L’appetibile miasma dell’aringa acida svedese

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Abituati a sentire su più livelli le vicende attuali e storiche della casa reale d’Inghilterra, fin troppo spesso tralasciamo il fatto che quella non è certo l’ultima grande monarchia costituzionale d’Europa. Ve ne sono, in effetti, ancora 11 (12 se contiamo il Vaticano) ciascuna importante a suo modo nelle alterne vicende del continente, ma soprattutto nella storia specifica del suo paese. Nella nazione nordica di Svezia, tra l’altro, di sovrani ce ne sono almeno due: Sua Altezza Carlo XVI Gustavo, che regna ormai dal 1973, e Ruben Madsen, colloquialmente definito in questo segmento di telegiornale come “Il Re del Surströmming” e voi non avete assolutamente… Idea. Di cosa implichi un simile titolo, quali siano i doveri nobiliari dell’unica persona nominata, in un dato momento, dalla leggendaria accademia dell’isola di Ulvön, dove i guerrieri giungono per cimentarsi nell’arduo percorso dell’Eroe. Situazioni come questa, vissuta in una tersa mattina di dicembre di un gelido 2016, durante una trasferta in Norvegia nella località di Trysil, per risolvere una situazione che soltanto pochi eletti, nel mondo della gastronomia internazionale, potrebbero riuscire a disinnescare. Si, stiamo parlando in senso totalmente pratico: qui c’era il pericolo di un’esplosione. O almeno questo ritenevano i coniugi Inge Haugen e Bjorg Hennum, in relazione ad un temibile ordigno rimasto sotto il tetto di un loro capanno nel bel mezzo della tundra scandinava, fin dall’anno bisestile del remoto 1992. Pensate, quando questa situazione, in Italia finiva l’ultimo governo di Andreotti, e la Serbia e il Montenegro si univano, formando la Repubblica Popolare di Jugoslavia. Mentre in America saliva al potere Bill Clinton, a Genova si celebrava il cinquecentanario della scoperta di quel continente, rendendo onore all’antico connazionale Cristoforo Colombo. Il che, tornando a noi nell’epoca presente, costituisce un problema molto significativo. Perché restava pur sempre possibile, con gran cautela, rimuovere l’oggetto della discordia e farlo brillare con un paio di candelotti di dinamite. Ma i norvegesi, come del resto gli svedesi, non amano certo sprecare dell’ottimo pesce correttamente e lungamente “stagionato”. E poi, altrimenti, perché mai preoccuparsi di far venire fuori sede il grande Re? Dunque spettatori, io vi metto in guardia: questa roba lui aveva intenzione di mangiarsela, e in effetti, per alcuni terribili momenti, sembra proprio che stesse per farlo, costi quel costi. Tra lo stupore, l’entusiasmo e l’ansia generale, di quella dozzina di persone giunte per assistere all’abdicazione per suicidio di uno degli ultimi grandi sovrani.
“Se c’è ancora del pesce là dentro” afferma sghignazzando costui: “quanto è vero che mi chiamo Madsen, io lo mangerò.” Usando quindi il manico di una pala per fare leva, ed assistito dalla delegazione tecnica degli abitanti locali, egli inizia la delicata estrazione, che non può evitare di riportarci alla mente la vicenda della celebre Excalibur, la spada più importante nella storia dell’umanità. Immaginate voi se qualcun altro fosse stato al suo posto, in quel momento, a compiere simili gesti: non è forse vero che lo scettro e la corona reali, almeno in linea di principio, sarebbero dovuti transitare fino al nuovo legittimo dominatore? La scena del surströmming è rigorosamente meritocratica, e soltanto colui che sa apprezzare le annate più  del sublime pesce fermentato può affermare, in tutta coscienza, di meritare il predominio sopra l’ammasso eterogeneo dei cultori della stessa, incomprensibile passione. Posto sul tavolo un simile sacrale pegno del demonio, il re impugna quindi il suo fido apriscatole, ed inizia la delicata operazione di apertura. Il barattolo è vistosamente rigonfio nella sua parte centrale, per via del processo di autolisi batterica creatosi nella soluzione di acqua e sale, lo stesso alla base delle pericolosissime infezioni di botulino. Al primo foro praticato, si ode un sibilo distinto: è forse questa l’aria dell’epoca dei nostri antenati, che grida il suo trionfo mentre fugge dall’imperscrutabile prigione? O forse l’ultimo capitolo della vicenda, mentre scatta l’innesco del detonatore, e l’odore ben distinto della morte fa da araldo emblematico negli ultimi secondi di vita su questa Terra? Lentamente, delicatamente, il tappo inizia a sollevarsi…

