In viaggio sulla strada più pericolosa del selvaggio Colorado

Black Bear Pass

Hai già pensato a dove andare per le ferie di quest’estate? Ho una proposta fantastica per te: Telluride. Grazie! No, non era uno starnuto, ma il particolare appellativo scelto verso la metà del XIX secolo per una futura ridente cittadina sita nell’entroterra degli Stati Uniti, a partire dalla definizione informale dell’omonimo minerale impuro, costituito dall’oro mescolato a vari elementi del gruppo 16 (i calcogeni) tra cui zolfo, polonio, selenio e tellurio. E soprattutto a quest’ultimo, come ben sapevano anche i cacciatori d’oro di queste terre, che spesso ne trovavano pepite intere dal valore non troppo significativo, ma considerate dei chiari segni rivelatori della presenza di metalli più preziosi e in profondità. Peccato che, per uno scherzo del destino, nell’intera storia di questa località non sia mai stata trovata una singola roccia di telluride. Ma per fortuna, giacimenti quasi altrettanto validi di zinco, argento, piombo e rame, nonché occasionalmente d’altre leghe con l’oro. Comunque redditizi…Purché si contengano le spese operative. La storia dei minatori che elessero questo luogo a loro dimora, dunque, fu percorsa dagli alterni casi del sistema capitalista di frontiera, con condizioni di lavoro non sempre eccellenti, i conseguenti scioperi e soprattutto un grave problema di fondo, destinato a rimanere insuperabile per molti dei lunghi anni a venire: l’accessibilità. Telluride si trova infatti sul fondo di quello che viene definito in gergo, box canyon (un c. a scatola) ovvero una depressione nel territorio chiusa sui tre lati ed aperta su uno soltanto. Proprio per questo, e dato che gli ingressi delle miniere si trovavano disseminati sulle pendici delle montagne stesse, l’unica via d’accesso ragionevolmente percorribile verso il centro cittadino era una pericolosa mulattiera con partenza dalla strada statale n° 550, che partendo dalla sommità del Passo della Montagna Rossa ad un’altezza di 3.358 metri, discendeva fino ai 2.667 ove si trovavano la banca ed il saloon. Istituto di credito, tra l’altro, che fu il primo ad essere rapinato dal famoso bandito Butch Cassidy (che onore!) Ma questa è veramente un’altra storia. Quindi nel 1891, con l’arrivo della ferrovia del Rio Grande, questo sentiero cosiddetto dell’Orso Nero venne chiuso, anche in funzione dei numerosi incidenti che vi si verificavano nei mesi invernali, quando la neve lo rendeva sdrucciolevole ed infìdo. E in un paese per così dire eccessivamente attento al concetto di sicurezza civile, forse sarebbe andata a finire così. Mentre nella terra dei Liberi e dei Fieri…Successe ad un certo punto che qualcuno inventò la Jeep. Chi è il governo, per dirmi che non posso avventurarmi verso la totale dannazione? Quale poliziotto può frapporsi tra me e il concetto puro d’avventura? Attorno agli anni ’60, il sentiero venne riscoperto e qualcuno vi dispose uno storico cartello, che recita: “Di qua per Telluride, Città dell’Oro. 12 miglia – 2 ore. Non devi essere pazzo per fare questa strada. Ma aiuta – JEEPS ONLY .”
La logica farebbe pensare che se reggere il volante di una fiammante fuoristrada attraverso il procedere scosceso ed arzigogolato di un tragitto montano è divertente, come d’altro canto osservare dall’alto un panorama nuovo è sempre un’esperienza degna di essere sperimentata, le due cose assieme dovrebbero costituire il non-plus-ultra di un’esperienza di vacanza, tale da riempire la giornata con ricordi splendidi e una plètora di bei momenti. Ora non è veramente chiaro, nell’udire l’interscambio quasi comico tra la coppia marito e moglie di Bill ed Elfie Tower, autori di questo video veramente singolare, se lui si sita effettivamente divertendo. Ma la sua beneamata consorte, almeno a giudicare dagli impròperi e maledizioni varie, sembrerebbe proprio di no. Come biasimarla… L’esperienza di un simile tragitto non è certo adatta a chi soffra di vertigini, con stretti tornanti in bilico verso il dirupo all’apparenza senza fondo, e la continua necessità di far manovra, spingendo il proprio cofano verso il baratro e la pressoché sicura dannazione, mentre la soave musica country dell’autoradio ti accompagna verso l’aldilà. Il loro viaggio, così accuratamente documentato con un video di ben 20 minuti, diventa quindi l’occasione di scoprire quella che costituisce, senza la benché minima ombra di dubbio, una delle strade più incredibili del mondo.

