Qualunque generale o comandante di compagnia, per quanto in erba, ben conosce la differenza che possono fare 50 metri negli spostamenti di una colonna di veicoli, magari corazzati. La capacità di scavalcare, letteralmente, una palude o un profondo pantano, raggiungendo l’altro lato per avvicinarsi all’obiettivo della missione. E l’opportunità di comparire, come per l’aiuto di una benevola divinità, esattamente nel luogo, nel momento e nella situazione giusta, pronti ad intervenire mediante lo strumento elementare della presenza. O quello ben più pragmatico delle armi. Simili situazioni, del resto, vengono vissute anche in campo civile, nella casistica tutt’altro che infrequente del disastro naturale. Quel particolare caso in cui le strade subiscono, per prime, il danno di giornata, impedendo sostanzialmente il transito e l’arrivo dei soccorsi. Situazioni delicate, queste, in cui l’ostilità contestuale arreca danni chiari e misurabili, che allontanano uno stato sostanziale di serenità. Terremoti. Inondazioni. Eruzioni, perché no, vulcaniche. Perché il punto dopo tutto è questo: nell’osservare la facilità d’impiego negli spostamenti del nostro moderno, onnipresente sistema stradale, spesso dimentichiamo quanto siamo abituati a farci affidamento. Per cui basta raggiungere la fine dell’asfalto, con una necessità pendente di continuare a spingersi innanzi, affinché una buona parte dei nostri autoveicoli, ivi inclusi quelli con funzioni utili alla collettività, si trovino del tutto privi di risorse. Ed ampliare le opportunità di spostamento, mediante l’impiego ruspe, macchina per la colata bituminosa, schiacciasassi e finitori della carreggiata, non è esattamente un proposito sempre a portata di mano. Specie quando il fattore tempo risulta essere determinante, ovvero il profilarsi di una situazione d’emergenza. Cosa possiamo fare, dunque? Quali sono le risorse a nostra disposizione? Usare i cingoli, naturalmente, aiuta. Ma ci sono situazioni in cui neppure questo approccio, che distribuisce il peso del veicolo su un’ampia area impedendogli di sprofondare, appare sufficiente per oltrepassare il valico dell’ardua contingenza. Ed è allora, normalmente, che un corpo d’armata si rivolge alla speciale soluzione concepita dalla Faun Trackway, azienda gallese dell’isola di Anglesey, originariamente per l’uso esclusivo del ministero della difesa del Regno Unito. E che oggi, invece, ha trovato l’applicazione nelle forze armate di oltre 30 paesi al mondo, tra cui molti siti nel Nord Europa. Luogo in cui, lo sappiamo fin troppo bene: gli ostacoli del territorio risultano essere particolarmente difficili da superare, sopratutto durante i mesi più freddi del Grande Inverno.
Proprio perché niente, in effetti, può fermare l’avanzata di uno di questi camion dotati del dispositivo, nient’altro che una serie di barre estruse di alluminio interconnesse l’una all’altra in senso longitudinale, in modo da formare un corposo rotolo, superficialmente simile a quello della carta da cucina. Ma largo svariati metri a seconda del modello e una volta esteso, lungo fino a 50! Per un metodo risolutivo estremamente semplice, che tuttavia non lascia nulla d’intentato. In primo luogo, occorre raggiungere il punto affetto dalla spiacevole mancanza di una strada. Operazione tutt’altro che complessa, visto come i veicoli in questione, sostanzialmente, non siano altro che autocarri dotati di omologazione per circolare su strada, costruiti sul telaio di marche familiari come IVECO, Man o Mowag. Quindi, e questo è semplicemente fondamentale, ci si volta a 180 gradi e si procede in retromarcia. Questo perché in tal modo, il veicolo evita di mettere le sue ruote a contatto con il fango anche soltanto per un singolo minuto, scongiurando qualsiasi potenziale rischio di restare bloccato. Esso procede mettendo il nastro metallico subito alla prova, lungo il sentiero stesso che al termine sarà in grado di sostenere fino a 70 tonnellate, un peso di poco superiore a quello di un carro Challenger, di un Leopard tedesco o di un M1 Abrams americano. Tempo necessario per l’intera operazione: appena 6-10 minuti. Un singolo addetto alla guida, fornito di filocomando del mezzo, potrà procedere a fianco dello stesso per controllare l’andamento della missione, da un punto di vista privilegiato che impedisce l’incorrere di sorprese. Finché il rotolo non si esaurisca, possibilmente (si spera) in corrispondenza del raggiungimento della meta in origine prefissata. Vi sono, ad ogni modo, approcci paralleli ed altrettanto utili proposti dalla compagnia…