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La questione del metallo nei corn flakes

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In una delle scene più riuscite del secondo film degli X-Men, l’antagonista Magneto sfrutta i suoi poteri di controllo del metallo per sfuggire da una prigione speciale, costruita interamente in plastica per impedirgli di tornare a terrorizzare l’umanità. Il metodo immaginato dagli sceneggiatori è piuttosto creativo: era stata la sua vecchia amica e commilitona Mystique, la donna mutaforma, a sedurre una guardia ed inoculare nel suo flusso sanguigno una soluzione di metallo concentrato, che il pericoloso criminale super-umano avrebbe percepito durante il prossimo controllo di routine, quindi impiegato per distruggere la cella e fuggire via (con conseguenze alquanto rovinose per il malcapitato secondino). Una soluzione narrativa funzionale, ma che non tiene conto di un aspetto fondamentale dell’organismo umano. Ovvero la presenza costante al suo interno, salvo particolari condizioni cliniche, di una certa quantità variabile di ferro. Almeno 3-4 grammi in un individuo adulto che non sono tantissimi in termini generali, ma una volta compressi e fatti muovere con il potere della mente, dovevano risultare sufficienti a risolvere la situazione. Stiamo dopo tutto parlando del personaggio che, nei fumetti, ha sollevato dal fondale marino un sottomarino nucleare da 30.000 tonnellate o più volte respinto asteroidi in rotta di collisione con la Terra. La domanda a questo punto, tuttavia, è un’altra: i chiodi non sono commestibili. Le graffette non sono commestibili. Né gradevoli nel gusto. Come è possibile, dunque, che all’interno del nostro corpo sia presente una certa quantità della stessa materia di cui sono composte? La risposta a questa domanda, l’unica possibile, la troviamo sull’etichetta di varie tipologie di cibo. Eppure non amiamo pensare troppo alla questione. E il più delle volte, non siamo del tutto coscienti della purissima realtà.
Ci sono innumerevoli versioni di questo esperimento su YouTube, portato avanti con un intento che oscilla dal divulgativo al sensazionalista, e piccole variazioni nella procedura. Il punto principale, tuttavia, è sempre lo stesso: dimostrare che quando si dice che un alimento contiene “una certa quantità di ferro” non ci si sta riferendo ad una qualche proteina, una sostanza equivalente ma solubile o altre anti-scientifiche diavolerie, ma proprio all’elemento atomico numero 26, completo di capacità magnetiche e tutto il resto. E il fatto che esso sia presente con una concentrazione trascurabile per ciascun grammo di vivande, a ben pensarci, non dovrebbe rendere l’intera presa di coscienza meno significativa. Nella serie del canale Flinn Scientific sul modo migliore per insegnare la chimica ai ragazzi, il Prof. Bob Becker conduce un segmento sul tema che potremmo definire totalmente illuminante. Il suo metodo è semplice, ed al tempo stesso risolutivo. Si comincia prendendo una confezione di comunissimi corn flakes. Questo perché, come viene spesso pubblicizzato in merito alla prototipica Colazione dei Campioni essa contiene già in se stessa l’intero fabbisogno giornaliero di una certa quantità di sostanze vitali per l’organismo umano, tra cui per l’appunto il ferro. La dimostrazione procede, come nella migliore usanza del metodo scientifico, per gradi successivi. Come prima cosa viene impiegato un potente magnete per tentare di far muovere i fiocchi d’avena. Operazione che fallisce inevitabilmente, a causa de “l’attrito sviluppato dalla superficie del tavolo.” Lo sperimentatore prende quindi una ciotola d’acqua e vi dispone all’interno alcuni corn flakes, poi avvicina nuovamente la calamita. Ed è soltanto allora, che le cose iniziano a farsi veramente interessanti…

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Il problema dei procioni che s’incastrano nei carri armati

