Nel prolungarsi immoto di un persistente silenzio, durante l’epoca non ancora biologicamente diversificata del Devoniano, rimbombò d’un tratto il suono del più impressionante strumento musicale di tutti i tempi: il meteorite. Esattamente 377 milioni di anni fa, nella parte del mega-continente Baltica destinata a diventare l’odierna parte meridionale della Svezia, un concerto breve ma proprio per questo memorabile, concentrato nella singolare sublimazione di una singola e possente nota. Mantenuta, come l’acuto di un cantante consumato, fino al punto di spaccare intere faglie geologiche sui bordi dell’enorme cratere, rimescolando il contenuto dei sostrati minerali destinati agli utilizzi più disparati. Ma non prima che interi eoni di evoluzione, e qualche fugace millennio di sviluppo tecnologico, portassero noialtri a interessarci al ruolo collaterale delle sostanze, scoperchiando l’essenziale pentola del sottosuolo, senza facili scalini per accedere a quel mondo privo di pregressi appuntamenti con la civiltà umana. Risultato? Nel caso specifico, circa un mezzo secolo si sfruttamenti minerari, tali da lasciare una profonda ed antiestetica fossa a forma d’emiciclo negli spazi precedentemente incontaminati del distretto di Rättvik, regione di Dalarna. Finché la celebrata soprano d’opera Margareta Dellefors, passando di qui per caso nel corso di una vacanza nel 1991, non guardò a quel buco al tempo detto Draggängarna con occhi resi limpidi dall’esperienza pregressa. Esclamando innanzi ad una pletora di testimoni: “Qua dentro, se soltanto ce ne fosse l’opportunità, sarebbe possibile allestire un Don Giovanni o una Tosca tra i migliori al mondo. Provate soltanto a SENTIRE l’acustica di queste mura…” Detto, fatto. Ovvero detto, discusso, trasferito alle autorità di competenza, proposto al comitato di approvazione, finanziato dalla compagnia di stato, perfezionato dalla compagnia ingegneristica ed implementato grazie all’uso di un cantiere di tutto punto, poco prima di essere ribattezzato con il nome dal doppio significato di Dalhalla, ovvero “Valle [della regione] di Dal” ma anche ragionevole approssimazione del paradiso dei guerrieri, il Valhalla. E inaugurato, con gran clamore mediatico e persino trattazioni da parte della stampa estera, in quel fatidico 1995 con un pieno repertorio assai appropriatamente Wagneriano, dopo un paio di piccoli concerti di prova per gli amici ed i colleghi della cantante. In quello che potremmo definire la più vicina approssimazione, essenzialmente costruita in via del tutto accidentale, di un originale teatro all’aperto posto in essere per il rituale drammaturgico dell’antica civiltà dei Greci. In proporzioni sufficienti, ed appropriatamente attrezzate, per accogliere circa 6.000 spettatori, nei sedili strategicamente posizionati affinché il più lieve dei suoni sia perfettamente udibile dai recessi vicendevoli dell’intera struttura. Tanto che al completamento di un breve periodo di prova, le pièce lirico-teatrali cominciarono ad esservi effettuate senza nessun tipo di amplificazione acustica, potendo contare semplicemente sulla naturale tendenza delle onde sonore a propagarsi in modo progressivo, nonché il morbido riverbero offerto dalle ruvide pareti di pietra calcarea della cavea profonda ben 60 metri. Un’occasione più unica che rara…
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In cerca dell’ornato suino elfico dell’Africa subsahariana
Simboli supremi di saggezza: testa grande, muso piatto, orecchie a punta con un lungo ciuffo che ricade a incorniciare il volto da cui parte la cresta dorsale pallida, capace d’estendersi fino all’inizio della coda lunga e sottile. Rigorosamente ricoperto, sulla base di un’antica tradizione, da una maschera dai toni contrastanti, incorniciata da una folta barba candida come la neve d’inverno. Fenomeno atmosferico, quest’ultimo, letteralmente sconosciuto in queste terre, vista l’appartenenza delle creature in questione alla terra largamente equatoriale tra Congo, Gambia e Kasai, dove le ombre sfumano all’inizio del meriggio, e l’avvoltoio capovaccaio circola al di sopra del paesaggio alla ricerca di possibili fonti di cibo. Chi con gli occhi, chi facendo uso di un finissimo senso dell’olfatto, tanto che se a certe latitudini crescessero i tartufi, senza dubbio il potamocero o cinghiale dai ciuffetti coi suoi 36-130 Kg di dimensioni avrebbe dato un’importante aiuto all’opera dei cercatori bipedi ed eretti di quell’ambito tesoro. Piuttosto che spostarsi libero ed indisturbato, per quanto ci è dato immaginare, tra le regioni del tramonto e la profonda notte