Il comandante George Scott Stewart non si faceva particolari illusioni sulla possenza del suo vascello: con un dislocamento di 1.717 tonnellate e una lunghezza di 105 metri, il cacciatorpediniere britannico Porcupine costituiva un tipico rappresentante della classe P, una delle 16 navi costruite a Newcastle upon Tyne in tutta fretta all’inizio della guerra nel 1939, armata con cinque cannoni “QF 4” da 102 mm, quattro “QF 2” da 40, sei cannoncini automatici, quattro lanciasiluri e quattro lancia bombe di profondità. Assegnato di scorta al battello di supporto sommergibili Maidstone tra Gibilterra ed Algieri durante l’Operazione Torch per lo sbarco degli alleati in Nordafrica, egli manteneva quindi il suo equipaggio in stato di allerta media nei dintorni delle coste di Orano, in Algeria, pronto a correre ai posti di combattimento al primo annuncio di un possibile pericolo all’orizzonte. Ciò che egli stava per scoprire, in quel drammatico 9 dicembre 1942, è che non tutti i nemici sono soliti annunciare la propria presenza e qualche volta, nonostante l’addestramento pregresso, c’è ben poco che si possa fare per evitare il verificarsi di un disastro. “Allarme, allarme, segno di un siluro all’orizzonte!” Gridò l’ufficiale di guardia situato in poppa, dando principio a un brivido che in pochi attimi, diventò il segnale ripetuto da un settore all’altro della nave. Il capitano, reagendo subito con competenza, gridò al timoniere in plancia di tenersi pronto a virare a babordo, benché non fosse ancora il momento di farlo. “Confermato, increspatura a 210, 215 gradi signore! Niente ancora sul sonar! Pronti ai suoi ordini!” Stewart corse quindi alla finestra d’osservazione del ponte di comando, prendendo nota del modo in cui l’ordigno lanciato dal sommergibile tedesco si stava muovendo. E fu allora che proprio lui, scorse quanto aveva già sospettato, rivolgendosi al secondo ufficiale “Ce ne sono almeno quattro, disposti a ventaglio. Nessuno sembra diretto verso di noi: hanno mirato alla Maidstone!” Quindi si rivolse all’addetto al coordinamento dei sistemi d’armi: “Smith, comunicate all’equipaggio d’iniziare il rilascio di bombe di profondità, intervallo di 45 secondi. Probabilmente non riusciremo a fermarli, ma almeno gli daremo qualcosa di cui essere preoc…” Impatto, un boato impressionante, il tempo che sembra fermarsi; quella frase, non sarebbe mai stata completata poiché un quinto siluro, non visto, aveva raggiunto con successo la parte centrale della Porcupine, esplodendo in maniera perfettamente predeterminata. Un migliaio di tonnellate d’acqua, trasformato temporaneamente in vapore, si espanse contro lo scafo del cacciatorpediniere, sollevandolo letteralmente a diversi metri dalle onde del mare. Il collasso conseguente delle bolle soggette a immediata compressione, quindi, lasciò precipitare nuovamente l’imponente oggetto verso le profondità marine, che semplicemente, non resse il colpo. Ora il comandante faticava per riprendere fiato, reggendosi al corrimano della sala di controllo. Il secondo ufficiale si stava rialzando, senza ferite apparenti. Mentre lo aiutava non ebbe quindi nessun tipo di esitazione mentre afferrava l’interfono scagliato a terra dall’urto: “A tutti i membri dell’equipaggio, qui il capitano. Ordine immediato: evacuare la nave. Ripeto, evacuare la nave!”