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Un nemico così subdolo veloce, furbo, pronto alla battaglia, che non può essere più definito un semplice soldato, bensì un guerriero, un giustiziere della notte con tanto di maschera sul volto. Le voci corrono nella caserma: “È la prima volta che ci troviamo ad affrontare qualcosa di simile. Un lieve suono nella notte, un refolo di vento. Bastano una porta o una finestra distrattamente lasciate aperte, magari da quelli del 23°… Per non parlare degli…Sportellini di metallo. Ah! Gente di città! Loro non conoscono il PERICOLO della foresta…” Ovviamente, nessuno dei militari in servizio presso la piccola base di riservisti può avere una cognizione diretta di cosa possono farti solo due, tre anni di guerra continuativa. Chi ha servito in Vietnam, quel luogo in cui la capacità di provare sentimenti fu annacquata e trasportata vai dal soffio dei monsoni, avrà ormai un rango d’ufficiale con spalline di un certo livello, tale dal non ritrovarsi sul finir di una mattina di ottobre, ad armeggiare con un vecchio M-41 Bulldog, carro leggero in servizio dal 1953. Mai ritirato dal servizio attivo, più che altro, perché sarebbe stata una fatica eccessiva. Benché non vedrete di sicuro uno di questi mezzi trasportato all’estero dalle forze armate degli Stati Uniti, neanche per usarlo contro i mezzi altrettanto vetusti di un qualche dirupato spiegamento. Nossignore, qui stiamo parlando d’implementi bellici da usare solamente in caso di emergenza. Risorse per l’ultimo e più disperato dei conflitti. Da mantenere in condizioni ineccepibili, come segno di rispetto al Presidente e allo zio Sam. Mentre la quadrìmane controparte, a quanto ne sappiamo, non ha mai smesso di combattere senza mai un singolo dubbio sulla causa: cibo, cibo, nutrizione, pane e carne e dolci, dolci caramelle… Come potrebbe mai, un singolo soldato umano, affrontare tutto ciò? “Ca-capitano, è successo di nuovo.” Le pale del ventilatore girano a velocità ridotta, nell’elegante sala riunioni del secondo piano. Il fumo di un sigaro cubano, lieve nell’aere, disegna volute spiraleggianti che si stagliano su sciabole di luce.  “C’è un p-p-procione nel mio carro armato.” NO, CHE C▬ NON È ▬ POSSIBILE, di nuovo? Come avete potuto permettere che succedesse, COME? L’ultima volta, quei dannati cosi hanno artigliato un sedile, graffiato le ottiche della mitragliatrice secondaria, disintegrato lo zaino con le razioni K ed alla fine delle gozzoviglie, per buona misura, anche lasciato un ricordino nel compartimento delle munizioni. Vuoi ritrovarti TU a pulirlo, tenente? Io ti sequestro i guanti e te lo faccio fare con la linn▬! “N-n-n-no, non ha c-capito. Non ha capito. Signore! Questa volta il procione si è incastrato, e…” Ah. Sempre meglio, puah! Allora ecco la tua missione: torna la sotto. E tira fuori. Il procione. Dal carro armato. Non c’è un accalappiatore designato, qui.
Si, ma la vera domanda è “Come?” Naturalmente, ci sono casi d’incastramento animali in cui basta dare un colpo sul loro sedere peloso, per spaventarli a sufficienza indurli a fuggire verso l’orizzonte. In altri determinati casi di lupi o cervi che s’impigliano nel filo spinato, un paio di tenaglie e molta cautela sono l’approccio consigliato per dirimere la situazione. Ma non c’è una procedura, un modus operandi riconosciuto, per una scena tanto improbabile ed assurda. Il procione ha infatti tentato, nella sua costante attività di ladrocinio, di penetrare nel mezzo blindato attraverso la fessura rettangolare per l’episcopio del guidatore. Uno strumento simile ad un periscopio, usato per guardare fuori senza esporsi al fuoco dei cecchini. Il quale misura, a quanto pare, esattamente come il girovita della povera grassa bestiola. Che adesso si trova gambe all’aria e fuso col veicolo, come nella scena di un irriverente cartoon, mentre un altro membro del corpo carristi sta tentando disperatamente di tirarlo fuori senza fargli male. Nel frattempo un capannello di commilitoni, apparentemente senza niente di meglio di fare nella loro lunghissima giornata, gridano vari suggerimenti sconclusionati: “Tira il procione, tiralo. Spingi il procione, spingilo.” Ora al di là dello scompiglio causato da un simile imprevisto evento, appariva chiaro che chiunque avesse estratto questo equivalente della Spada della Roccia, sarebbe presto diventato al pari del Re d’Inghilterra. E tutti ci volevano provare, ma poiché la gerarchia aveva pur sempre la sua importanza, l’addetto fu pronto a farsi da parte per il suo diretto superiore. “Forse potrei usare dell’olio da cucina…” Ipotizza il tenente, nel video ripreso segretamente da qualcuno e caricato, originariamente, anche sul portale LiveLeak. Poi prese lievemente a ricordare le esperienze della sua remota gioventù…