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La leggenda dei tremendi ponti siberiani

Siberian Bridges

Sarebbe particolarmente difficile, ritengo, negare il fascino estemporaneo che possiede per la nostra natura umana, il tema del viaggio. Quello spostarsi talvolta alla ricerca di un qualcosa, di eterno e imponderabile, che costituisce forse la natura e il senso stesso dell’esistenza. Ed è chiara e impressa nella mente quell’immagine, quasi allegorica nel suo puro ed assoluto simbolismo, della striscia percorribile, che corre a perdersi verso il punto di fuga all’orizzonte: asfalto, aiuole, aria di campagna. Tutto è splendido, nella presunta prefigurazione di una sconfinata pianura, dove esistono soltanto i punti d’interesse. Ma non c’è in effetti niente di più irrealistico, a questo mondo, che dare per scontata la continuativa persistenza di un contesto ideale. Quando il pianeta, frutto di sconvolgimenti vulcanici e derive pressoché spropositate, poggia sopra un mare di magma che frammenta, crepa e spacca il suolo. E sopra un tale susseguirsi di vertiginosi dislivelli, cosa fare…Se non costruire, tra l’alba e il tramonto dell’anélito e il bisogno, una struttura che è fondamentale alla sopravvivenza quanto l’edificio del granaio, il canale d’irrigazione, l’acquedotto della civitas; ovvero quella cosa, il ponte. Ed è lì, che si palesa la fondamentale distinzione della qualità.
Perché se pure tutti i ponti sono simili, almeno in potenza e nello scopo alla base della loro stessa messa in opera, è la condizione di contesto che immancabilmente può variare: e tutto pare accettabile, persino ragionevole, purché basti a continuare quel meraviglioso spostamento lungo l’asse orizzontale. Finché BAM, non giungi qui, per l’appunto, alla BAM – quel tratto di collegamento prevalentemente ferroviario, ma affiancato da una sorta di primitivo servizio per veicoli stradali, che prende il nome esteso di Baikal-Amur, dal nome rispettivamente del lago più profondo del mondo, presso la cui punta superiore il tratto ha la sua origine, e da quello del fiume Amur che sfocia nell’Oceano Pacifico, vicino al confine della Manciuria. 4.324 Km a partire dall’oblast di Irkutsk, confinante con la Mongolia e fino alla remota Sovetskaya Gavan, città portuale posta innanzi alle isole Sakhalin. La doppia strada, alternativamente ferrata, asfaltata o fangosa, misura dunque poco più della metà della mitica Transiberiana, ma con una significativa differenza: quei circa 4.200, tra attraversamenti pseudo-architettonici di fiumi, laghi, dirupi e fosse, in diversi stati di abbandono, principalmente a causa del poco utilizzo e delle condizioni climatiche spesso particolarmente proibitive. Perché quando fa freddo in Siberia, come probabilmente è cosa molto nota, non fanno “appena” zero o -10 gradi Celsius, ma un qualcosa di variabile tra i -20 e -30, sufficienti a mantenere uno strato quasi perenne di permafrost ghiacciato estremamente spesso, che nei suoi occasionali eventi di disgelo si spacca triturando, letteralmente, tutto quanto ciò che è stato costruito dalla mano degli umani. A ciò va pure aggiunto come la BAM, nonostante i grandi piani del premier Leonid Brezhnev (controllo del paese: 1964-1982) che l’aveva definito “il progetto d’ingegneria del secolo”, non venne completata nei tempi e modalità previste, con una progressiva quanto inesorabile caduta nel disuso, scivolando dalle 180 milioni di tonnellate annuali di merci previste in origine a solamente 8 per il binario occidentale, 5,5 per quello orientale. Per non parlare poi della rete stradale ombra, quel percorso parallelo costruito all’epoca per l’impiego da parte della forza lavoro e successivamente riconvertito ad arteria permanente, usata per collegare tra loro gli innumerevoli villaggi, paesi e cittadine sorte quasi spontaneamente lungo il suo tracciato a partire dal 1972, l’anno in cui circa 50.000 entusiastici giovani russi, definiti “gli eroici BAMovcy” partirono per le regioni più remote della taiga siberiana, convinti dalla propaganda di partito a legare il proprio nome e la propria opera alla costruzione di quella che sarebbe diventata un’importante risorsa strategica per i commerci verso il grande Oriente. Forse non sapendo, e come avrebbero potuto? Che molti di loro si sarebbero poi stabiliti in questi luoghi, per non farne ritorno mai più.