Molte sono le possibili conseguenze garantite dall’attacco portato a segno da un U-Boat tedesco, letterale “lupo-in-caccia” dei mari nel corso dell’intero periodo del secondo conflitto mondiale, temibile congiunzione di notevole potenza di fuoco, scaltrezza tecnologica ed una disciplina estremamente valida a garantire la realizzazione degli obiettivi, assegnati di volta in volta dal comando centrale della Germania. Ciò che generalmente può essere dato per certo, tuttavia, è l’assoluta distruzione del bersaglio, con probabile affondamento di lì a poco e indipendentemente dal numero di vittime o quantità di marinai abbastanza fortunati da salvarsi. A meno che, speciali contingenze transitorie e la fortuna del fato, permettano ai suddetti soggetti di mettere un piano di riserva che nessuno, fondamentalmente, avrebbe mai avuto il modo o la ragione di aspettarsi…
porti
Agente speciale Beluga, la spia venuta dal mare di Barents
“Niente foto, umano sul pontile, niente foto. Acqua in bocca e soprattutto, niente video!” sibilò in un canto acuto degno del leggendario canarino di mare Hvaldimir, la creatura con il nome composto in egual misura da hval, balena in lingua norvegese e Vladimir dall’attuale presidente della Federazione Russa, per associazione mass-mediatica d’idee. Ma a quel punto era già troppo tardi, mentre Joachim Larssen, viaggiatore bipede in visita presso il porto di Hammerfest nel Finnmark, estrema punta settentrionale del continente europeo, puntava la sua videocamera GoPro verso il grazioso muso della creatura dal peso di una tonnellata e mezzo, bianca come la neve, gli occhi neri tondi e privi di espressione facile da interpretare. Ragion per cui nessuno, essenzialmente, avrebbe mai potuto ipotizzare il suo effettivo stato d’animo, all’essere di nuovo diventata, volente o nolente, la balena più famosa dei Sette Mari. “Basta, l’hai voluto tu!” Fischiò quindi, benché tale affermazione risuonasse come una risata frutto delle buffe circostanze; poco prima d’afferrare saldamente, con la grande bocca dai denti radi (a cosa servono d’altronde, quando trangugi il pasto tutto intero?) quell’oggetto digitale, per poi trascinarlo fino al fondo della baia in mezzo a spazzatura, pezzi di plastica e detriti abbandonati. Segue qualche attimo nel buio e nel silenzio mentre noi, gli spettatori, siamo portati a chiederci in quale maniera, esattamente, queste immagini abbiano raggiunto i nostri schermi. Finché 3, 2, 1… Risaliamo per veder la luce, assieme a quella telecamera, consegnata nuovamente nelle mani del suo proprietario, direttamente dalle fauci sghignazzanti di quel mattacchione, Hvaldimir il giovane beluga.
Fastidio, allegria, divertimento? Chi può dirlo. L’attuale stato d’animo di questa vera e propria celebrità, trattata in infiniti articoli a partire dall’aprile scorso, quando venne avvistata per la prima volta da un’imbarcazione di pescatori locali a largo dell’isola di Ingøya, all’interno di un’areale normalmente non frequentato dalla sua specie. E con qualcosa addosso che potremmo definire, per usare un eufemismo, come una vera e propria eccezione degli eventi: una sorta di imbracatura/collare, evidentemente messogli addosso in circostanze pregresse come parte fondamentale di una qualche iniziativa umana. Furono quindi proprio costoro, Joar Hesten e colleghi, a notare per primi come l’animale presentasse un’indole socievole tale da lasciarsi avvicinare ed accettare il cibo dagli sconosciuti, per seguire quindi da vicino il movimento dell’imbarcazione. E decidere, sull’onda del momento, di fare il possibile per liberarlo dallo strano oggetto, dapprima sporgendosi e tentando di slacciarlo, quindi giungendo a mettersi la muta per tuffarsi nelle gelide acque provenienti dal Circolo Polare Artico. Al che finalmente, il capo d’abbigliamento venne tolto e trascinato a bordo, con apparente gratitudine del candido cetaceo, ben presto ritornato alle profondità abissali dell’oceano settentrionale. Soltanto per scoprire, qualche ora dopo, sopra il giogo per mammiferi marini, la dicitura carica di un qualche misterioso significato: equipaggiamento di San Pietroburgo. “E non trovate anche voi…” Si dissero a vicenda i primi scopritori: “Che l’attacco superiore dell’imbracatura fosse l’ideale per un’arma o telecamera di qualche tipo?”
