Si presuma che tu debba cavalcare l’onda. Sfruttare, replicare la preziosa chiave del tuo successo; in altri termini, donare in cambio la canonica libbra di carne, avendo in cambio fama, successo e perché no, anche una certa quantità di denaro. Ciò prevede in fin dei conti quel sistema mediatico del Web, usato in tanti casi per questioni inutili o facete, ma che per Ben, il fondatore e proprietario del rifugio per animali TURR (The Urban Rescue Ranch) di Austin, Texas è parte inscindibile di uno stile di vita finalizzato al patrocinio, la tutela e la continuativa convivenza con un’ampia varietà di creature: opossum, polli, anatre, conigli, maialini, struzzi, emu e un canguro. Più qualcosa, o per meglio dire un qualcuno, dall’aspetto eccelso ma la personalità decisamente problematica, l’amato/odiato Kevin, membro della specie aviaria Rhea americana o comune, che più che avere un diavolo per capello sembra essere, lui stesso, la manifestazione piumata dell’intera chioma di Lucifero svegliatosi parecchio male. Così la prima volta innanzi al pubblico, verso la fine del mese scorso è apparso sul suo canale di YouTube, successivamente ai vari e collaudati Instagram, Patreon, Tiktok ed Onlyfans, un esempio della tipica interazione tra uomo e un simile animale, per cui alcuna espressione proverbiale potrebbe rivelarsi maggiormente appropriata che “beccare la mano che lo nutre”. Ovvero il braccio intero, inseguito ed inquadrato con sguardo malefico, prima di pinzare dolorosamente a sangue la pelle del suo amichevole ed intraprendente padrone, lasciandogli l’unica risorsa possibile che afferrare un coperchio di plastica del cesto della spazzatura. Per difendersi come possibile, vibrando qualche colpo bonario sulla testa del suo acerrimo persecutore. È soprattutto una scena divertente che parrebbe uscita in via diretta da un qualsiasi cartone animato, tale da condurre nuovi spettatori agli exploit mediatici di questa vittima costantemente in cerca di visibilità a fin di bene. Ma può altrettanto facilmente diventare l’occasione, se vogliamo, di approfondire l’indole e il comportamento di questo abitante poco conosciuto delle pampas sulla punta meridionale del continente americano, che tanto spesso viene scambiato, negli zoo e fattorie, per un semplice struzzo, quando in effetti possiede una natura e caratteristiche ben diverse. Pur appartenendo, per morfologia e codice genetico, al raggruppamento tassonomicamente informale dei ratiti, dal latino ratis, per la forma piatta (“a zattera”) del proprio sterno, privo dei complicati processi coracoidei necessari a una muscolatura capace di spiccare effettivamente il volo. Il che tende a permettergli, di contro, il raggiungimento di dimensioni decisamente notevoli, come non fa certo eccezione il rhea o nandù grigio, come viene chiamato dalle popolazioni di Uruguay, Bolivia, Brasile e Paraguay, capace di superare agevolmente il metro e settanta, potendo così guadare eventuali vittime umane direttamente negli occhi, prima d’iniziare a caricarle. L’impressionante aggressività del nostro Kevin, dunque, non è un tratto caratteriale eccessivamente insolito, quando si considera l’indole tipicamente territoriale di questi ottimi corridori, che sono soliti riservare a se stessi e famiglia un considerevole spazio tra i 2 e i 3 Km quadrati, entro cui qualsiasi cosa abbia l’iniziativa di mettere piede fatta eccezione per altri erbivori come i guanaco, tollerati e usati con la logica del branco interspecie, dovrà essere sistematicamente distrutta secondo una precisa prassi ereditaria. Che l’uccello rende manifesta, in modo particolare, già successivamente alla stagione degli accoppiamenti, tra luglio e gennaio, quando trascorsi i 25 giorni prima della deposizione delle uova, e gli ulteriori 20-30 di covata da parte del padre, quest’ultimo diventerà talmente protettivo nei confronti dei nuovi nati da scacciare via persino i membri della stessa specie, inclusa la madre con cui aveva collaborato per riuscire a metterli al mondo. Un comportamento dettato da presupposti ben precisi e per i piccoli comparativamente del tutto indifesi nei confronti dei predatori, rispetto ai genitori con la loro formidabile forza e capacità di reagire aggressivamente nei confronti del nemico. Senza contare la capacità di correre fino alla velocità di 30 miglia orarie lasciando nella polvere anche il coguaro medio, unico predatore capace di fagocitare un membro adulto di questa specie. Mentre le creature capaci di costituire un pericolo per i nuovi nati includono volpi, coyote, gatti delle pampas (Leopardus colocolo) e l’armadillo villoso maggiore (Chaetophractus villosus). Nonché ovviamente, la più pericolosa specie di tutte, quella a cui appartiene la stessa vittima texana di quel becco notevolmente affilato…
