In quanti pezzi viene consegnato un jet di linea?

787 Dreamliner build

Modellini. Piccole riproduzioni dei più rinomati, accattivanti o innovativi tra i veicoli che percorrono le nostre strade, i cieli e i sette mari. Proporzionati e credibili, il più possibile corrispondenti ai loro ispiratori in scala reale. Per lo meno, una volta che l’assemblaggio è stato completato. Difficile vedere, nella scatola piena di pezzettini ancora collegati tra di loro con lo sprue (il cosiddetto telaio di plastica) una qualche corrispondenza, per quanto remota, con il mondo metallico della realtà. Giusto? Ben altri meccanismi, e sofisticati metodi di assemblamento, devono essere alla base della costruzione di una tale cosa! Che con le sue ali dovrà volare da un lato all’altro del pianeta, senza fare soste a meno d’imprevisti…Giacché quello che è stato collegato, per così dire, a mano, altrettanto facilmente avrebbe modo di staccarsi. Precipitando rovinosamente al suolo. Ebbene, si dice che la realtà “superi” spesso la fantasia, in una sorta di visione ottimistica di tutto ciò che ci circonda, poiché ciò che ci aspettiamo, spesso, non raggiunge l’entità reale degli eventi. Ma nel caso delle presenti immagini risalenti al settembre del 2015, sarebbe forse più opportuno dire che i metodi impiegati nella fabbrica della Boeing di Everett, nello stato settentrionale americano di Washington, riprendono il nostro più sfrenato senso d’ansia innato. E lo amplificano, attraverso la visione di un qualcosa che è al tempo stesso magnifico, nonché inquietante. Un avviso: se tendenzialmente avete una paura sfrenata di volare, non approfondite il qui presente argomento. Farlo, potrebbe avere effetti inaspettati sui vostri progetti per le ferie.
Le circostanze sono, ad ogni modo, più che mai felici: siamo di fronte, dopo tutto, ad un video di marketing realizzato in occasione dell’arrivo dell’ultimo nato nella famiglia degli aerei passeggeri prodotti dalla colossale azienda americana, il modello allungato del loro “Dreamliner”, nome in codice rivisitato 787-9. In quello specifico momento sottoposto all’ultima tappa della sua filiera produttiva, prima di decollare per raggiungere finalmente coloro che ne saranno i proprietari per l’intero periodo della sua vita operativa, ovvero in questo caso le linee aeree della British Airways. L’intero time-lapse, che si dipana per il periodo incredibilmente breve di circa tre giorni mostrava così quello che esattamente accade, in questi grandi e gelidi hangar del Pacific Northwest, prima che uno degli oggetti più incredibili mai prodotti dall’uomo possa finalmente dirsi completato. E pronto per solcare i cieli d’infinite possibilità. Una visione, come dicevamo, preoccupante. Ed ecco la ragione: quello che colpisce maggiormente nello svolgersi dell’intera sequenza è lo stato iniziale, che non vede, come forse si potrebbe pensare, un’aereo già completo a cui mancano soltanto alcuni sistemi minimi e, diciamo ad esempio… I sedili (non siamo forse, COSÌ vicini alla parola fine?) Ma almeno cinque pezzi principali, parcheggiati nei recessi più distanti dello spazio a disposizione: la carlinga, il muso, la coda e le due ali. Qui non c’è alcun aereo, ancora. Ma soltanto i suoi pezzettoni, nella letterale equivalenza di una titanica scatola di montaggio.
Il che non dovrebbe sorprenderci in definitiva. Non è forse vero che viviamo in un’epoca globalizzata, in cui le leggi del mercato esigono che ciascun singolo elemento, di qualsivoglia sistema o meccanismo, provengano dall’azienda più economica, più conveniente e di fama? Così il software di bordo del Dreamliner è stato programmato in India. I portelloni principali della cabina sono un prodotto francese. Le ali provengono dalla Mitsubishi, in Giappone. Lo stabilizzatore orizzontale della coda (coreana) è un valido esempio di eccellenza italiana, prodotto da una sussidiaria della Finmeccanica, la Alenia, che lo produce a Foggia. La quale a Grottaglie, nel frattempo, assembla alcune parti della fusoliera. Il carrello, invece, è fatto dalla Messier-Dowty inglese…E così via. Andrebbe a tal proposito rivista la nostra definizione classica del concetto di Patrimonio dell’Umanità, che vede come meritevole d’encomio solamente ciò che rappresenta un singolo popolo, gelosamente custodito tra i confini attentamente definiti. Mentre un dispositivo in grado di volare attorno al pianeta, e che per di più risulta da uno sforzo collettivo dell’industria globale, potrebbe forse rappresentare la quintessenza del nostro stesso essere fattivo e fecondo! Montarlo vuole dire poco, se si è giunti fino a un simile momento della verità. Ciò che resta da definire, quindi, è soltanto un’altra “piccola” questione di contesto. Relativa al COME, effettivamente, pezzi tanto grandi siano trasportati in sede…

