Il pesce che scatena sui gastronomi la vendetta psichedelica di Poseidone

Causa, effetto: due anelli della stessa catena, interconnessi dalla progressione prevedibile degli eventi. Almeno, in teoria. Giacché non è per forza semplice, né in alcun modo garantito, che l’effettivo progredire da uno stato a quello successivo segua un tipo di percorso chiaro in senso programmatico. E ciò vale in linea di principio come in seguito, nell’analisi effettuata a ritroso sulla base della situazione vigente. Ne parlò per vie traverse uno studio scientifico, spesso citato all’interno del suo settore, finalizzato a prendere in esame una serie di strani casi clinici. Relativi a strane allucinazioni, paralisi temporanee e senso di soffocamento, distribuiti in un arco di oltre dieci anni e simili soltanto in un particolare aspetto: il fatto che i soggetti presi in esame avessero mangiato, soltanto qualche ora prima di vivere questa terrificante contingenza, la carne della salpa del Mediterraneo (Sarpa s.) pesce dal corpo appiattito simile a un’orata, un pesce non particolarmente pregiato ma consumato frequentemente e in tutto il mondo, anche in forza del suo costo al dettaglio relativamente contenuto. E tutto questo senza che nessuno, nella maggior parte dei casi, avesse risentito di particolari conseguenze cliniche almeno fino al caso registrato dalla scienza di un uomo di 40 anni, manager d’azienda, che si trovava in vacanza nel 1994 a Cannes presso la Riviera Francese. Circostanza nel corso della quale, mentre faceva ritorno in macchina dal ristorante dove aveva cenato, all’improvviso iniziò a provare un senso di spontaneo e immotivato terrore. Finché lungo il corso della strada nebbiosa, in una sorta di versione biologica e perversa della Guerra dei Mondi di Orson Welles, non vide comparire le svettanti ombre di crostacei giganti, malefiche aragoste o granchi ragni intenti ad inseguire il suo veicolo col chiaro intento di fagocitarlo in un singolo boccone. Automobile che prima di mandare rovinosamente contro un muro o la barriera del guard rail, con una prova notevole di ragionevolezza, l’individuo parcheggiò nei pressi di un vicino ospedale. Trasportato al pronto soccorso e tenuto sotto osservazione per un periodo di 36 ore di deliri e sofferenza, l’uomo si riprese quindi in modo pressoché totale, non riuscendo neppure a ricordare i dettagli delle sue visioni. Senza gli strumenti per un ulteriore approfondimento, il personale medico pensò quindi all’epoca che egli avesse sofferto un qualche tipo di avvelenamento da cibo, possibilmente per le cattive condizioni d’igiene del ristorante. Si fece qualche indagine, ma non ne venne nulla. Il secondo caso citato nei contesti formali (benché ce ne fossero stati degli altri) fu invece quello di un pensionato novantenne, che due ore dopo aver consumato in casa una certa quantità di Sarpa salpa acquistata da un pescatore di Saint Tropez nel 2002, iniziò a sentire strani rumori provenienti dal suo giardino. Come di grida umane e strani richiami d’uccelli mai sentiti prima. Temendo che stesse diventando pazzo o subendo i primi sintomi di una malattia degenerativa, tuttavia, evitò di cercare l’aiuto di alcuna istituzione medica, almeno finché guarito totalmente la terza notte, decise di chiamare in mattinata il Centro di Controllo dei Veleni di Marsiglia. Dove a fronte di un’intervista e descrizione approfondita dei suoi sintomi, il personale medico non tardò a confermare quanto lui stesso era giunto a sospettare al rapido miglioramento delle proprie condizioni: che nessun tipo di malanno genetico o fisiologico era stato alla base della sua malattia, bensì una condizione clinica temporanea poco nota alla scienza, ma identificata con il nome di ichthioallieinotoxismo; in altri termini, l’avvelenamento da pesce psichedelico, del tutto paragonabile a una dose assunta senza preavviso di una droga come l’LSD…

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Quel tenero prosciutto da tagliare a fette di un tronco taumaturgico d’Oriente