conservazione
Perché pur trattandosi di una chimera, non c’è proprio nulla di satanico nell’asino-capra
Non vista, non sentita e nota solamente per la sua reputazione, una creatura oscura in più di un senso tende ad aggirarsi tutto attorno all’isola di Sumatra. Secondo le leggende dei nativi, essa usa le sue corna per arrampicarsi sulla cima delle montagne e con le stesse è solita restare appesa agli alberi di sera, per non cadere preda della fame dei predatori. Storie assai probabilmente esagerate ma non poi così tanto, se si prendono in considerazione le noti uniche e l’agilità di questo essere, filosoficamente nato sotto il segno zodiacale del Capricorno. E che da esso ha preso in prestito una parte dell’aspetto ed il nome, se è vero che il Capricornis sumatraensis rientra a pieno titolo nella tribù tassonomica dei rupicaprini o capre di montagna pur presentando una conformazione fisica talmente distintiva, da aver portato in molti a dubitare al ungo che potesse essere imparentato con un dei più tipici animali della fattoria. Basso e tarchiato con un collo ampio (maschi e femmine possiedono lo stesso aspetto e dimensioni) non più alto di un metro al garrese eppure dal peso di fino a 30-40 Kg, questo ruminante dotato di grandi orecchie quasi equine assieme a piccole corna rivolte all’indietro è solito muoversi liberamente soprattutto verso le ore del tramonto, quando perlustrando i confini esterni del suo territorio va in cerca di erba nutriente, frutta e i rami più bassi, da introdurre masticando all’interno del suo sofisticato sistema digerente. Ed è soltanto in tale circostanza che talvolta, alle genti native capita di scorgerne la sagoma in lontananza, oppure si verifica l’inquadratura da parte di una delle fototrappole disposte strategicamente, lasciando sospettare un’incipiente rarità dell’essere stravagante, che comunque ormai da tempo è stato indicizzato come vulnerabile da parte dell’associazione internazionale IUCN. Il che si applica in modo particolare per la sottospecie locale così come tutte le altre nel loro vastissimo areale che include il Vietnam, la Cambogia, la Malesia ed il Laos, senza parlare delle due varianti cinesi chiamate C. milneedwardsii. Le ragioni sono molteplici, a partire dalla caccia con scopi alimentari passando per la solita predilezione della medicina tradizionale dell’Asia Orientale nei confronti ingredienti tratti da specie a rischio, nonché la sempre problematica superstizione, che ha fatto di quest’animale schivo e solitario una visione ritenuta infausta. Fino all’estremo del caso giapponese, dove la specie strettamente imparentata del C. crispus è stata chiamata per diversi secoli la “capra demone” o “mucca a nove code”. Ma il problema fondamentale, che tutt’ora impedisce a molti paesi d’inserirlo in una categoria protetta, è che il serow di Sumatra in effetti resta largamente sconosciuto, risultando privo di quel carisma implicito che attraverso gli anni ha portato allo sforzo collettivo atto a preservare i grandi carnivori, gli erbivori e gli scaltri primati sulle cime degli alberi antistanti. Persino nell’ambiente scientifico, dove si contano sulla dita di una mano gli studi scientifici pregressi, mentre manca ad esempio qualsivoglia tipo di approfondimento sul sistema di accoppiamento, la cura dei piccoli e l’effettivo ruolo ecologico di queste capre nei loro territori d’appartenenza. Mentre quel poco che sappiamo può configurarsi, senza ombra di dubbio, nella categoria degli argomenti meritevoli di almeno un transitorio approfondimento…
Si festeggia sulla punta estrema dell’Asia: avvistata un’intera famiglia del felino più raro al mondo
