L’ultima speranza di un camionista che ha perso i freni

Giu, giu nel corno geografico che si chiama Messico, guidando all’indirizzo della città Puebla de Zaragoza, alla ricerca di un cambio di registro e di tono. A bordo di una 4×4 a noleggio, un viaggio lungo l’ampia autostrada che si estende dalla città nordica di Veracruz, fra boschi radi e brulle colline dai fili d’erba sparuti. Nel quale, ad un punto saliente del pomeriggio, vi trovate dinnanzi a un gigante da 16 ruote. È un grosso camion recante il logo di una compagnia di trasporto; voi non potete ancora saperlo, ma a bordo c’è un carico di rotoli di carta per la stampa dei giornali, dal peso approssimativo di quasi 120 tonnellate, il limite massimo di questo paese. Pensando che è già venuta l’ora di sorpassare, vi allargate a sinistra, quando all’avvicinarsi di una lieve curva, inspiegabilmente, il guidatore dell’autocarro si allarga fin quasi al guard-rail, con l’apparente obiettivo di non caricare eccessivamente le sospensioni. “Ma è pazzo?!” Suonate il clacson. Nessuna apparente reazione. Il mostro stradale, come un toro imbufalito, continua a misurare la strada. Con l’arrivo di una discesa, quindi, accelera, fino al ritmo imprudente di oltre 130 Km/h, mentre del fumo bianco inizia a fuoriuscire dai passaruota. Iniziate ad avere un vago sospetto, confermato dal progressivo avvicinarsi di una sirena, che poi si rivela essere quella della polizia. “Quel camion…Non può…Frenare.”
Ora se fossimo in Italia, non ci sarebbe molto da fare, se non tenere ben saldo il volante e sperare per il meglio. Proprio la nostra penisola in effetti, sfortunatamente, rientra in un di quei paesi in cui per questa eventualità tutt’altro che rara non esiste alcun piano di contingenza. Può succedere. Perché i mezzi stradali più pesanti, piuttosto che i freni meccanici presenti sulle nostre comune automobili, sono dotati di uno o due serbatoi pneumatici, la cui aria compressa è impiegata per mantenere il mezzo in grado di rallentare normalmente; il che significa, sostanzialmente, che un eventuale guasto comporta l’immediato arresto del veicolo, poiché la condizione “neutrale” delle pasticche è a contatto con gli pneumatici, da cui esse possono distaccarsi solamente se la pressione del circuito risulta essere sufficiente. Immaginate ora che cosa succede se un tale meccanismo si attiva e nonostante le premesse, non basta a fermare la folle corsa, perché il camion è troppo pesante, o andava troppo veloce. Immediatamente i freni si surriscaldano, cambiando forma e diventando quindi meno efficaci. Sottoposti all’attrito eccessivo, essi si consumano quasi immediatamente, mentre continua imperterrito quel viaggio di perdizione. L’unica manovra che resta al guidatore, purché mantenga il suo sangue freddo, è cercare un punto in cui esaurire l’inerzia, possibilmente, senza fare una strage. Ma un veicolo come questo, a pieno carico e lanciato a regime, a motore spento può proseguire per miglia a miglia; ammesso e non concesso che non incontri una discesa. Nel qual caso, potrebbe trovarsi persino ad accelerare. Ed è qui che entra in gioco la previdenza di chi aveva architettato, in precedenza, la strada. Il sistema della rampa di fuga ed arresto (in inglese runaway ramp) è in realtà molto diffuso nel mondo: esiste negli Stati Uniti, in Australia, in Francia, Germania, Austria, Spagna, Svizzera, Cina. E per la fortuna di questo signore, trova posto anche su alcune delle principali autostrade messicane. E sarebbe bello poter dire: “Ah, si. La conosco.” Quando la realtà è che all’interno dei confini della nostra nazione europea, una simile presenza risulta del tutto ignota. Si tratta di una corta via parallela, costruita in genere al termine di significativi dislivelli ed adeguatamente segnalata, in cui il camionista senza controllo può dirigersi, confidando che il suo mezzo si fermerà. Questo grazie ad una serie o combinazione di artifici, che possono includere una pendenza in salita, la presenza di ghiaia, sabbia o in casi estremi, un sistema di particolari reti messe di traverso, che pur danneggiando il veicolo gli impediranno di cadere giù da un letale dirupo. L’alternativa è quasi sempre peggiore: nel caso del camion messicano, il dramma si è svolto lo scorso 26 maggio, all’orario di punta delle ore 19:00. L’eventualità di un incidente di simili proporzioni avrebbe quindi portato, irrimediabilmente, ad una pluralità di vittime tra gli impiegati di ritorno dal lavoro.