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Che fatica! Dal Messico al Canada in una sola camminata

Pacific Coast Trail

Probabilmente l’aspetto più incredibile del Pacific Crest Trail, o Sentiero delle creste del Pacifico, resta la sua semplice esistenza. Ovvero il fatto che non singoli visionari scriteriati, né pochi coraggiosi, ma un’intera sottocultura di avventurieri scelga di percorrerlo ogni anno per l’intera estensione dei suoi 4286 Km, lungo valli, deserti e ripide salite, in un susseguirsi praticamente ininterrotto di magnifici paesaggi e incalcolabile dispendio di acquisita civilizzazione. Si stima che ogni anno un numero variabile tra i 250 e i 300 individui si faccia trasportare fino al punto di partenza ufficiale, presso il confine tra la California e il Messico, per attraversare quindi in rigida sequenza le molte catene montuose di quello stato (Laguna, Santa Rosa, Tehachapi, Sierra Nevada…) E poi imboccare la più significativa parte emersa del cosiddetto Anello di Fuoco del Pacifico, lungo l’intera estensione dell’interminabile Cascade Range, le cui vette dall’origine vulcanica rientrano tra le più celebrate risorse paesaggistiche degli interi Stati Uniti. Attraversando, tra una scalata e l’altra, 25 foreste e 7 parchi nazionali, con un tempo limite perfettamente definito: guai, a percorrere meno di 20 miglia giornaliere di media! Il sopraggiungere della candida neve basterà ad apporre la parola fine sulla spedizione. Non mancano naturalmente gli anti-conformisti, che per aggirare quella problematica scelgono invece di partire in estate dal Parco Manning in Canada, presso il Boundary Monument 78, facendosi strada fino ai deserti erbosi del profondo sud. In entrambi i casi: un’esperienza comparabile, e invero addirittura superiore, a quella della Compagnia dell’Anello tolkeniana, che stando alle stime degli appassionati avrebbe camminato per “appena” 2990 Km, per di più ricorrendo occasionalmente, quando possibile, a cavalli, barche o mistiche aquile senzienti. Ma la motivazione è tutto: tutti quegli hobbit, elfi e nani erano spinti innanzi dal bisogno di fermare il ritorno di un antico male. Mentre invece, cos’è che induce tanti uomini e donne, relativamente conformi ai loro amici e parenti, a lasciare un giorno tutto indietro, per allontanarsi per un tempo approssimativo di 5-6 mesi in mezzo agli orsi e ai puma di montagna? Non è questa una domanda a cui rispondere da un mezzo Oceano di distanza.
Anzi, probabilmente gli unici a cui porla sarebbero loro, linfa vivente in scarpe da trekking del PCT, per cui l’acronimo è un passaggio necessario, come del resto per la maggior parte dei concetti americani: brevità=efficienza, il massimo della convenienza. Tranne che in un caso tipologico, il bisogno di una vera e propria trasformazione, che trascenda la semplice apparenza. Vedi, a supporto dell’idea, questo video-racconto di Mac il Mago, titolare del canale e blog di viaggi Halfway Anywhere, che nel 2013 decise non soltanto d’entrare nel club esclusivo di coloro che possono fregiarsi dell’ideale coccarda frutto di questa epica missione individuale, ma di farlo in modo ben documentato per la collettività, tramite la realizzazione di esattamente tre secondi di riprese per ciascuna giornata di cammino, scelti accuratamente o per il vezzo del momento ed il suo intuito cinematico. Il risultato sono questi sette minuti in cui ci è dato d’osservare il modo in cui varia, dal profondo sud al gelido e remoto settentrione, l’aspetto naturale di questo confine occidentale di uno dei paesi più grandi al mondo, in cui il peso della storia non si avverte tanto nel catalogo di luoghi e eventi appartenenti alla sfera degli umani, quanto piuttosto nel susseguirsi epocale di mutamenti geologici, crescita naturalistica e il contrappeso irrefutabile dell’erosione entropica del mondo. Un semplice click, l’attesa breve per conoscere a sommi capi l’esperienza forse più indimenticabile di un’intera vita, per di più incline a muoversi e spostarsi tra i diversi luoghi significativi della Terra. E comprendere, almeno in parte, la ragione e il nesso della camminata verso…

