La morte aracnide sotto le sabbie del Kalahari

Acqua? Dove stiamo andando, non avrai bisogno di “acqua”. Per i suoi 15 anni di vita, non ha bevuto. E soltanto una volta ogni 6 mesi circa, qualcosa ha mangiato. Tra le sabbie senza l’ombra di confini, dove qualcuno, in un momento ormai dimenticato, sembra aver disposto un mare di gioielli a gruppi di sei. A tre a tre, semisepolti tra la sabbia in doppie file, che riflettono la luce infuocata del dio Sole. Così, tu morirai qui in mezzo tra le dune, dell’Atacama, del Sechura, del Kalahari. Africa o Sud America, che differenza fa… Tutto quello che dovrai fare è scegliere la maniera. Come ad esempio, chinandoti a raccogliere uno di quei tesori. Soltanto per un attimo, prenderlo in mano, osservandolo che si trasforma nella zampettante creatura simile ad un granchio, dalle zanne invisibili e sottili. Così sottili, che in un primo momento non percepirai il dolore. In un primo… Momento. Ora, non si hanno notizie confermate di morsi letali da parte del Sicarius Terrosus, ragno a sei occhi delle sabbie, benché un paio di morti sospette siano state attribuite a lui. Talmente remoto è il suo habitat, e così timido e schivo risulta essere l’animale, più propenso ad immobilizzarsi se minacciato. È pur vero del resto che, a quanto ne sappiamo, nessun essere è mai sopravvissuto al suo morso. Per quanto concerne l’elaborazione di un grado di pericolosità in merito a un’animale, i fattori da prendere in considerazione sono parecchi. Ma in termini di pura efficacia del veleno, non c’è probabilmente una singola creatura che raggiunga il suo terrificante livello su questo pianeta. Stiamo parlando, per essere assolutamente cristallini, di una dose LD50 di 0,004 g/Kg; il che significa per su 100 sfortunati esseri scelti come cavie, la metà morirà assumendo una proporzione tanto infinitesimale di veleno. Di questo possiamo purtroppo essere sicuri, visto il drammatico esperimento effettuato in merito alla specie africana S. hahni (anche detto l’assassino di terracotta per il suo colore) con l’assistenza involontaria di un’ingente quantità d’innocenti conigli. Così è la scienza. Questa è la scimmiesca, infinita curiosità umana.
Aracnidi di dimensione medio-piccola (9-19 mm di lunghezza) e dall’aspetto molto simile al ragno eremita americano (Loxosceles reclusa) questi esseri osservati in natura molto raramente sono in realtà tra quelle creature che il popolo di Internet potrebbe riconoscere nel tempo necessario a far schioccare le dita, principalmente grazie ad alcuni video virali che l’hanno messo sotto i riflettori in passato. Questo perché, alquanto incredibilmente in effetti, la pericolosa creaturina è occasionalmente scelta dagli appassionati come animale domestico, principalmente in funzione della sua già citata indole mansueta. I loro padroni iniziano quindi a riprenderli, mentre effettuano l’operazione che gli riesce meglio: scavare freneticamente all’interno del terrario, sperando di riuscire a nascondersi nel minor tempo possibile. La ragione non è, in realtà, soltanto nascondersi da eventuali predatori, bensì poter contare su quello che costituisce, a conti fatti, il loro unico metodo di procacciarsi il cibo. Questo non è uno di quei ragni che tessono una tela, tranne che nella singola occasione in cui necessita di proteggere la sua sacca delle uova, né un rapido corridore come gli Huntsman (Sparassidae) del tutto privi di veleno. Bensì un assalitore improvviso, da cui il nome che allude al mestiere dell’assassino, che una volta percepito l’avvicinarsi della saltuaria cena tramite le vibrazioni del suolo, balza fuori e la morde iniettando l’infinitesimale quantità di