Adattamento, esperienza, sopravvivenza: nella terra gelida della Russia nell’Estremo Oriente, non troppo lontano dalla città di Vladivostok, poche creature possono vantare la stessa capacità di adattamento del leopardo di Amur, sottospecie del grande felino associato nell’idea comune agli ambienti tiepidi dell’Africa centro-meridionale, in grado tuttavia di costruire la sua discendenza sulla base di presupposti notevolmente vari. Eppure non c’è nulla, tra le sue notevoli caratteristiche evolutive, che sia stato in grado negli ultimi anni di garantire la continuativa sopravvivenza di questa creatura, se è vero che all’inizio degli anni 2000, gli esemplari rimasti in tutto il mondo includevano una cifra di circa 35, molti dei quali custoditi in cattività. Ma le cose cambiano e come c’insegna la vicenda del panda gigante, dove c’è l’intento di fare del bene, fondato su precisi metodi scientifici ed approcci di efficacia comprovata, c’è ben poco che un destino gramo possa mettere sulla strada di una specie destinata ad esistere, nonostante tutto, e resistere per gli immediati secoli a venire. O almeno questo è ciò che siamo autorizzati a sperare, dopo l’ultima testimonianza raccolta, grazie a telecamere faunistiche disseminate nell’ecoregione delle foreste manciuriane, dove in epoca recente simili quadretti hanno ricominciato ad apparire saltuariamente, grazie allo sforzo di conservazione compiuto dalle istituzioni locali. A presentare il video al pubblico ci pensa Ivan Rakov, direttore e portavoce del parco di 2.799 chilometri quadrati “La Terra dei Leopardi”, fondato nel 2012 nella zona di Primorsky con l’esplicita intenzione di offrire un porto sicuro a queste splendide creature, nonché la loro lontana e meno rara parente, la tigre siberiana. Tra il dire e il fare, come si è soliti affermare, c’è tuttavia la vasta taiga innevata dei reconditi recessi siberiani, ed è pur sempre straordinariamente difficile, per queste creature, portare fino all’età dell’indipendenza ben tre piccoli eredi, ciascuno dei quali rappresenta in primo luogo un’ulteriore bocca da sfamare per l’indaffarata madre cacciatrice, così come evidentemente fatto con successo dall’allegra famigliola oggetto della rilevante press release, i cui protagonisti appaiono sicuri di se, attenti e perfettamente in salute, mentre scrutano da un promontorio quello che i naturalisti hanno ipotizzato essere un animale di qualche tipo, probabilmente destinato a cader vittima della loro inevitabile fame.
Il leopardo della regione di Amur, nome scientifico Panthera pardus orientalis, rientra dunque tra le sottospecie a rischio d’estinzione critico secondo la classificazione dello IUCN, una triste medaglia riservata solamente a quelle creature la cui sopravvivenza risulta allo stato dei fatti attuali sospesa letteralmente a un filo sottile, avvolto attorno al braccio di coloro che riescono ad attribuire il giusto valore alla biodiversità corrente. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, esso rappresenta infatti la convergenza di particolari tratti, in grado di differenziarlo in modo significativo dai suoi parenti: in primo luogo, la prevedibile lunghezza maggiore del pelo ed le macchie di quel manto, maggiormente distanziate al fine di meglio adattarsi al mimetismo tra la vegetazione di questi luoghi. Inoltre, le dimensioni sensibilmente più piccole rispetto alla media dei leopardi, con 32-48 Kg per il maschio, 25-42 per la femmina. Completa il quadro, una maggiore propensione ad arrampicarsi sugli alberi, metodologia apprezzata dall’animale per potersi assicurare un luogo sicuro dove consumare le prede recentemente catturate. Creatura niente affatto socievole con i suoi simili, come nel caso di molti altri grandi carnivori, questa tipologia di predatore necessita inerentemente un area di caccia particolarmente vasta al fine di sostenere se stesso, ed ancor più quando sono presenti i cuccioli, avendo reso semplicemente impossibile garantire la sua sicurezza contro i molti cacciatori di frodo, interessati alla preziosa pelle e le ossa utilizzate nella medicina cinese, almeno fino alla costituzione di un’area sottoposta a stretto regime di sorveglianza dove gradualmente, uno dopo l’altro, un certo numero di esemplari è stato riportato gradualmente allo stato brado. Una scommessa particolarmente rischiosa eppure, in un certo senso, l’unica in grado di concedere un significato durevole allo sforzo per la conservazione di simili creature, così estremamente rappresentative di un particolare, ormai quasi perduto stile di vita…