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Il suono che produce una tarantola sulla moquette

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Nell’immaginario cinematografico, tutto deve sempre necessariamente produrre un rumore di qualche tipo. È una questione semplicemente necessaria ad appassionare lo spettatore, coinvolgendo entrambi i suoi sensi più importanti per l’acquisizione di dati e sensazioni. Così un serpente che striscia nell’erba, per ovvie ragioni, sarà sempre sibilante, un uccello sopra i rami produrrà un lieve battito d’ali, quando non addirittura il verso penetrante facente parte della sua stessa natura. Mentre tra gli artropodi di terra e i ragni… La questione inizia a farsi più complicata. Qual’è il verso di uno scorpione? Quale quello di una formica? E della tarantola, che mi dici? Generalmente, il rumorista ricorre ad fruscio ritmico e ripetuto, in qualche maniera prodotto dal muoversi delle zampe dell’animale. Che finisce per ricordare il rumore robotico di un pupazzetto a molla. E chi avrebbe mai pensato che c’era del Vero, in tutto questo…
Non è facile ricostruire con l’immaginazione il processo che porta una persona in cerca dell’animale domestico perfetto, a pensare: “Ecco, quello che manca nella mia vita è PROPRIO un ragno gigante. Se soltanto potesi portare un Theraphosa blondi dentro a questa casa, sono certo che le cose inizierebbero ad andare per il meglio.” Giorni interi trascorsi ad amare la tarantola, dimenticandosi dei propri più pressanti problemi. Nelle notti buie, la certezza che qualcuno, nel terrario, sta strisciando silenziosamente fino alla vaschetta con l’acqua, per idratare sufficientemente il suo prosoma. E poi, soprattutto, il giorno della festa. Quando viene il momento di concedersi, nonostante la riservatezza e il lieve disagio dell’animale, l’occasione lungamente attesa dell’interazione, ovvero liberarlo per la casa e farlo correre un po’ in giro, mentre si tenta di limitare per quanto possibile il suo pascolare, verso gli oscuri pertugi e sotto i mobili difficili da muovere per riportarlo nella sua casetta al termine della frenetica esperienza. Perché di nulla meno che questo, si tratta: persino per tarantulaguy1976 e sua moglie, grandi esperti del settore, che possono vantare presso il loro canale di YouTube decine di video famosi relativi a questo insolito hobby, o se vogliamo convivenza con il ragno più grosso e pesante del mondo. Ci sono del resto molte ragioni, l’avrete immaginato, per cui la creatura nota come “Goliath mangiatore d’uccelli” non è esattamente adatta ai principianti: in primo luogo il suo temperamento evidentemente aggressivo, che porta l’adorata Zilla (questo era il suo nome) ad atteggiamenti relativamente aggressivi verso i suoi padroni, benché non assuma fortunatamente una vera e propria posa di combattimento, gesto che avrebbe indicato un effettivo stato di stress. Poi c’è la questione dei peli urticanti: molte delle tarantole del Nuovo Mondo, e sia chiaro che il T. blondi è originario del Sud America, presentano come strumento difensivo un folto manto sull’intero opisthosoma (l’addome) e le zampe, composto da innumerevoli setole appuntite ed urticanti pressapoco come quelle dell’ortica. Il ragno, se davvero arrabbiato col suo padrone, tenterà quindi non soltanto di strofinargli contro il sedere. Ma arriverà a pettinarsi con i pedipalpi, la coppia anteriore di zampe adatte alla manipolazione, per lanciare letteralmente queste armi all’indirizzo dell’epidermide umana, ben sapendo che lì finiranno per conficcarsi, continuando a far male per giorni ed ore. Come ultima risorsa, va pur detto, il ragno potrebbe mordere la mano che lo nutre, inoculando un veleno più che sufficiente a paralizzare le sue prede naturali, come topi o lucertole, ma che nell’uomo, per fortuna, non produce effetti maggiori di una puntura di vespa. Il che, diciamolo, non è piacevolissimo, ahimé. Ma le…SODDISFAZIONI che un beniamino simile può regalarti! Ah…

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