veleno necessario al suo fine. Il problema, tuttavia, è che il deserto è vasto, e il cibo tutt’altro che abbondante. Se al malcapitato di turno, l’insetto, lo scorpione, la lucertola, restassero anche pochi secondi di vita successivamente all’assalto, questi potrebbero tentare la fuga magari per qualche metro, diventando nei fatti del tutto irraggiungibili per il ragno. Ciò che la natura ha riservato a lui, dunque, è una letalità assoluta e mostruosamente repentina, un fluido che ti colpisce come un fulmine a ciel sereno. Il cui effettivo funzionamento, una volta descritto, non può che gettare lo sconforto nel cuore degli uomini impreparati…

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La giungla nelle tenebre del sottosuolo vietnamita

“Attenzione ai dinosauri” recita la mappa fornita dalla compagnia di tour al gruppo di visitatori, nel punto in cui dovrebbe identificare il nome dell’ennesima dolina, abbastanza ampia da contenere un Boeing 747 in volo. Ci troviamo, dopo tutto, nella grotta più vasta del mondo, una scoperta particolarmente recente sotto il massiccio di Phong Nha Ke Bang, all’interno del’omonimo parco naturale. Non particolarmente accessibile: oltre chilometri e chilometri di giungla, tra pareti scoscese e significativi dislivelli, con l’accesso nascosto massicci alberi e tronchi caduti. Scrutando per qualche minuto lo scenario, non è difficile comprendere l’origine dell’annotazione semi-seria, offerta per la prima volta come termine identificativo da parte degli speleologi della British Cave Research Association, guidati fino a questo punto da uno scopritore locale nel 2009, il primo ed unico essere umano ad aver notato l’ingresso di questi luoghi quasi 20 anni prima di quella data. I membri del piccolo gruppo di spedizione, ciascuno dei quali aveva speso l’equivalente di circa 3.000 dollari per soli 5 giorni d’avventura, si trovavano ai piedi di un alto sperone di roccia, che a uno sguardo più approfondito si rivelava essere una stalagmite; alta, tuttavia, l’equivalente di un palazzo di 10 pieni. Altre torri simili sorgevano nel panorama visibile, perfettamente illuminato da quella che poteva essere definita solamente un’apertura nel tetto della caverna. I raggi di luce, penetrati fino a tale notevole profondità, illuminavano una scena senza precedenti: molte migliaia d’alberi, arbusti non dissimili da quelli della superficie, crescevano sul suolo friabile di questa città segreta della natura, spingendosi con la loro presenza fino ai pertugi periferici e l’ingresso delle gallerie. Al di sotto del bordo superiore, distante ed indistinto, alcuni accumuli vaporosi di condensa, sostanzialmente indistinguibili da vere e proprie nubi del cielo. Questo era, a tutti gli effetti tranne quello letterale, il Mondo Perduto di Arthur Conan Doyle, un luogo separato dalle comuni norme della logica e l’evoluzione, dove tutto appariva possibile, persino scorgere la testa crestata di un diplodoco tra le fronde, mentre uno pterodattilo lancia il suo stridulo richiamo. E benché la realtà faunistica del luogo sia comparabilmente piuttosto ordinaria, con uccelli, scimmie e serpenti nelle aree esposte alla luce del Sole, nonchépipistrelli, pesci e millepiedi albine nei pertugi più profondi ed oscuri di questo labirinto, è indubbio che qui ci si trovi di fronte a una sorta di capsula temporale, che dispone in maniera ordinata di fronte allo sguardo degli studiosi i processi geologici millenari che hanno portato, attraverso le generazioni, alla formazione paesaggistica della penisola vietnamita. Siamo ad Hang Sơn Đoòng, la caverna del fiume nella montagna; il più vasto complesso sotterraneo del mondo.
