuno avrebbe mai potuto scoraggiarli dall’alzare le proprie mani ed impugnare saldamente l’elica. Andando a imporgli il quarto, mezzo o tre quarti di una rotazione completa, necessari affinché i magneti d’avviamento si “scaldassero” abbastanza, generando la scintilla vivificatrice. Ecco dunque, in linea di principio, l’idea. La cui realizzazione pratica appariva già piuttosto complicata in un primo momento. E lo diventò ancor più con il procedere degli anni, man mano che i velivoli diventavano più grossi, alti e potenti. Il che avrebbe richiesto a un certo punto l’introduzione di una seconda idea. Il cui proponente passò alle cronache con il tri-nome di Bentfield Charles Hucks. Era quasi il novembre del 1918, quando la grande guerra stava finalmente per concludersi riportando una sospirata pace tra le Nazioni…
X-24B, l’evoluzione pratica di un ferro da stiro volante
La progressiva comprensione dell’aerodinamica ha costituito uno dei processi, imprescindibili e fondamentali, affinché fosse possibile sperimentare il volo più pesante dell’aria. Quell’approccio alla sconfitta gravitazionale in cui una volta superata l’essenziale problematica del “galleggiamento” superno, macchine in grado di spostarsi a gran velocità riuscivano a sfruttare il principio della portanza, costruendosi un cuscino d’aria in grado di perfezionare quel rapporto privilegiato tra cielo e terra. Eppure anche dopo aver inviato interi equipaggi sulla Luna, gli scienziati continuavano ad avere il fastidioso senso di essere stati elusi da qualcosa, un rivelazione in grado di cambiare in modo sostanziale il rapporto funzionale dei singoli concetti operanti. Perché se un missile dalla forma aerodinamica era il miglior mezzo in grado di varcare i confini superiori dell’atmosfera, l’unico modo per tornare al suolo era mediante l’utilizzo di una capsula passiva e dotata di paracadute? Perché la dotazione di un fucile anti-orsi doveva far parte del corredo a bordo, tanto imprevedibile risultava essere l’esatto punto di atterraggio ove gli occupanti potevano trovarsi a toccare nuovamente il suolo? Trovare una risposta a queste ed altre simili domande fu la mansione assegnata dalla recentemente ribattezzata NASA, all’inizio degli anni ’60, alla compagnia aerospaziale esterna Martin Marietta, tra i molti fornitori coinvolti nello stratificato progetto del cosiddetto “corpo portante”. Un importante sviluppo sperimentale, mirato alla dimostrazione di come un aereo potesse prolungare il proprio tempo via dal suolo anche in assenza di ali propriamente dette, purché fosse la sua stessa fusoliera ad avere una forma pratica capace di generare una spinta verso l’alto regolare e costante. Certo, a patto di muoversi in maniera sufficientemente veloce e rinunciando almeno in parte alla propria maneggevolezza. Il che non sarebbe stato necessariamente un problema, visto il campo d’applicazione presunto: quello di un velivolo, con uomini a bordo, intento a discendere in un solo pezzo dallo spazio anaerobico dell’orbita terrestre. Per poter centrare, come la freccia scagliata da un esperto, una delle poche piste d’atterraggio sufficientemente lunghe da poterne ospitare il ritorno. L’idea teorizzata per la prima volta nel 1962 da R. Dale Reed, riprendendo il concetto di un antico brevetto del 1917 di Roy Schroggs, piacque da subito ai vertici dell’ente spaziale americano, tanto da giustificare la creazione di una serie di disegni dalla forma estremamente insolita e distintiva. Era stato infatti scoperto come una forma bulbosa, del tutto simile a un proiettile o una supposta, potesse spostare in avanti rispetto alla fusoliera la formazione dell’onda d’aria supersonica, creando una sorta di scudo naturale in grado di proteggere la fragile struttura dell’aeroplano dalle spaventose forze del rientro lungo il pozzo gravitazionale terrestre. Ben presto una lunga serie di alianti costruiti principalmente in legno furono impiegati al fine di dimostrare un simile principio tecnologico contro-intuitivo. Il più avanzato e riuscito dei quali si sarebbe in seguito evoluto nel fallimentare Northrop M2-F2, destinato a schiantarsi rovinosamente nel suo sedicesimo volo il 10 maggio del 1967. Ma il genio a quel punto, era per così dire fuori dalla bottiglia ed ingegneri del più alto calibro furono messi all’opera per riuscire a perfezionare i crismi funzionali dell’importante idea di partenza…