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Alle Maldive, un’isola di spazzatura in bilico sulla barriera corallina

Thilafushi

Non siamo mai abbastanza grati alla natura per i posti brulli, oltre alle valli cariche di fiori e alle montagne candide che ci sovrastano brillando sotto il Sole. Le distese desolate, i recessi meno améni, scevri di fascino ma carichi di possibilità. Perché l’uomo, per sua predisposizione innata, tende necessariamente consumare. Fauna, flora ed animali. Ma se tutto attorno noi dovesse diventare sacro, prezioso ed inviolabile, cosa mai potrebbe rimanere del nostro futuro? Unicamente… Un segno di divieto, unito all’immagine di una rovina soverchiante. Sempre al centro del pensiero collettivo. Sarebbe decisamente istintivo e molto facile, come già fatto molte volte in precedenza, lanciarsi in un’invettiva contro la tragica situazione della più grande discarica a cielo aperto dell’Oceano Indiano, collocata su di un’intera terra emersa lunga appena 3,50 Km, ricavata nel 1991 a partire dalla laguna maldiviana di Thilafalhu, poco distante dall’affollata capitale di Malé. Quasi scontato: quale orribile degrado, certamente dovuto a una pessima situazione organizzativa…L’inefficienza dello smaltimento! La corruzione dei politici! E così via, fino all’esaurirsi del residuo fiato…Eppure basta per un attimo provare ad indicare questi luoghi su una mappa, perché germogli nella nostra mente il seme dirompente del dubbio: eccoci davanti, infatti, ad un’intera Repubblica dalla superficie calpestabile di 298 Km² (appena il doppio della città di Firenze) abitata da oltre 393.000 persone e visitata, annualmente, da circa altre 600.000 complessive. Per di più dispersa per un braccio di mare considerevole, e distante 1.000 Km circa dalla costa della più vicina terra emersa, il subcontinente indiano. Il fatto stesso che luogo sostanzialmente privo di risorse tranne il pescato, e in cui persino l’acqua potabile è un bene prezioso nonché raro, sia in grado di sostenere una simile economia fiorente, è l’assoluta dimostrazione che qui non viga più alcun tipo di logica spontanea delle circostanze. Mentre l’intero iter delle procedure seguite dalla popolazione locale, per adeguare un simile sistema al susseguirsi dei tempi moderni, è un purissimo prodotto della globalizzazione. Ed un nome, dal suono esotico e misterioso: Thilafushi. Un’isola evitata addirittura dai gabbiani.
Immaginate, a tal proposito, lo sforzo necessario per nutrire, ospitare e rendere in qualsiasi modo soddisfatto il vero e proprio esercito stagionale, dei signori ricchi o benestanti che sono portati a considerare  un simile recondito paese, sostanzialmente come il paradiso sulla Terra. Colpa, se vogliamo, del marketing e del senso comune. Grazie allo strumento dei trasporti e dell’investimento finanziario, oggi, tutto diventa possibile ma resta una variabile fondamentale: quella del tempo. Così fra tutte le sfide nate da un simile incontro sfortunato, tra spazi piccoli, e grandi quantità di persone, quella preponderante diviene la risultanza inevitabile di un tale consumismo: la produzione di rifiuti. Pensateci. Un problema che non passa con il tempo, ma piuttosto tende a peggiorare, quanto maggiormente si ritarda nel trovare un’efficiente soluzione. Ben conoscono questo dilemma alcuni luoghi urbani d’Italia, che famosamente negli ultimi anni hanno affrontato dei periodi con le strade invase dai sacchetti neri, e molte altre sgradevoli, maleodoranti cose. C’è tuttavia una differenza di fondo, e fondamentalmente vantaggiosa, tra un luogo in cui è sempre possibile far transitare i camion (purché disponibili) per trasportare la materia del collaterale, altrove… Ed un mondo sperduto in mezzo al nulla, invece? In cui l’unico vicino è il mare? Cosa poteva mai restare da fare…
Si, forse c’erano altre strade. Nessuna delle quali però transitabile, pratica, e davvero pronta all’utilizzo in tempi sufficientemente brevi. Dave Hakkens, imprenditore internettiano del web 3.0 ed ambientalista particolarmente attivo, ci accompagna nel video soprastante ad una visita di un simile luogo unico al mondo, almeno quanto le candide spiagge dell’atollo di Landaa Giraavaru, con più posti letto che secondi necessari a percorrerlo da un lato all’altro in bicicletta. Finché non venne…L’ora della Scelta. Ed il cemento cominciò a colare.