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I predatori dell’amaca volante

Space Net

Scimmia e ragno, scimmia-ragno. Non è fatta come il difensore del quartiere, il suo costume rosso-blu con stemma nero che richiama alla visione dell’ottuplice zampettamento, protagonista di pellicole davvero molto amate. Neanche potrà tessere, la nerastra Atelidae pelosa, una propria appiccicosa tela; a meno che volessimo includere per inferenza, tra i traguardi di quel piccolo animale, l’ultima creazione di codesto gruppo di arrampicatori dello Utah, giovani e senza una visione limitante del pericolo, che da un tempo medio han preso l’abitudine di farsi definire gli/le Moab Monkeys, alludendo assai probabilmente alla tipica agilità di tale classe di creature, i primati. Ma che adesso, con questo progetto del Pentagon Space Net, così gentilmente ospitato presso il canale ufficiale delle telecamere GoPro, sembrano fuoriuscire dal circondario più meramente biologico, sforando nel caotico e variopinto mondo dei supereroi. Facendosi emuli di quella scena da trailer, famosa eppure poi tagliata, in cui Spiderman bloccava l’elicottero fra le due torri gemelle, proprio in quegli anni tristemente demolite. Quale imprevedibile eventualità… Fra le stesse rocce dove scorre il Colorado River, appesa sotto il cielo ma ben distante dal remoto suolo, costoro hanno edificato una speciale costruzione. Solo cinque corde tese, usate per tenere in posizione l’equivalente aerodinamico di una penthouse (suite dell’ultimo piano) ma con sotto l’aria. E in mezzo un buco. Ah! Questa è veramente bella. E a cosa servirebbe mai, quel buco?
Quando si dice che certi paesi sono straordinariamente grandi, non si fa riferimento unicamente alla questione geografica, delle migliaia di chilometri dall’una all’altra costa, intervallate da montagne, fiumi e valli erose da quest’ultime, fino allo sfogo del remoto mare. È una questione che si estende anche alla sfera concettuale: un conto risulta essere la vita con la completa identità di luogo, nazionalità e contesto. Un altro è fare parte della corposa fetta umana che compone il variegato popolo degli Stati Uniti, che dall’integrazione nasce, e nell’alternanza dei periodi in cui quest’ultima è stata variabilmente praticata, ha fatto le fortune o meno dell’intero sistema socio-economico globalizzato. Pensate all’area metropolitana di New York sopra l’Atlantico, dove l’unione architettonica tra il ferro ed il cemento, negli anni correnti riesce a sostenere una densità di popolazione che si aggira sui 10,756 individui per chilometro quadrato. Poi mettetela a raffronto con le vaste pianure ed i deserti posti al centro di quel continente, ove la quantità di pietre, su cui mano umana ancora non si è mai posata, risulta grandemente superiore a quella delle opere volute dalla mente. Luoghi come questa Grand County dello Utah (lassù, sopra l’Arizona) in cui la scienza statistica ci parla di una media di una singola persona ogni chilometro, più la parte decimale variabile, 0.1, 0.2; diciamo, la lunghezza della barba e dei capelli? Come, verrebbe a noi da chiederci, è possibile disporre di un’identità che sia davvero nazionale, eppure applicabile all’uomo di quel primo ambiente, come a quello della remotissima frontiera! Cactus saguaro al posto dei pali della luce e come altrove corrono le strade trafficate, qui coyotes, Road Runners e le trappole dei primi a danni dei secondi. A.C.M.E. Nella frontiera c’è spazio per tutti, ovvero i folli e le loro sorelle, le famiglie intere e pure quelle…Dedite a dei passatempi molto preoccupanti. Vedi ad esempio quella trifecta della dannazione, che difficilmente può trovare spazio nei contesti urbani: scalare le cose, lanciarsi giù da esse, tendere una corda, appena a sufficienza. L’ultima che resta forse la migliore, in questo sport moderno (ma non lo sono forse tutti) del camminare sopra il nulla dei bisogni, all’alta quota della massima concentrazione ed abnegazione di se stessi. All’inseguimento del perfettissimo equilibrio, si, ma non soltanto fisico e persino spirituale. Stiamo parlando, per intenderci, dello slacklining d’alta quota. Provateci voi a farlo, nel bel mezzo di una gran città!

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