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Cosa fare se si cade nel lago ghiacciato

Pattinare lietamente sopra il lago. Praticare un foro con il trapano a mano, in cui far penetrare la pregiata lenza. Giocare una partita a palle di neve, in un luogo in cui nessun albero possa essere impiegato come copertura. La vita è fatta di piccoli momenti che si muovono ordinatamente in fila, come le zampe di un millepiedi ubbidiente. Finché sul sentiero, sfortunatamente, non capita un oggetto inaspettato: il sasso, il cappuccio della penna, il pezzo di buccia di limone. Ed è a quel punto, in genere, che accade il patatrac. Orribile terrore. Inclemente dannazione. Eh, già! Nonostante le attenzioni, la prudenza, l’incombente senso di condanna che ci segue dal mattino fino a sera, tutte cose che ci portano a evitare “la cosa” è inevitabile che a volte “la cosa” riesca nondimeno a verificarsi. A quel punto, dunque, tutto quello che ci resta è rimanere immobili, sprofondare. E morire. O lasciarci andare al flusso dell’istinto, agitandoci in maniera forsennata, nel tentativo di tornare in qualche modo tra i viventi. E morire, lo stesso. Cosa pensavate? Che fosse possibile, senza alcun tipo di aiuto, tirarsi fuori dall’acqua prossima allo zero, mentre ci si trova nel bel mezzo di una lieve superficie trasparente, la quale molto chiaramente, non può sostenere il nostro peso umano? Voglio dire, tutto è possibile. Ma ammesso e non concesso che una persona comune si ritrovi in questa situazione prossima alla Fine, cosa volete che ne sappia, costui, del giusto metodo di comportarsi…A meno che…Abbia visto l’utile video educativo di Adam Walton, guida del Wisconsin e fondatore della compagnia Pike Pole Fishing, grande pescatore nonché paramedico certificato dei pompieri di Edgerton, nella contea di Rock. L’uomo disposto a soffrire un simile destino per ben tre volte, se soltanto questo può servire a salvare delle vite da qualche altra parte, prima o poi. È tutta una questione di priorità. Una volta che il fisico si abitua, tutto ciò che resta e dominare i propri istinti con la mente. E il senso assoluto d’autodeterminazione.
La scena inizia in un giorno dall’aspetto alquanto polare (a dir poco) con cielo coperto dalle nubi e suolo totalmente imbiancato, tutto attorno ad una polla d’acqua la cui superficie, ormai, è stata trasformata in uno specchio semi-opaco. Poco prima che costui, o i membri della sua nutrita equipe, praticassero un ampio foro dalla forma grossomodo circolare, inteso a rappresentare lo spacco “accidentale” che sarebbe stato indotto dall’incauto sopraggiungere dell’uomo o donna soprastante, per ingoiare entrambi e trascinarli al di sotto della soglia di sopravvivenza. I più attenti ai dettagli, a questo punto, avranno già notato che l’eroe del giorno indossa un pratico giubbotto di salvataggio, facilitazione che probabilmente, ben pochi di quelli coinvolti in simili incidenti hanno avuto dalla loro parte. Ma piuttosto che criticarlo per il poco realismo, io preferirei intendere questo dettaglio come il primo, e più importante dei consigli: se c’è questo bisogno, più o meno motivato, d’inoltrarsi verso il centro del lago ghiacciato, indossatelo! Non vi verrebbe mai in mente di nuotare fin lì senza averlo. E ghiaccio o non ghiaccio, là sotto c’è ancora la stessa identica massa d’acqua, pronta ad accogliervi nel suo soffocante abbraccio. C’è appena il tempo di pensarlo, quindi, quando Adam prende e si tuffa senza un attimo di esitazione, sprofondando immediatamente fino al petto. Prima iterazione: l’ipotesi peggiore. Non avete attrezzi di nessun tipo, e l’aiuto è ancora lontano. Un essere umano in buona salute, generalmente, può sopravvivere nell’acqua a 0 gradi tra i 10 e i 15 minuti, oltre i quali, sopraggiunge il torpore e gli organi cessano di funzionare correttamente. Prima di reagire istintivamente, dunque, occorre fare i propri calcoli accurati. Questo è il primo aspetto sorprendente del video: se cadete laggiù, non tentate subito di tirarvi fuori, ci spiega lui. Aspettate almeno 2 o 3 minuti, perché il corpo cessi d’iperventilare in modo incontrollato e sopraggiunga nuovamente l’assoluta calma. Può sembrare assurdo, ma da un certo punto di vista non lo è per nulla. Se si pensa che le nostre energie residue, a quanto ne sappiamo, siano sufficienti per un unico tentativo, sarà nostro interesse assicurarci di effettuarlo mentre siamo al nostro meglio. Balzando fuori, nella speranza che l’intento porti ai risultati tanto disperatamente ricercati.