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L’unico ponte con le catene da neve incorporate
C’era un tratto, nella corsa dei Pods su Tatooine nel primo prequel di Guerre Stellari, in cui i sabbipodi prendevano di mira i concorrenti con i loro fucili. Non si trattava di un incidente, per lo meno nella mente degli organizzatori, ma di una semplice caratteristica del percorso. Come il caldo di un pianeta desertico con due Soli, popolato di rettili carnivori, gigantesche formicheleoni ed a quanto pareva, pericolosi predoni delle sabbie. Semplice colore locale. Sono ragazzi, fateli giocare! Una politica simile, a quanto pare, a quella adottata in origine dall’ente pubblico per la gestione dei trasporti nella Columbia Britannica, particolarmente in merito al nuovo tratto di miglioramento autostradale dal nome in codice di Gateway Program, che aveva visto includere nel suo budget di 3 milioni di dollari la spesa, niente affatto indifferente, per sostituire un ponte lungo due chilometri sul grande fiume Fraser, uno dei maggiori di tutta la nazione canadese, sito poco più a est della grande città di Vancouver. Ma il Fato malevolo si trovava in agguato, sui lunghi cavi del nuovo cavalcavia, appartenente alla classe dei ponti strallati più o meno come quello celeberrimo che collega Manhattan al quartiere di Brooklyn. Per capire bene cosa intendo, ritorniamo per un attimo al 19 dicembre del 2012, quando la Sig.ra Caryl-Lee Obrecht si trovava ad attraversare questa meraviglia della tecnica recentemente inaugurata nel ruolo di passeggera, all’interno della Ford Focus guidata da suo marito. I due procedevano serenamente in direzione est, quando qualcosa di strano iniziò a succedere dinnanzi a loro, sulla carreggiata: grossi oggetti, semi-trasparenti, che rovinavano dall’alto con fragorosi impatti, andando in frantumi sull’asfalto semi-ghiacciato. Io non credo che molti di noi possano immaginare il senso di assoluto terrore derivante dall’essere sottoposti a un bombardamento, mentre si tenta di mantenere solida la disperata stretta sul volante. Uno, due, tre impatti sempre più vicini. Finché, all’apice estremo del terrore, un vero e proprio mini-iceberg non cadde fragorosamente nel centro esatto del parabrezza, mandandolo in frantumi. Il vento gelido che penetra nell’abitacolo, con la consapevolezza che non è assolutamente possibile fermarsi per raccogliere le idee o tentare di arginare il danno, finché non si saranno percorsi i restanti due terzi della (non tanto) stretta passerella di cemento sulla grande voragine del nulla. Ma la parte peggiore della loro giornata, a quanto ci viene narrato, non era ancora terminata. Niente affatto. Perché nel giro di pochi secondi, un altro pezzo di ghiaccio colpì la macchina, mandando in frantumi il tettuccio apribile della stessa. Ed infine un terzo, che colpì dritto in testa la malcapitata Sig.ra Obrecht. Nella relazione presentato per fare causa ai progettisti del ponte nei mesi successivi all’incidente, è descritta accuratamente l’intera esperienza: lei che sanguinando copiosamente dal cuoio capelluto lacerato, si puntella coi piedi in alto sul sedile, nel tentativo disperato di impedire al tettuccio di ripiegarsi sull’abitacolo, schiacciandola del tutto. E il marito sconvolto alla guida, che riesce miracolosamente a trarre in salvo se stesso e la consorte dall’incubo di questo inferno congelato.