dei continenti, ove operare quietamente la propria magia. Simili per molti aspetti comportamentali ai cinghiali nostrani, sebbene dotati di talune caratteristiche riconducibili al facocero di disneyana memoria, gli amichevoli cugini di Pumba dal pelo rossiccio appartengono in realtà ad un proprio genere nettamente distinto, lungamente soggetto a revisioni tassonomiche di varia entità. Data la notevole varietà di livree, tipi di pelo e dimensioni, tali da permettere l’individuazione originaria di 13 specie sulla base del lavoro di Linneo, poi ridotte ad una sola verso l’inizio del secolo scorso e unicamente nel recente 1993, suddivisa nuovamente in due varietà distinte: Potamochoerus porcus e P. larvatus. Creature molto simili tra loro in realtà, fatta eccezione per i toni maggiormente scuri del secondo e le sue dimensioni leggermente inferiori, oltre al suo areale capace di estendersi insolitamente fino alla terra isolana del Madagascar. Località raggiunta con metodi e ragioni lungamente misteriose, potenzialmente dovute alle casistiche di zattere formatosi spontaneamente dalla vegetazione o ancor più facilmente l’interessata mano dell’uomo. Questo poiché un simile suino, come potrete facilmente immaginare, costituisce un’importante fonte di cibo per le popolazioni limitrofe, costituendo l’oggetto della caccia che ne ha progressivamente ridotto il numero in determinate zone geografiche del continente. Il che non dovrebbe d’altra parte far pensare ad una situazione di conservazione in bilico, considerate le notevoli doti di proliferazione di creature biologicamente tanto adattabili, abituate a dare annualmente i natali a un minimo di cinque-sei maialini, rigorosamente accuditi da entrambi i genitori fino al raggiungimento dell’indipendenza nel giro di circa quatto mesi. Entrando a pieno titolo nel ruolo di membri del branco, una quantità di creature generalmente pari a 10-15 esemplari, sebbene esistano casi particolari capace di raggiungere il doppio o quadruplo di simili cifre e fino alle spettacolari moltitudini di un centinaio. Fortemente solidali e in grado di respingere l’assalto di (quasi) ogni predatore della vasta ed impietosa savana…
L’occhio mai sopito che sorveglia l’aeroporto della capitale olandese
Amsterdam costituisce, come un certo numero di particolari città del mondo e molto più di altre, un luogo in cui l’opera dell’uomo interagisce con il netto confine tra la terra ed il mare, punto di trasformazione paesaggistico dove in altri luoghi, tempi e circostanze, sarebbe stata la natura a fare da padrona. Per cui un punto di vista privilegiato risulta essere, imprescindibilmente, la traiettoria discendente adottata dagli aerei intenti ad atterrare presso l’aeroporto di Schiphol, da cui ogni aspetto derivante da una simile compenetrazione di circostanze appare immediatamente chiaro per colui che scruta, disegnando l’alfa e l’omega del più caratteristico e importante degli antichi limiti cittadini. Immutato nel trascorrere dei secoli, fatta eccezione per alcuni piccoli dettagli, vedi la perfetta forma circolare dal diametro di un chilometro, situato nella parte più interna dell’esteso lago artificiale IJsselmeer, attraverso cui convoglia le sue acque una delle più antiche vie navigabili della regione. Come il punto esatto dell’impatto di un piccolo meteorite, fatto di tungsteno o altro metallo penetrante, che avendo transitato oltre gli strati superiori della crosta terrestre avrebbe potuto proseguire fino alle profondità geologiche, per dissipare in lunghi secoli il calore contenuto nella sua immutata essenza. Se non che l’estrema improbabilità di tale spiegazione, assieme all’assenza di prove scientifiche di una tale inusitata contingenza, costituisce il primo indizio di quale possa essere l’effettiva origine di un tale elemento: l’intenzionale costruzione al fine di risolvere un problema, che poi costituisce la ragione della stragrande maggioranza di quello che facciamo, costruiamo, lasciamo alla posterità in attesa di crearsi un ruolo nella Terra plasmata nell’immagine del nostro pensiero. Si usa dire d’altra parte soprattutto online che ogni volta che il mare minacci di formare uno tsunami, maremoto o altro potenzialmente disastroso sommovimento, la brava gente dei Paesi Bassi apra ed alzi le sue mani, pronunciando in coro il sincopato e duro ammonimento: “Non stavolta!” (Vade retro). Ma le logiche di un’isolotto tondo artificiale sono chiaramente assai specifiche e diverse da quanto saremmo inclini a dare per scontato, il che costituisce l’essenziale logica e il significato più profondo dell’IJsseloog.