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Basta cani da valanga, è tempo di affidarsi al Gulo gulo

Wolverine Rescue

Tra tutti i personaggi dei fumetti ispirati in qualche maniera ad un animale, nel loro nome, reputazione o costume, l’artigliato Wolverine, probabilmente il più popolare degli X-Men, è forse l’unico ad avere una corrispondenza col suo totem bestiale che possa definirsi di un tipo, per così dire, principalmente psicologica. Certo la volverina, una creatura imparentata con la donnola che in Italia è spesso definito “ghiottone” (dopo tutto questo è il significato del suo appellativo latino) ha pure lui il suo bel set d’unghioni, che comunque non sono assolutamente retrattili come quelli del gatto o per l’appunto, del supereroe. È inoltre molto resistente alle ferite e agli infortuni di ogni tipo, come del resto qualsiasi altro animale selvatico che vive in degli ambienti inospitali, ma non può certo rigenerare le parti offese alla maniera di una stella marina, o dell’interpretazione più famosa del prestante attore Hugh Jackman, l’uomo dai basettoni trasformabili che fa spesso da contrappunto alla distaccata razionalità di Patrick Stewart/il Dr. Xavier. Così le somiglianze tra i due omonimi, la belva quasi umana e l’uomo dall’istinto combattivo, finiscono per concentrarsi soprattutto nell’ambito caratteriale, visto che ben pochi potrebbero definire l’alter-ego indistruttibile di James “Logan” Howlett, come nient’altro che tenace, indefesso, caparbio, volitivo. Tutte caratteristiche che, in qualche maniera, possono tranquillamente essere attribuite all’omonimo compatto, peloso e ringhiante abitatore dell’intero Settentrione del mondo, dall’Alaska alla Kamčatka, dal Canada alla Siberia. Ora, qualcuno ha pensato che simili doti potrebbero davvero, essere utili all’umanità. E tutto in funzione di un’accidentale, drammatica presa di coscienza individuale…
Mike Miller, direttore esecutivo dell’Alaska Wildlife Center, rinomato centro di conservazione faunistica, si trovava presso Hatcher Pass, nelle Talkeetna Mountains, per fare da consulente in occasione della realizzazione di uno spot pubblicitario, all’interno del quale doveva comparire niente meno che una renna vera (probabilmente, di Babbo Natale?) Ora, mentre aspettava il resto della troupe, si ritrovò a conversare con un ranger del parco, che gli indicò un veicolo parcheggiato in fondo al piazzale: “La vedi quell’auto, Mike? Devi sapere che è di una donna che ha perso suo figlio in una valanga, diverse settimane fa. Il corpo non è stato ancora trovato e da allora lei, senza mancare un solo giorno, viene qui nella speranza di potergli dare degna sepoltura…” Terribile, agghiacciante. È del resto una realtà del mondo innevato, spesso trascurata dal cinema di genere o i documentari, che l’attività di soccorso effettuata dai cani addestrati per rispondere ai disastri montani si trasformi, nella maggior parte delle volte, in una missione di recupero dei già defunti. Una volta soverchiato dalla massa solida dell’acqua semi-congelata, infatti, il corpo umano non può sopravvivere che pochi, tragici minuti. Ed a quel punto, lo stimato naturalista non potè fare a meno di chiedersi tra se: “Possibile, che non si possa fare qualcosa per queste persone?” Ora, un cane è ovviamente un animale formidabile. Dall’olfatto rinomato, eternamente pronto ad imparare e dar soddisfazione al suo padrone. Che vorrebbe sempre, con ogni residua fibra del suo essere, rendersi utile a un profondo bene universale. Ma qualsiasi Pastore Tedesco, Labrador o San Bernardo, per quanto abile e capace, non si è evoluto per cercare nella neve. Non è perfettamente predisposto a questo compito, e non lo sarà mai. Così, perché no, la volverina, che notoriamente possiede un olfatto pari o superiore a quello del suo distante cugino quadrupede abbaiante? Ah, ci sono innumerevoli ragioni. In primo luogo, quasi nessuno è mai riuscito ad ammaestrare uno di questi animali, dalla reputazione di ferocia comparabile a quella del diavolo della Tasmania, o per essere ancor più diretti, a Lucifero stesso. Tanto dovrebbero essere mordaci, nell’opinione di tutti, questi carnivori da 20-30 Kg, Ma aspetta un attimo. Ho appena detto, QUASI nessuno? Beh, in effetti qualcuno c’è. Una singola, notevole persona…