La loro esperienza di quell’inverno dannato, come potrete facilmente immaginare, non fu l’unica: stiamo parlando, dopo tutto, di un ponte costruito sulla base di un’effettiva necessità della popolazione, che può facilmente raggiungere i 100.000 attraversamenti GIORNALIERI. E fu così che prima della fine di dicembre, furono segnalati alle assicurazioni almeno 300 incidenti da “bombe di ghiaccio” con danni di varia entità, più diversi feriti, benché nessuno con la stessa gravità della casistica fin qui descritta. Fu allora che il BC Public Service (l’ente responsabile) capì di avere tra le mani un significativo problema, e che dato che non era certamente possibile, giunti a quel punto, cambiare la soluzione tecnica dei cavi che passavano sopra la carreggiata, né si poteva chiudere questa fondamentale via di transito per periodi prolungati, occorreva trovare al più presto una perfetta soluzione. Ne andava della sicurezza della popolazione stessa, la più importante risorsa del Canada intero. Venne istituita con estrema rapidità una commissione di valutazione strategica, con alcuni dei migliori ingegneri, tecnici e scienziati di tutta l’area di Vancouver. Furono studiate le casistiche pregresse, benché fossero molto pochi, in effetti, i ponti strallati di simili proporzioni a dover affrontare il gelo estremo in particolari periodi dell’anno. E si giunse ad una conclusione che sostanzialmente pareva cancellare fino all’ultimo baluginio di speranza: dal punto di vista ingegneristico, non esisteva una singola valida soluzione che potesse risolvere il problema. E tutti gli abitanti della Columbia Britannica avrebbero dovuto rinforzare in modo significativo il tettuccio delle loro automobili. A meno che…
Bulldozer incatenato Vs. il pericolo dei campi minati
“Oltre quella duna, sergente. Laggiù…Dietro il cumulo di sabbia. C’è la postazione dei tedeschi e degli italiani fatta fotografare ieri dai ricognitori aerei, coi cannoni anticarro puntati dritti lungo l’unico viale d’accesso libero per El Alamein. Da qui non possono neppure vederci. Ma tutto il resto è un mare di esplosivi, un vero Giardino del Demonio.” Un secondo di silenzio sembrò intromettersi nel rombo dell’artiglieria di sbarramento, poi tutto continuò com’era prima. Devil’s Garden: un tale soprannome circolava in effetti, tra l’alleanza di Inglesi, Australiani, Neozelandesi, Sud Africani, Francesi, Greci ed Americani, per l’intera zona del campo di battaglia che il temibile Erwin Rommel detto Wüstenfuchs (la Volpe del Deserto) aveva fatto disseminare di tre milioni delle migliori, più affidabili e pericolose mine anticarro tedesche, nella precisa consapevolezza che proprio nessuno, tra i comandanti delle forze corazzate nemiche, aveva ancora imparato a fluttuare sopra il suolo sabbioso del deserto, guadagnandosi quindi l’opportunità di sorprendere le sue truppe alle spalle. “Ma quel vecchio canide baffi-lunghi e muso-a-punta non ha ancora fatto i conti con la punta della lancia. Il Corpo Ingegneri dell’Esercito di Sua Maestà. Fate avanzare…Gli Scorpioni!” Ora, se la seconda guerra mondiale si fosse svolta nel medioevo, innanzi tutto questo sarebbe stato molto meglio, per ciascuna delle parti coinvolte. Le limitazioni in fatto di tecnologia bellica, oltre alle difficoltà inerenti nell’impresa per l’epoca improbabile di attraversare gli oceani Atlantico e Pacifico, avrebbero reso indubbiamente l’intero affare molto meno sanguinoso, nonché prolisso. E gli scorpioni sarebbero stati una versione soltanto lievemente perfezionata di una delle macchine da assedio preferite dagli Antichi Romani, sostanzialmente delle gigantesche balestre caricate grazie alla torsione. Ma nell’Anno Domini 1942, il nome dell’aracnide preferito da tutti i bambini si riferiva a un qualcosa di radicalmente diverso, ovvero un Matilda Scorpion, uno di quei carri di fanteria ormai un po’ antiquati, poco armati e lenti ma dotati di una buona corazzatura, che erano stati modificati per incorporare un pesante rullo nella parte frontale, posizionato circa 1,8 metri dal muso del veicolo. Rullo sopra il quale, con notevole dimostrazione di perizia costruttiva, erano state assicurate esattamente 24 catene con dei pesi all’estremità. Tale impressionante thingmajing era dunque stato connesso ad un motore Ford V8 da 105 cavalli. Durante l’avanzata verso le linee nemiche, a questo punto, un coraggioso si sarebbe piazzato dietro la torretta del carro armato tentando di non cadere, ed avrebbe usato i comandi ad impulso elettrico per dirigere la spietata rotazione. E se tutto fosse andato bene, le mine sarebbero scoppiate PRIMA dell’arrivo del carro stesso.