Di certo Hồ Khanh, che allora si guadagnava faticosamente da vivere come boscaiolo abusivo nell’area del parco, non aveva in un primo momento compreso la natura di ciò che si era trovato di fronte. Quando, nel 1991, si fece una nota mentale di questo pertugio misterioso, reso inaccessibile da un corso d’acqua che sgorgava possente durante la stagione dei Monsoni. Eppure per qualche ragione molti anni dopo, durante la visita del gruppo di esploratori inglesi, si ricordò di questo luogo, offrendosi di accompagnarli per documentare l’esempio precedentemente ignoto di carsismo in questa zona ricca di arenaria, in cui vasti ambienti sotterranei costituivano il viale d’accesso a conoscenze nuove. E di scoperte questo gruppo ne fece parecchie, con 11 grotte battezzate per la prima volta, di cui due dedicate a Hồ Khanh e sua figlia Thai Hoa. Ma per lo meno in un primo momento, la ricerca del misterioso luogo fu del tutto infruttuosa. Finché alla ripartenza degli stranieri, l’abitante della giungla riformato a guida turistica non s’inoltro per un’ultima volta, da solo, riuscendo fortunatamente a ritrovare quel pertugio: nel giro di pochi giorni, l’equipe guidata da Howard Limbert fece il suo precipitoso ritorno, inclusivo di trasferta in aereo e lunga camminata nella giungla fino al villaggio di Phong Nha. E da lì tra le montagne, per approcciarsi alla tenebra, questa volta, con attrezzatura d’avanguardia e provviste, pronti ad andare realmente a fondo nell’intera questione. Era il 14 aprile del 2010: nessuno sapeva, realmente, che cosa lo aspettava durante il viaggio nelle viscere del mondo.

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Come il formicaleone sazia la sua grande fame

Anche se non lo ricordate, l’avete sperimentato più volte. Ogni mattina in cui vi svegliate e siete già stanchi, come se aveste corso affannosamente per una notte intera. Quando il Sole splende senza scaldare la vostra anima, e un senso d’ansia grava ai confini della vostra personalità. Una profonda voragine nel cuore, specchio del foro sul sentiero che conduce all’annichilimento. Se in altri termini, siete già sicuri che si tratti di uno di “quei” giorni, non è detto che sia del tutto un caso. Potreste aver fatto l’esperienza del formicaleone. Non l’insetto in quanto tale, s’intende. In effetti è piuttosto raro che questo càpiti durante la fase R.E.M. (non impossibile) bensì quel drammatico concetto che lui ha introdotto nel mondo, ovvero l’inesorabile destino che lentamente, immancabilmente, condanna ogni cosa che gli riesca da catturare. Nient’altro che una buchetta, osservata dall’uomo fin dal tempo dei greci e dei latini, dal diametro di fino a una decina di centimetri. E una pinza seghettata sul fondo. Che non è, nonostante le apparenze, un’oggetto, bensì la mandibola di un insetto. Uno dei più malefici che la scienza abbia mai descritto. Gobbuto, dalla forma simile a quella di una zecca. Talmente ingordo da non avere neppure l’ano. Affinché ogni micron di ciò che fagocita, non venga defecato fino alla costituzione del bozzolo finale. Avete mai sentito niente di più mostruoso?
In effetti, è piuttosto raro che si presenti l’occasione di vederne l’intera, orribile forma. Esso non ha interesse alcuno ad uscire dalla sua tana, dove si è specializzato, piuttosto, nel far scivolare giù il cibo. Pensate al Sarlacc di Tatooine, mostrato all’inizio del terzo film di Guerre Stellari: nient’altro che denti nel sottosuolo, ed un paio di tentacoli che sbucano ad agguantare gli sfortunati nemici dei protagonisti. Eppure strano a dirsi, ma un simile comportamento è assolutamente coerente col vero animale che l’ha ispirato. Un ottimo esempio di rappresentazione della natura per fini d’intrattenimento, appendici raptoriali escluse. Ma ce ne sono molti altri, sopratutto nei videogiochi: il Devalant di Zelda, che può essere colpito solamente quando fa emergere la testa dalla sabbia; lo Snipper di Kirby, dalle enormi mandibole animate; il Pokémon delle sabbie Trapinch, in grado di evolversi in un vero e proprio insetto-drago; per non parlare degli innumerevoli giochi d’avventura a scorrimento bidimensionale, tra cui Super Mario, Sonic, Mega-Man, Srider, Cave Story…. Non c’è niente di più facile da rappresentare su una visione di profilo dello scenario, che una trappola con pareti diagonali abitata da una pericolosa creatura in agguato. L’unico comportamento possibile per la forma pre-adulta delle circa 2.000 specie che compongono la famiglia cosmopolita dei mirmeleontidi, piccoli predatori che giacciono in agguato, come i ragni nella loro costruzione di tela. A ben pensarci, non è così strano che l’aspetto volante del formicaleone sia molto più noto della sua forma larvale: dopo tutto, esso può rimanere in tale stato per diversi anni. Mentre una volta sfarfallato e trovata la sua compagna, vivrà appena una ventina di giorni, nutrendosi del nettare e del polline che gli riuscirà di trovare, nella specifica regione della sua provenienza. Ma qualche volta l’insetto abita nel pieno deserto, come nell’esempio della scena qui mostrata dalla BBC Earth, dove fonti di alimentazione vegetale risultano tutt’altro che abbondanti. A differenza di quelle fornite involontariamente da un’altro abitante di questo clima estremo, la formica del genus Ocymyrmex. La quale ben conosce il rischio di surriscaldamento che comporterebbe fermarsi sulla sabbia cotta dal Sole, e proprio per questo, deve fare dei sogni del tutto simili a quelli degli umani: l’incapacità di fuggire, nonostante lo sforzo, dalle profondità miserabili, mentre corri e corri, non fai che ritrovarti sempre allo stesso punto. Ed anzi, scivoli lentamente, sempre più giù.