L’essere umano, tra tutti gli utilizzatori dell’Oceano, è sempre stato quello che ama maggiormente le storie. E ancor più che agli altri, tale descrizione si applica a una ciurma di marinai. Così che non ci volle molto, perché al gruppo ritornasse in mente la questione ormai semi-leggendaria dei cosiddetti delfini da guerra, e anche beluga s’intende, famosamente addestrati sia dalla marina statunitense che quella sovietica tra gli anni ’70 e ’80, al fine di assistere con lo sminamento delle acque, infiltrarsi oltre le linee di un paese ostile o quando necessario, trasportare bombe o far direttamente fuoco contro gli intrusi. Tanto più che nel ben più recente 2017, uno strano servizio mandato in onda dalla Tv di stato russa Zvezda ha ebbe l’occasione di mostrare al pubblico la maniera in cui esperimenti simili fossero recentemente ritornati in auge, sostenendo la potenziale ipotesi che uno degli esemplari fosse potenzialmente fuggito, o per usare un termine maggiormente specifico avesse disertato verso i territori di un paese straniero…
La strana forma della nave che potrebbe trasportare un grattacielo
Le acque spumeggianti del porto ghermivano i bianchi moli de La Valletta, protesi come altrettante dita in un caloroso abbraccio nei confronti dell’oggetto in mare. L’alta cupola della Basilica di Nostra Signora, i pinnacoli della Concattedrale di San Giovanni e le torri difensive degli antichi cavalieri di Malta coi loro cannoni poste ad osservare, con la stessa immobile apparenza, il loro specchio metaforico comparso in una mattinata d’agosto di quel significato anno 2013: quattro alti palazzi, chiaramente edificati dal dio Nettuno, giunti misteriosamente al centro della laguna. Al fine di accerchiare, in modo minaccioso e vagamente surreale, la struttura visibilmente arrugginita della piattaforma petrolifera Paul Romano, fatta rimorchiare fin lì con metodi convenzionali dalla inglese Noble Corporation, poco dopo che la sua trivella, dopo i lunghi anni di servizio, era stata costretta a tacere. Per l’usura, ovvero il danneggiamento entropico del potenziale contenuto in essa, ed il bisogno imprescindibile di una completa opera di restauro e manutenzione. Qualcosa d’estremamente complesso nel Mar Mediterraneo dove i bacini di carenaggio adibiti a contenere oggetti galleggianti da oltre 15.000 tonnellate ed un altezza non troppo distante dai 50 metri. Dei quali, SPOILER ALERT: nessuno è sito sulle coste del più piccolo stato dell’Unione Europea. O forse sarebbe più corretto dire situato PERMANENTEMENTE in un così affascinante e storicamente significativo luogo. Visto il miracolo che sta per accadere; mentre i gabbiani tacciono all’unisono, come per un segnale non udibile all’orecchio umano. Le acque sembrano gonfiarsi, quindi si ritirano dalle pareti di quegli edifici senza senso. Che sembrano improvvisamente sorgere, crescendo a dismisura sotto il cielo, mentre quello situato avanti a destra nel loro quadrato magico, visibilmente più grande degli altri tre, lascia comparire l’insegna con un nome carico di sottintesi: Dockwise Vanguard. Subito seguìta dalla vasta piattaforma di colore rosso, che incorpora ed unisce gli edifici in una cosa sola. Mostro, Leviatano, incredibile creatura degli abissi. Una creazione, innegabile, dell’umana e tecnologica creatività. Che non teme di cambiare le più ferree leggi della fisica, nella ricerca di efficaci soluzioni, o valide rivoluzioni, nel campo della cose ritenute logiche/prudenti. Vedi il caso di una semisommergibile per l’estrazione degli idrocarburi, che prima di essere sottoposta a un ciclo di restauro, viene letteralmente caricata a bordo di una tale nave. Una delle poche, in tutto il mondo, capace di permettere una tale operazione. Nonché la più grande mai costruita nel suo settore: 275 metri di lunghezza per 70 di larghezza, corrispondenti quindi a un paio di transatlantici RMS Titanic posti l’uno a fianco dell’altro, per una stazza di “appena” 116.000 tonnellate. Comunque niente di eccessivamente significativo, rispetto al peso raggiungibile da un tale scafo a pieno carico, sensibilmente superiore alle 200.000. E basti dire, a questo punto, che i limiti massimi di un tale monumento all’ingegno marittimo risultano tutt’ora inesplorati. Persino dopo che il suo nome, attraverso plurime missioni, fu cambiato…
La pilotina elettrica: silenziosa rivoluzione degli approdi portuali?