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Teste, gambe, occhi…Nella fabbrica di bambole, molti segreti

Doll Factory

Attorno alla fine del XIX secolo, gli alchimisti della città tedesca di Sonneberg nella Turingia meridionale compiono un significativo passo avanti nel processo per giungere alla creazione del perfetto essere umano artificiale. Messi temporaneamente da parte il salnitro, l’acqua regia, il rubedo, le gonadi di serpe e l’uovo di gallina, essi sperimentano l’effetto avuto da una risorsa molto più mondana, la colla, su un’impasto di segatura e canfora, giungendo alla creazione di quella sostanza che avrebbe preso il nome di nitrocellulosa. Un’impasto malleabile a caldo, che una volta lasciato raffreddare assumeva una forma solida e flessibile, perfetta per assumere la forma in uno stampo predeterminato. Era questa, sostanzialmente, la plastica ante-litteram, uno strumento dell’industria senza pari. In breve tempo molti magnati dell’industria locale, tra cui i proprietari della nascente fabbrica Schoenau & Hoffmeister, destinata a diventare il principale produttore di esseri umani in miniatura dell’epoca immediatamente successiva, scoprono la notevole somiglianza di quella particolare superficie, consistenza e colorazione, con la fin troppo familiare pelle umana. Il resto, come ben sanno i collezionisti di simili gingilli per fanciulle d’altri tempi, è storia (dei giocattoli). Nel giro di pochi anni, le precedenti figurine antropomorfe di piccole signore realizzate in bisquit, un tipo di ceramica priva di vetrinatura per risultare più realistica, vengono integralmente sostituite dalla nuova tipologia, molto più resistente all’usura, credibile ma sopratutto; meno costosa da produrre. La bambole, per come erano state conosciute fino a quel momento, erano essenzialmente morte. Lunga vita alle bambole risorte!
La formula segreta per la loro creazione, da quel momento, circola per il mondo in lungo e in largo, fatta fluttuare sulle ali sempre redditizie dell’onnipresente spionaggio industriale. Le fabbriche di mezza Europa copiano quel particolare approccio, che in lingua inglese ha nome composition, impiegandolo per realizzare una fortuna comparabile a quella dei suoi primi scopritori commerciali.  