Non è possibile sfuggire alla trappola del formicaleone, perché lui l’ha perfezionata di padre in figlio, attraverso innumerevoli generazioni. Attraverso al sapienza biologica che noi definiamo “istinto” ha quindi raggiunto il punto dell’assoluta perfezione, in cui ogni singolo granello sostiene quello immediatamente soprastante ma non potrebbe mai farlo con due. Così all’ingresso di una presenza estranea, come la zampettante formica separata dal gruppo, inizia una reazione a catena, che lentamente, progressivamente, la porterà a cadere sul fondo dell’intera questione. Certo, qualche volta può capitare che l’insetto catturato sia sufficientemente agile, o fortunato, da rallentare e potenzialmente invertire il processo. Ma anche per quello, il divoratore ha un piano: la sua testa piatta, con la forma esatta di una pala, può infatti essere impiegata per sollevare la sabbia e lanciarla con precisione verso i margini della fossa. Gesto a seguito del quale, persino il più equilibrato dei visitatori non potrà far altro che rassegnarsi a venir trascinato giù dalla frana. Dove il padrone di casa, senza un’attimo di esitazione, lo morderà, iniettando una micidiale sostanza paralizzante. Seguìta dai succhi gastrici dell’animale, che inizieranno a corrodere la preda dall’interno. A quel punto, tutto quello che resta da fare sarà succhiarne le gustose interiora, trasformate per l’occasione in un delicato purée.

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Quante dita ha una lucertola verme messicana?

“VERDE, una lucertola VERDE? Quattro zampe, una testa, una o zero code, a seconda che abbia incontrato o meno un predatore. Ma se tutto volge al meglio, ricrescerà…” Nel piccolo parco giochi nella periferia di Tijuana, il bambino era accovacciato in terra, a lato della panchina, mentre con una lente d’ingrandimento scrutava attento tra l’erba: “Nonno, no. Nonno, non. Hai. Capito. Una lucertola che STRISCIA.” L’anziano gentiluomo col cappello e il gran paio di baffi balzò agilmente in piedi: “Una BISCIA? DOVE?” Lui, che aveva insegnato biologia all’università per oltre 30 anni e ben sapeva che in quell’assolata penisola vivevano oltre 100 specie di serpenti velenosi. “Ascolta figliolo. Se c’è un serpente, sarà meglio spostarci un po’ più in là. Non è facile identificare i rettili, lo sai!” Un fruscìo tra l’erba, in quel momento, sottolineò la sua affermazione, mentre un cardinale rosso, uccello passerino dalla riconoscibile cresta aerodinamica, si posava delicatamente tra l’erba. Strano, pensò in quel momento il vecchio professore. Perché mai l’uccello non scappa dal serpente? Possibile che… “E poi, non è nemmeno verde, te l’ho detto. È una piccola cosina rosa, tutta fatta ad anelli…” Non fece in tempo a finire la frase, che la nebulosa descrizione parve improvvisamente prendere vita. Dall’erba rada spuntò fuori una saettante forma lunga all’incirca 25 cm, sottile come una cannuccia. Eppure, nonostante la forma, essa non pareva affatto muoversi sinuosamente. Bensì correva dritta dritta verso l’obiettivo, come un minuscolo emulo di Speey Gonzales. Al secondo sguardo, la ragione apparve più che mai chiara: l’essere si stava aiutando con le zampe davanti. “Oooh, lo sai cos’è quella? Una biporus, oppure una canaliculutus. O ancora, uno splendido esemplare di triductylus. Sbrigati, conta le dita!” Tempo che il nipote dell’uomo puntasse di nuovo la sua lente verso la creaturina, questa aveva già raggiunto l’area sabbiosa vicino allo scivolo e le altalene. Con un piccolo sbuffo di polvere, quindi, la sua testa era sparita. Il passero dal piumaggio vivace lanciò un pigolìo irato, quindi si alzò rapidamente in volo. Effettuando una vertiginosa picchiata, più simile alla parte finale di un balzo, serrò il suo becco dove, fino a pochi istanti prima, si trovava la coda del misterioso animale. Ma tutto quello che riuscì a prendere fu l’aria. Della strana lucertola non rimaneva che il ricordo.