Lo sciabordio perfettamente udibile dell’acqua che s’infrange contro il molo, più e più volte, mentre il palazzo trapezoidale con il ponte di comando in bella vista sembra muoversi spontaneamente come l’ombra di una meridiana, virando in modo perpendicolare alla torre d’osservazione portuale. Un poco alla volta, il tratto di mare oscurato diviene impossibilmente sottile, poi scompare del tutto, con l’apparizione improvvisa di una forma verde, rossa e azzurra, le antenne a protendersi ordinatamente verso il cielo. Con un sussulto sincronizzato al grido sovrastante dei gabbiani, la piccola imbarcazione ruota agilmente su se stessa ed appoggia meglio la prua contro il bersaglio. Nessun suono, fumo o vibrazione, mentre ricomincia a spingere il possente bastimento con la precisione geometrica che viene dall’esperienza…
Nello svolgimento di un viaggio spaziale tra un pianeta e l’altro o perché no, interstellare, un’interpretazione realistica della fisica newtoniana prevede un dispendio di carburante concentrato principalmente in due momenti: la partenza e l’arrivo. Così che negli effettivi spostamenti effettuati da sonde o velivoli storicamente realizzati, per non parlare delle rappresentazioni plurime opera dei molti sfoghi della fantascienza, esiste quel momento in cui il pilota accende soltanto per qualche minuto i motori principali, “bruciando” carburante in fase di accelerazione o in modo speculare, decelerazione, mentre le piccole alterazioni di rotta vengono effettuate unicamente mediante l’impiego di piccoli ugelli ausiliari. Un qualcosa che possiamo ritrovare, fatte le dovute proporzioni, anche nella navigazione acquatica sulla superficie dei mari di questa Terra. Particolarmente al termine di un lungo viaggio che potrà condurci, dopo aver attraversato buona parte dell’Oceano Pacifico, fino a un punto d’approdo sicuro presso il continente d’Oceania, in quell’isola ecologicamente felice che ospita la città di Auckland, principale porto della Nuova Zelanda. Eppure, ha davvero senso impostare meccanismi di produzione dell’energia principalmente da fonti rinnovabili, quando uno dei principali ingranaggi della propria economia, il commercio marittimo, non può prescindere in alcun modo dal più copioso consumo di carburante diesel? Al fine di accompagnare ciascuna nave container, petroliera o altro mastodonte in acciaio e metalli vari fino al punto prefissato, manovrando quell’enorme stazza tramite l’impiego di strumenti piccoli, ma potenti!
Esatto: la pilotina (o rimorchiatore) quel natante dallo scafo simile alla forma di una vettura per l’autoscontro del luna park, la cui apparente stranezza risponde invece all’esigenza di appoggiarsi alle svettanti murate di vascelli assai più imponenti, agendo in maniera comparabile alle succitate variazioni di velocità stellari da parte degli astronauti in viaggio al di là del grande vuoto interplanetario. Il che storicamente non ha procurato grandi problematiche o dilemmi di natura etica, a meno finché in epoca recente, le importanti considerazioni climatiche e sul mutamento dello status quo ambientale hanno portato all’introduzione di stringenti norme sulle emissioni prodotte da tali fondamentali strumenti, verso l’introduzione di speciali filtri anti-particolato o motorizzazioni ibride, paragonabili a quelle delle locomotive “elettriche” in uso sulla terraferma. Ma che dire di un’azienda come Ports of Auckland, amministratrice degli omonimi due punti di sbarco nella celebre città sull’istmo strategicamente fondamentale dell’Isola del Nord, che da una decade ormai ha promesso di raggiungere, entro il 2040, il difficile obiettivo di un’impronta ecologica pari allo zero? Come cancellare del tutto quel tipo di consumi carboniferi che, a discapito di chiunque, sono stati sempre inevitabili nelle operazioni di carico e scarico di un qualsivoglia porto moderno? Strano, insolito persino sorprendente: nessuno avrebbe mai pensato che la soluzione potesse venire dall’altra parte del globo, ovvero da una particolare azienda situata entro i confini d’Olanda…