Interessante gioco di parole, quest’ultimo, laddove l’iniziale col digramma IJ, considerato una singola lettera dell’alfabeto olandese, viene usato per formare il suono proto-indoeuropeo *eis-, che vuol dire “veloce”. Subito seguito dal morfema Oog, significante sia “isola” che “occhio” nel più moderno vocabolario dei parlanti locali. L’occhio del IJssel, piccolo effluente del Reno noto già dall’epoca degli antichi Romani per la rapidità della sua corrente ed i conseguenti meriti ai fini dello sfruttamento idrico e industriale, è stato costruito dunque tra il 1966 e il 1999, nella tipica maniera usata da queste parti: l’accumulo consequenziale di una grande quantità di terra trasportata dalle chiatte adibite a tale mansione, poi depositato sulla base di un piano ingegneristico particolarmente preciso. Prima di procedere a ricoprire il fondo della coppa risultante da un’impenetrabile strato di argilla, e gli argini con lamine metalliche giranti tutto attorno all’imboccatura. Questo perché dentro l’occhio è accumulato un tipo particolarmente spiacevole e insidioso di veleno, affine al tipico concetto mitologico di un “antico male”. Che mai dovrà esser liberato dai confini dell’Anello, pena la rovina fisica e ambientale dell’intero lago circostante…
Avete mai visto una foca della Juventus fare il tifo nel gelido mare dei Ciukci?
Zebra, zebra, nobile animale! Poiché conosce i meriti delle ore trascorse sotto il cielo aperto, interpretando le precise traiettorie di un pallone. Altrimenti come spiegheresti l’equina alternanza cupa e chiara, che quasi direttamente si richiama alla livrea di una delle più importanti squadre di pallone della più famosa penisola europea? Ma se una zebra fosse nata là, dove il mare stesso si ricopre di uno spesso strato di ghiaccio, di sicuro non avrebbe quattro zoccoli ed una criniera. Dovendo tuffarsi ad ogni volgere del vespro, trarrebbe giovamento da un corpo idrodinamico. E grossi occhi membranosi, l’ideale per vedere sott’acqua. Avrebbe pinne, al posto delle zampe, e senza erba nel raggio di un migliaio di chilometri non potrebbe fare altro che mangiare pesce a profusione. Eppure ancora tiferebbe, nel profondo del suo cuore adesso ricoperto da strati di grasso sovrapposti, per lo stesso emblema che fu il sacro simbolo dei propri genitori. Il suo spirito, l’essenza e personalità. Soprattutto se appartenente a una particolare specie, raramente fotografata, quasi mai trattata nei documentari, che per questo in pochi riconoscono quando gli capita d’incontrarla nella più vasta antologia di animali mai concepita: il mondo virtuale del web. Il che è piuttosto strano, dopo tutto, poiché nel mondo adesso esistono all’incirca 183.000, forse più del doppio di Histriophoca fasciata o foche dal nastro (ribbon seal) suddivise pressoché equamente tra i gelidi recessi del mare di Bering e di Okhotsk. Riferendosi direttamente alle loro specifiche residenze nei mesi d’inverno, laddove al progressivo liquefarsi delle proprie piattaforme scintillanti, esse rincorrono il bordo dei ghiacci fino a quello spazio estremamente nordico della geografica intercapedine tra l’Alaska e la penisola siberiana identificata con l’appellativo del suo popoli (i Ciukci) così vicino alla bagnata sommità del pianeta Terra. Il cui “nastro” può essere chiamato una metafora, nella misura in cui si riferisce alla gradevole alternanza di strisce nere e bianche, che circondano il pesante corpo dell’animale, intercalate da altrettanti cerchi neri su di una pelliccia marrone scuro. In quella che potremmo anche definire, abbandonando i richiami sportivi, una foca al caffellatte o cioccolato e vaniglia, nella tipica disposizione alimentare ed affamata della nostra gente dei continenti emersi. Di un’avidità conforme, a dire il vero, a quello stesso approccio al commercio di pellicce che portò famosamente tra gli anni ’60 ed ’80 dello scorso secolo alla creazione di un nuovo tipo di sport, simile al baseball ma in cui le mazze venivano impiegate con trasporto all’indirizzo dei fragili crani neonati di creature bianche come la neve. Perfettamente mimetizzate grazie alla loro preziosa pelliccia da una vasta varietà di predatori, ma purtroppo non quello più pericoloso di tutti: l’uomo. Sebbene sia legittimo affermare, in forza di una serie di fortuite circostanze, che il grosso del prezzo sia stato pagato dalla specie esteriormente simile della foca con la sella (harp seal) con la sua singola macchia nera sopra il dorso, ma una disposizione maggiormente socievole e soprattutto l’insolita abitudine di abbandonare i proprio piccoli altrettanto candidi ed inermi soltanto 10 giorni dopo la nascita. Affinché la natura facesse il suo corso, oppure l’anima spietata del commercio di pellicce pregiate…