Lo strano richiamo dell’oropendola, uccello imperatore degli Aztechi
A mezz’altezza nella giungle rumorose del Centro America, un grosso frutto pende da imponenti alberi di almeno 30 metri. Basterà uno sguardo di sfuggita, tuttavia, per confermare come tali arbusti appartengano a specie molto differenti tra di loro, nonostante l’aspetto conforme dell’oggetto sferoidale al centro della nostra annotazione. E poter così testimoniare l’attenzione, estremamente concentrata ed alquanto sospetta, da parte di una particolare tipologia d’uccelli, color nocciola focata con la coda gialla, le guance bianche e la punta del becco di un colore rosso intenso. Questo perché il globo intrecciato di quei rami non costituisce, a conti fatti, alcun tipo di prodotto vegetale se si esclude l’incidentale fornitura postuma di materiali; quanto piuttosto la specifica creazione del volatile, per custodire le sue uova dall’intento predatorio di scimmie, serpenti e tucani affamati. Architettura: l’elaborazione di elementi artistici e strutturali finalizzata a garantire uno spazio abitabile per l’uomo. Togli l’uomo, e cosa resta? Caso vuole che basti guardare in alto, per comprendere lo spettro di una tale verità. Là, dove lo Psarocolius montezuma mette in pratica, da tempo immemore, il suo notevole stile di sopravvivenza. Che include quel distintivo approccio comunicativo e canoro, quasi robotico, in aggiunta alla creazione del nido in grado di appesantire sensibilmente l’ampia varietà di arbusti locali.
Questo uccello di fino a 50 cm nel caso del maschio ed “appena” 38 nella femmina, contrariamente a quanto si potrebbe pensare viste tali dimensioni, è un rappresentante nel Nuovo Mondo dell’ordine dei Passeriformi, appartenente alla grande famiglia degli itteridi, caratterizzati da una certa quantità di giallo contenuta quasi sempre all’interno della loro livrea. Dotato di un areale molto ampio, che si estende dal Messico fino al Panama centrale, l’altrimenti detta “oropendola” con fino a 5 milioni di esemplari possibili secondo le stime dello IUCN risulta tuttavia stranamente poco conosciuta nel resto del mondo, nonostante si tratti di una creatura certamente rilevante dal punto di vista tassonomico, al punto di essersi vista attribuire come parte del suo nome scientifico l’appellativo del più potente sovrano della civiltà azteca, che nel XV secolo permise a tale impero di raggiungere la sua massima estensione. Tratto distintivo apprezzabile quindi, in aggiunta allo stile abitativo, è il riconoscibile verso emesso da tali abitanti delle distanti chiome in occasione delle loro attività amorose: un trillo arzigogolato e discorsivo, che al culmine della sua evoluzione lascia il posto ad un grido basso e potente, accompagnato da una specifica danza consistente nell’inchinarsi alla possibile partner in attesa. Per un aspetto aurale a tal punto importante, ai fini riproduttivi, da essere considerato la ragione di un tale dimorfismo sessuale delle dimensioni tra maschio e femmina, affinché il primo possa trarre beneficio da una maggiore cassa di risonanza. Continuamente intenti a confrontare la propria potenza musicale a vicenda, soprattutto tra i mesi di gennaio e maggio, le oropendole saranno quindi inclini a individuare un maschio alfa tra i partecipanti alla comunità urlante. Il quale, lui soltanto, potrà accoppiarsi con le femmine, mentre gli altri avranno il solo incarico di proteggere i suoi molti nidi; un’approccio alla questione, quest’ultimo, che possiamo ritrovare frequentemente in molte specie di mammiferi, mentre risulta estremamente raro, per non dire unico, tra gli uccelli. Le uova deposte sono in genere due, bianche o marroni, incubate esclusivamente dalla femmina per un periodo di due settimane. Ed ulteriori 30 giorni affinché i piccoli possano spiccare agilmente il volo, dimostrandosi notevolmente precoci nel loro contesto biologico d’appartenenza. Il che, tutto considerato, accresce in modo significativo l’ineccepibile efficienza evolutiva di questi formidabili sovrani della foresta.