Chi diamine aveva avuto questa idea? Ovviamente non lui, l’operatore. Bensì un certo capitano Abraham du Toit, a quanto si dice, di stanza in Sud Africa all’inizio della guerra. Il quale mise tutto per iscritto, colpendo ad un tal punto la fantasia dei suoi superiori, che fu subito promosso e rimandato in Inghilterra a lavorarci in gran segreto (ah, però!) Ma non prima di averne parlato, per sua e nostra fortuna, con l’ingegnere meccanico capitan Norman Berry, che in un attimo ebbe modo di diventare il suo più grande fan. Fu proprio quest’ultimo quindi, collaborando con il maggiore L. A. Girling ed altri membri del comando africano Sul-Campo, che giunse all’elaborazione dello sconcertante progetto Matilda Scorpion. Le cronache affermano che il nome del veicolo modificato si fosse palesato quasi spontaneamente, all’esclamazione di un soldato semplice che aveva visto il mostro fuoriuscire dal garage. Un qualcosa di simile a: “Goddammit! Sembra proprio uno Scorpiòn!” Ritagli memorabili di vita militare. E il debutto della nuova, costosa attrezzatura, fu… Beh, torniamo a raccontare la storia, per così dire, dall’interno…
Come si ripara uno pneumatico da 30.000 dollari
Quando si guida un mezzo da oltre 200 tonnellate più altrettante di carico, le gomme non sono più una semplice interfaccia che trasmette l’energia del motore al suolo. Ma un qualcosa di paragonabile alle fondamenta di un edificio, il sostegno strutturale di un qualcosa d’importante e duraturo. Esse rotolano, eppure, dovrebbero essere immutabili come il trascorrere del tempo. Immaginate quindi la sensazione provata dal pilota nel momento in cui la Fidia ruota si è incrinata, come il marmo del Partenone a seguito di un terremoto greco, e l’intero treno veicolare è parso scivolare verso il basso per un buon mezzo metro, mentre l’aria contenuta all’interno deflagrava con un sibilo possente, rischiando di annichilire chiunque fosse tanto sfortunato da trovarsi lì vicino nel momento dell’incidente: non è raro per simili copertoni, dopo tutto, il raggiungimento di una pressione interna di oltre 100 psi, esponenzialmente superiore a quella di una comune automobile. Ma chi mai avrebbe dovuto trovarsi, sul percorso di trasporto del materiale dal fondo di una miniera, la ruota nella ruota che ospita le ruote? Una metafora estremamente vivida della stessa condizione terrestre: l’acqua che precipita dal cielo, andando a formare i bacini da cui evapora depositando i sedimenti, per poi ritornare sopra grazie all’evaporazione. E il circolo delle materie prime, estratte, usate dall’uomo, quindi trasformate in spazzatura, che ritorna sotto terra in forma di mefitici veleni. Certo, non è propriamente la stessa cosa. E le quattro/sei sculture di gomma vulcanizzata del camion, che gira attorno al pozzo di scavo ed al suo interno, presso la cabina di comando, ospita la ruota dispari del suo volante, attentamente direzionata da colui che ben conosce il suo dovere. FERMARSI! Perché soltanto un altro metro, in queste condizioni, porterebbe al potenziale danneggiamento definitivo dell’oggetto in questione. La quale situazione, visto il suo prezzo unitario, non sarebbe d’interesse per nessuno… Tranne forse il venditore di pneumatici da cava. Il bloccarsi di un Haulpak, come venivano chiamati fino a poco tempo fa per antonomasia tutti questi camion (oggi l’azienda storica continua solamente come marchio in subordine alla giapponese Komatsu) è un’emergenza significativa nella filiera produttiva dell’industria d’estrazione, e non soltanto per l’inerente rallentamento della produzione. Ma sopratutto perché il gigante bloccato sul sentiero, o sia pure nel deposito, costituisce un ingombro notevole che ostacola anche il resto delle operazioni. L’intervento, dunque, dovrà essere immediato e risolutivo.
Tralasciamo per un attimo l’operazione di smontaggio e sostituzione della ruota per rimettere in movimento il gigante, che avremo modo di vedere poco più avanti, ed osserviamo attentamente in che consiste la vera e propria impresa di riparazione del nerastro e fessurato monumento: si tratta di un processo alquanto complicato. Nel video soprastante, in particolare, viene mostrato il processo proposto dall’azienda tedesca REMA TIP TOP, venditrice di una vasta selezione di materiali ed attrezzi concepiti in via specifica per affrontare proprio questa situazione. La scena si svolge all’interno di un’officina, che stando alla maglietta dell’operatore sembrerebbe chiamarsi H&H Industries e dove, a quanto pare, il raggiungimento di un tempestivo risultato viene in qualche modo anteposto al rispetto pedissequo di determinate regole di sicurezza. Nessun respiratore, guanti usati solamente in certe fasi dell’operazione, maniche corte con le braccia ricoperte di schegge di gomma sminuzzata. E figuriamoci i polmoni! Ma resta indubbio che la sicurezza di quest’uomo all’opera, in qualche maniera, controbilanci persino simili trascuratezze, creando un contesto in cui esse vengono smorzate dalla cautela che nasce dall’esperienza. Pensate solamente alle conoscenze pregresse necessarie per la prima fase definita dello skive, in cui costui deve letteralmente scavare con una fresa la parte esterna dello pneumatico, per raggiungere il suo nocciolo nel punto in cui si è formato spontaneamente il foro. Proprio così, formato: qui non stiamo parlando certamente di un chiodo, che tra l’altro, per raggiungere l’altro lato della gomma avrebbe dovuto essere più che altro una spada, bensì del cedimento di un’ammasso di gomma sottoposto a terribili pressioni ogni singolo giorno della sua vita funzionale, finché alla fine, del tutto esasperato, ha detto: “Basta, mi ritiro!” Ma gli oggetti non hanno ALCUN potere decisionale…