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I tre gradi dello spiaggiamento dei pinnuti

Beached dolphin

Due mondi contrapposti che non hanno che l’ossigeno in comune. Ma persino quello, sopra o sotto l’acqua, si presenta in forma totalmente differente. Tanto che coloro che hanno branchie, normalmente, non possono venire all’aria. Così viceversa per noialtri, pre-forniti di polmoni e due narici, nulla più. Eppure sussistono, in bilico nel luogo di passaggio, degli esseri specializzati, la cui vita già dall’epoca remota era del tutto simile a quella dei pesci vertebrati, nonostante fossero forniti degli stessi limiti respiratori. Poi con il trascorrere delle epoche, attraverso il passo dell’evoluzione, le cose sono largamente migliorate. Perché cetaceo vuole dire questo: specializzazione. Se sei un mammifero marino, non puoi farti condizionare dalla situazione. Il fatto è che un delfino, una balena misticeta, una focena, nelle due sacche per il gas hanno alveoli d’efficienza superiore. Laddove l’uomo, per quanto riesca a migliorarsi nella disciplina dell’apnea, può assorbire grosso modo un quinto dell’ossigeno nell’aria, esistono creature come quelle, in grado di sfruttarne fino a nove parti su dieci. Più che sufficienti a prolungare l’immersione per toccare il fondo, risalire, scendere di nuovo, fare incetta delle proprie prede e non sentirsi, in alcun modo, svantaggiati giù tra l’acque dei fondali. Tutto questo ha un prezzo, naturalmente. Giacché l’energia a disposizione, sia questa intesa come calorie dell’individuo, oppur mobilità tra una generazione e l’altra, resta ad ogni modo limitata. E nessuna specie potrà mai salvaguardarsi dalle situazioni rare, per quanto pericolose, ovvero inerentemente scollegate dalla selezione naturale in  larga scala.
Cominciamo in modo semplice, come si usa fare, soprattutto perché questo è un caso tanto immediatamente comprensibile, che non può fare a meno di evocare un certo grado di empatia e di compassione. Era soltanto un cucciolo di Criccieth Bay! Lassù nel Galles settentrionale, dove l’ombra dell’omonimo castello, costruito sulle rocce in grado di dominare l’intera regione del Cardigan, raggiunge ancora gli antichi tumuli dei Celti, residui silenziosi dell’Età del Bronzo. Qui si muove un pescatore che è anche il personaggio principale della scena, un tale di nome Rich Wilcock, con il suo springer spaniel, il fido cane Leia. I due che camminavano serenamente per il lungomare, telecamera alla mano del padrone, al fine probabile di documentare lo splendore (a dire il vero un po’ grigiastro) di una tale terra nordica e pacata. Quando all’improvviso, sopraggiunge la sorpresa. Il piccolo delfino scuro, lì nel bagnasciuga, intrappolato come un imenottero nella crudele teca tra la sabbia e il mare, il Sole, il flusso delle cose divergenti. Non siamo al cospetto in questo caso, ciò è subito evidente, di uno spiaggiamento estremamente significativo. L’odontoceta in questione, senza alcun dubbio, si sarà smarrito per l’inesperienza, perdendo sempre più l’orientamento e ritrovandosi alla fine, suo malgrado, in questa condizione totalmente priva di una prospettiva di salvezza. Neppure la famiglia o il clan di una simile piccola creatura sfortunata, superato l’attimo di dubbio, ricorderà la sua mancanza a lungo termine, perché in fondo questa è la natura. Procedere al di fuori del problema, risollevar le sorti dell’avverso fato. Continuare sulla propria rotta nonostante le tragedie, intempestive.
Se non che l’uomo intento nel suo vagheggiare, all’improvviso, sente il cane che si agita, comprende il segno del problema e realizza un piano che credo quasi chiunque di noialtri, trovandosi lì a fianco, avrebbe sùbito appoggiato. Così prende quella coda e la trascina via lontano, in mezzo al mare che vuol dire libertà. Poi di nuovo, visto che l’animale ritornava verso riva. Poi di nuovo.

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