Scaglie, ne abbiamo. Un lungo corpo dalle proporzioni serpentiformi. E una testa dal muso arrotondato, quasi perfettamente simile alla coda. Tanto che gli antichi erano soliti chiamare i suoi simili mediterranei Amphisbaenia dal nome di una creatura mitologica che si diceva fosse nata spontaneamente a partire dal sangue di Medusa, mentre la sua testa mozzata veniva trasportata dall’eroe Perseo sul cavallo alato, volando sopra il deserto della Libia. Era questo il principio della generazione spontanea, in cui numerosi filosofi dell’epoca greca e romana credevano fermamente: fai cadere del miele a terra, presto lo troverai coperto di formiche. Da dove vengono gli insetti? Nessuna parte. Essi sono stati generati dall’aria stessa. E l’Amphisbaenia veniva chiamata, infatti, re delle formiche (di cui si nutriva) benché potesse assumere, a seconda del leggendario preso in considerazione, proporzioni tali da minacciare un’intera comunità umana. Nelle avventure del Witcher Geralt, cacciatore di demoni protagonista di una serie di romanzi e videogame, uno di questi esseri viene menzionato dal protagonista, come un pericoloso demone eliminato con successo nel corso dei suoi viaggi precedenti alla narrazione. E questa potrebbe essere considerata, vista provenienza del personaggio, come un’interpretazione di matrice slava, geograficamente ben lontana dalla penisola iberica dell’effettivo habitat di queste insolite creature. Mentre nel Messico all’altro capo del vasto Oceano, assai probabilmente le popolazioni precolombiane ne avrebbero dato un’interpretazione ben diversa della strisciante presenza dei prati. Questo perché l’aspetto stesso della loro versione dell’animale risultava essere radicalmente differente, guarda caso, per presenza di un bel paio di zampe. E chi avrebbe mai potuto negare che queste fossero, in qualche maniera più che mai inaspettata, sufficienti a dargli un’aria carina? Le lucertole verme, qualche volta chiamate anche lucertole talpa, sono in effetti delle forti scavatrici, che usano i loro forti artigli per ricavare nel terreno profondi tunnel verticali. Quindi, silenziosamente, spariscono all’ombra della terra, molto al di fuori della portata dei predatori. Esse non sono, però, pacifiche: in questo le interpretazioni classiche potrebbero definirsi corrette. Formiche, uova di formiche, scarafaggi, termiti e larve di vario tipo… Qualsiasi cosa dovesse malauguratamente pararsi di fronte alle graziose fauci dell’insolito camminatore, ed a quegli occhietti a malapena in grado di distinguere il movimento,  sarebbe stata diabolicamente fagocitata. Questa è la forza, del resto, degli animali fossòri che trascorrono la propria vita nel sottosuolo: trarre il massimo da una limitata varietà di fonti di cibo. Ma una domanda, inevitabilmente, resta preponderante. Che fine hanno fatto le sue zampe di dietro?

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