L’arcaico Berliner, punto d’incontro tra l’elicottero e il Barone Rosso
Quando si sta pensando al giusto modo di librarsi in volo, esistono una grande quantità di alternative a disposizione. Ma nel momento in cui ci si aspetti di rimanere staccati da terra per un tempo superiore al minuto, controllando traiettoria, assetto e poter scegliere persino una destinazione, le possibilità si riducono drasticamente: pallone aerostatico (con il motore), ala fissa o aerogiro. Con il terzo dei suddetti casi ulteriormente escluso dalla lista delle scelte percorribili per molti aspiranti piloti, considerato il pregiudizio persistente nei confronti di un oggetto che può perdere la propria leggerezza non appena un guasto meccanico causa l’arresto del suo rotore. Una possibilità da lungo tempo paventata nel mondo dell’aviazione, molto prima che venisse messa in chiaro l’autorotazione, eppure non considerata necessariamente pregiudizievole all’impiego di un simile approccio nella realizzazione del Sogno dell’Uomo. Tanto che già Leonardo da Vinci, nei suoi codici, ne aveva disegnato uno. Ma l’elicottero, con tutto il comparto di elementi tecnologici controintuitivi, non avrebbe incontrato una realizzazione funzionale molto prima del famoso Flyer dei fratelli Wright, in diverse accezioni contrastanti ognuna delle quali più o meno riuscita sotto alternativi punti di vista. Creazioni tra le quali, per lo meno in un primo momento, le più avanzate furono fin dal remoto 1907 quelle di un inventore già lungamente affermato: Emile Berliner, ebreo tedesco emigrato negli Stati Uniti trent’anni prima, per sfuggire al reclutamento forzato nella guerra Franco-Prussiana. Soltanto per vedersi, come molti altri sapienti della propria epoca, un brevetto revocato a favore di Thomas Edison, i cui legali dimostrarono che fosse stato l’altro ad aver inventato per primo il microfono telefonico. Ancorché nulla di simile sarebbe capitato invece per il disco piatto da grammofono, sostitutivo del cilindro precedente, probabilmente il principale lascito di questa importante figura. Non tutti ricordando, tuttavia, la passione che egli possedeva anche per un altro campo tecnologico, quello dei velivoli capaci di portare l’uomo via dal suolo e verso il regno empireo delle nubi sottili. Così come fatto in quel radicale primo esperimento costruito con l’aiuto del meccanico J. Newton Williams, in cui attaccato un sedile di appoggio all’assemblaggio con doppia elica coassiale, si staccò da terra per alcuni metri e pochi, notevoli minuti. Il problema iniziale dell’elicottero Berliner, destinato almeno in parte ad essere ereditato dalle sue iterazioni successive, rimaneva d’altra parte l’assenza del complesso sistema meccanico del piatto oscillante o collettivo, in grado di trasmettere il moto rotativo anche mentre il disco risultante veniva intenzionalmente inclinato da una parte o dall’altra con il fine di direzionare gli spostamenti. Il che lasciava, oggettivamente, dei significativi margini di miglioramento se non che nell’immediata decade a venire, il già più che cinquantenne ingegnere scelse di dedicarsi in modo preponderante all’alleggerimento ed il miglioramento dei suoi motori. Un principio che avrebbe portato, nell’immediato, alla fondazione della compagnia Gyro Motor di Washington D.C. e la produzione in serie del primo motore rotativo (non più semplicemente radiale) utilizzato estensivamente nel campo dell’aviazione, a partire da un modello automobilistico creato inizialmente dalla Adams-Farwell di Dubuque, Iowa. Il dispositivo in questione nelle sue diverse versioni, del peso contenuto nonostante i fino a 110 cavalli di potenza, venne dunque immesso sul mercato con l’obiettivo di trovare impiego nei successivi esperimenti elicotteristici del suo creatore. Ciascuno progressivamente più vicino, in modo sorprendente, all’idea che aveva da principio messo in moto le possenti province del suo cervello…