Scoppia la guerra. Due intere generazioni, tra la prima e la seconda iterazione del più grande conflitto che abbia mai coinvolto i cinque continenti, perdono la vita nella corsa folle verso il predominio di questa o quella ideologia. Ma mentre imperversa il principio, tipicamente maschile, della forza che conduce al predominio, nelle case semi-vuote, tra tende merlettate e pinzillacchere di vario tipo, le bambine vivono la propria vita, per quanto possibile, nel regno puro della fantasia. Passata quindi la tempesta, raccolti i pezzi della civiltà dilapidata, i molti progressi tecnici compiuti per assistere le truppe al fronte trovano migliori applicazioni. E tra queste, naturalmente, c’è il polistirene, prodotto commercialmente per la prima volta dalla tedesca BASF negli anni ’30, per non parlare delle resine fenoliche, lanciate internazionalmente dall’americana Durite Plastics Inc, proprio nel mezzo di quell’epoca di cambiamenti. Nel frattempo, gli inglesi avevano il polietilene, letterale sinonimo funzionale delle Imperial Chemical Industries (ICI – 1933) mentre in Italia, la prima plastica nazionale sarebbe giunta soltanto nel ’54, grazie all’opera di ricerca sui sui polipropileni di Giulio Natta, chimico e premio Nobel. E fu chiaro fin da subito, che un tale approccio alla produzione industriale avrebbe rivoluzionato ogni cosa, dalla conservazione dei cibi ai trasporti, dall’abbigliamento alla scienza medica. Incluse, ovviamente, le (ancora) silenziose paladine del “giochiamo a fare mamma & papà”. Verso la fine degli anni ’50, la nitrocellulosa era ormai considerato un materiale sostanzialmente inferiore, sopratutto per la sua naturale tendenza a sbiadire sotto il sole, per non parlare della facilità con cui tendeva a prendere fuoco. Era un mondo totalmente nuovo, quello, in cui le bambole divennero di plastica. Come del resto, quasi ogni altra cosa.
In questo segmento a colori della British Paté, uno degli archivi video storici più vasti consultabili liberamente online, viene mostrata la realtà operativa di una fabbrica inglese di quell’epoca, sita presso Battersea, nella periferia sud di Londra. La tipica voce impostata dei commentatori coévi, assieme a una colonna sonora allegra e la bizzarra natura delle immagini mostrate, contribuiscono nel creare un senso di coinvolgimento nostalgico ma al tempo stesso appassionante. Ma se l’aveste mostrato in giro all’epoca della Schoenau & Hoffmeister, non ci sono dubbi: grandi e piccini avrebbero fatto un sobbalzo. Perché queste non sono pupattole come le altre, baby. Esse parlano, come i viventi!

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Palle che ti salvano la vita: in caso d’incendio, tirare l’estintore

ELIDE Ball

In questo breve video dimostrativo della ELIDE, compagnia thailandese, viene mostrato all’opera una formidabile arma portatile contro una delle più antiche conoscenze dell’uomo: spesso un amico, qualche volta problematico da controllare, occasionalmente, in casi veramente sfortunati, distruttivo e inarrestabile, persino micidiale. Avevate mai pensato di lanciargli una granata? Il fuoco è una di quelle reazioni chimiche che iniziano con relativa semplicità, specie in condizioni particolarmente favorevoli, ma che poi richiedono interventi complessi al fine di tornare ad una condizione di normalità. Tra i primi diagrammi studiati nella teoria della prevenzione e contrasto di un tale pericolo, c’è quello del cosiddetto triangolo della combustione, in cui ciascun lato rappresenta uno dei diversi elementi necessari affinché sia possibile il verificarsi della situazione: ossigeno, materiale da bruciare, calore. Nella versione più moderna della stessa cosa, ciascuna di tali diciture è invece essa stessa posta su un triangolo completo, a formare nel complesso un tetraedro che poggia sulla dicitura “reazione chimica (a catena)”. Ciò perché l’interruzione, anche soltanto momentanea, della capacità di generare i radicali liberi a sostentamento delle fiamme, come ben sanno i pompieri, porta immancabilmente all’immediato dissolversi del rischio rosseggiante d’ustione, benché tale strada sia ormai percorsa raramente, in quanto richiede l’impiego di un tipo di gas estremamente nocivo per l’ambiente. Ma è proprio per intervenire negli altri ambiti citati, che si rendono generalmente utili gli estintori. Apparecchiature caricate a pressione, con diversi tipi di polvere o schiuma mescolati a un propellente, che espulsi direttamente sul combustibile, lo privano, a seconda dei casi, dell’aria o dell’alta temperatura, portando a termine la loro importante mansione. Ma poiché qualsiasi strumento, per sua implicita natura, non può essere migliore di colui che lo impiega, non esiste un sistema antincendio manuale che possa definirsi, realmente, a prova di bomba. Innanzi tutto perché esistono diversi tipi di emergenza termica incontrollata, classificati secondo uno schema internazionale preciso, che classifica: A – fiamme di tipo convenzionale; B – liquidi infiammabili o sostanze chimiche; C – una combinazione dei primi due, con l’aggiunta di materiale elettrico in corto circuito; D – metalli combustibili, quali il litio, il titanio o il magnesio (si tratta di contesti per lo più industriali); K – incendio in cucina, con sostanze grasse ed oleose; sia dunque chiaro che il tipo di approccio da usare in ciascuna situazione è differente, così come la classe di estintore maggiormente idonea. Ma questo è soltanto l’inizio del problema: metteteci pure che una persona non addestrata, magari colta dal panico, dovrebbe tradizionalmente raccogliere un oggetto cilindrico del peso di diversi Kg, trasportarlo fino alla zona colpita, quindi eseguire la precisa serie di gesti: TIRA, la linguetta di sicurezza; PUNTA, la manichetta di lancio circa 15 cm sopra la base del fuoco; PREMI, la leva di attivazione; SPAZZA, da un lato all’altro, cercando di spegnere quanto di dovuto. E se non dovesse andare come auspicato, a quel punto ci si trova a pochi metri dalla fonte del pericolo, senza altra speranza che voltarsi e correre, sperando nell’arrivo dei soccorsi. Non a caso, all’origine di questo prodotto ELIDE, la compagnia cita la vicenda tragica che colpì particolarmente il fondatore della compagnia Mr. Phanawatnan Kaimart, di un incendio scoppiato nel 1998 presso il Royal Jomtien Hotel di Pattaya, Thailand. Circostanza in cui morirono 94 persone, e nelle quali, si scoprì successivamente, il primo scopritore delle fiamme avrebbe potuto (ipoteticamente) prevenire il diffondersi del disastro. Se soltanto, spaventato e ferito dal calore, non avesse tentato di mettersi in salvo, ritenendo erroneamente che un estintore convenzionale, qualora lanciato nel bel mezzo alle fiamme, sarebbe ad un certo punto esploso, arrestandone in qualche maniera l’avanzata. Un fatto assolutamente non vero.
Ma c’è una scuola di pensiero, nell’ingegneria e nella tecnica applicata, che da lungo tempo afferma: “Se l’impiego di un dispositivo tecnologico non risulta immediatamente comprensibile, anche per un bambino, allora i suoi costruttori hanno fallito.” Questione che diventa tanto più vitale, nelle situazioni d’emergenza in cui il cervello umano finisce per affidarsi alle sue pulsioni più istintive, regredendo allo stato evolutivo del rettile o del procariota primordiale. Perché dunque, se una porta d’emergenza ha una maniglia concepita in maniera tale che basta spingerla, per aprirla, l’impiego di un estintore dovrebbe invece richiedere ben quattro passaggi?

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