È semplicemente così lontano, dal tipico equipaggiamento che ti aspetteresti di trovare nella dotazione di quello che costituisce, in dei conti, una variazione locale del concetto di taglialegna. Sto parlando della lama metallica imperniata, con un manico sporgente, concepita per effettuare un movimento parzialmente rotatorio in corrispondenza di un piano di lavoro rettangolare. Affinché l’incontro tra le superfici, rigida e tagliente, ponga in essere i fondamentali presupposti del processo di segmentazione molecolare, ovvero la trasformazione in multipli di ciò che originariamente era uno (1). Un solo tronco, di una sola pianta, presso i margini di una singola foresta. Situata assai probabilmente in qualche luogo della Cina, del Sud-Est Asiatico, la penisola coreana o l’arcipelago del Giappone. Perché dove, altrimenti, poteva crescere il rampicante un tempo noto come Ji Xue Teng (鷄血藤 – liana del sangue di pollo) ma che sui lidi redditiani parrebbe aver assunto la più descrittiva dicitura di “prosciutto proibito”, per la maniera in cui si taglia con l’equivalenza in campo forestale di un grissino, ovvero quell’attrezzo che ti aspetteresti di trovare tra le mensole di una copisteria universitaria. Per l’ottenimento di un qualcosa di sottile, dal colore rosso intenso e contrassegnato da una serie di cerchi, che pur sembrando legno non si comporta affatto come tale, essendo morbido, spugnoso e assai probabilmente delicato. Al che potreste essere indotti a pensare: “Se fossi un fautore della medicina tradizionale cinese, non esisterei a disidratarlo e farlo in polvere, per usarlo come cura di afflizioni dalla provenienza più diversa.” Il che vi porterebbe anche più vicino, se possibile, alla verità.
Ecco, dunque, cosa state osservando: niente meno che un esempio del processo di lavorazione “sul campo” del gambo principale di una Spatholobus suberectus, specie vegetale della giungla imparentata alla lontana coi legumi, fagioli e piselli di questo mondo. Un caposaldo di quel gruppo di piante, dell’altezza molto variabile ma che può raggiungere anche i 10-20 metri, famose per la consistenza assai particolare del proprio abito legnoso e le presunte caratteristiche guaritrici possedute dalla composizione chimica della loro linfa vermiglia. Comunemente usata non soltanto in farmacia, ma anche come condimento in cucina e per l’insaporimento di una serie di bevande alcoliche ritenute un’influenza positiva nei confronti dell’organismo umano. Con vantaggi garantiti che cominciano dal rafforzamento del sangue, come per la classica associazione parascientifica tra estetica ed effetti, proseguendo con la riduzione dell’altralgia reumatica, i dolori del ciclo, le polluzioni notturne, la lombalgia, il dolore di stomaco. La solita vasta sequela di sintomi, dalla genesi ed evoluzione clinica molto diverse, che non parrebbero implicare alcun tipo di base scientifica apparente ma soltanto un presunto rafforzamento del principio femminile Yin contrapposto alla forza, qualche volta distruttiva, dello Yang maschile. Sebbene i preconcetti dello scienziato moderno, in certi rari casi, possano anche trarre in inganno…

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La strana luce della “Provvidenza” che salvò i feriti alla battaglia di Shiloh

L’annullamento della percezione sensoriale che precede l’immobilità apparente, morte, morte. Una forma immobile nella palude, dal torace nero, con sei zampe nere, occhi grandi e tondi dell’insetto che era stato un tempo, e che adesso non è niente tranne il guscio vuoto di un qualcosa che ha finito di… Soffrire. Affinché schiere di minuscole creature, invisibili persino a chi è abbastanza piccolo da esserne il sostentamento, progressivamente si propagano e ricoprono quella carcassa. Brulicando e contorcendosi, questi vermi iniziano a rigurgitare. E il loro vomito rispende nell’oscurità notturna, mentre come un fuoco sacro, purifica ogni minima traccia d’impurità. Certo: chi potrebbe mai azzardarsi a fagocitare, altrimenti, l’insapore carne di una cavalletta, grillotalpa o formica? O di un essere pensante con dei sentimenti, un’ideologia politica e speranze di gloria?
Si tratta, per noi e loro, di una mera e imprescindibile nozione naturale. Che ad ogni convergenza di fattori, una cosa viva possa transitare verso l’altro lato della barricata! E da tale inconoscibile recesso, fungere da nutrimento alle prossime terribili generazioni… Qualche volta, d’altra parte, strane cose accadono nel mondo. Giungendo ad aumentare la portata degli eventi: e non uno, ma neanche mille, sono gli esseri avviati verso quel destino. Bensì addirittura dieci volte tanto. Il che modifica, in maniera molto significativa, gli esiti segnati sulle pagine del Fato. 6 aprile 1862: la collina situata presso il lato meridionale del fiume Tennessee nella contea di Landing, nota come Pittsburg Landing, diviene il teatro di un terribile fraintendimento. E non sto parlando della maniera in cui le truppe confederate della guerra civile, sotto il comando dei generali Johnston e Beauregard (40.000 uomini) riuscirono a sorprendere l’armata unionista al seguito del grande Ulysses S. Grant (60.000 effettivi). Né della maniera in cui un distaccamento eroico di uomini al suo seguito riuscirono a resistere per sette ore nel tratto di foresta diventato celebre come “il nido di vespe” permettendo ai reggimenti di riorganizzarsi e montare una controffensiva efficace. E neppure dell’imprevisto caso del destino che avrebbe portato Johnston a morire dissanguato per una pallottola vagante, lasciando il bastone del potere nelle mani dell’incompetente collega, che avrebbe finito per ordinare una manovra di aggiramento nel momento e direzione errati, lasciandosi sfuggire la vittoria tra mani tremanti e impreparate. Bensì delle circa 20.000 persone appartenenti ad entrambi gli schieramenti, rese inferme da un’enorme varietà di ferite verso il sopraggiungere del vespro, che si contorcevano aspettando di morire in mezzo al fango del sottobosco paludoso, oppure (soltanto nei casi più fortunati) tratte in salvo per portarle da un medico, che avrebbe tentato per quanto possibile di migliorare le cose. Se non che i soldati incaricati di portare soccorso, di lì a poco, avrebbero notato qualcosa d’inaspettato: la maniera in cui una certa quantità dei loro colleghi moribondi, inspiegabilmente, avessero iniziato a sviluppare un qualche tipo di fosforescenza. Concentrata giusto presso i fori d’entrata delle pallottole, gli squarci delle baionette, i tagli inflitti da varie tipologie di spade o pugnali. Il che non avrebbe cambiato molto nell’immediato, riuscendo tuttavia nel farlo attraverso i giorni e settimane a venire. Poiché tra lo stupore di ogni personalità coinvolta, sarebbero stati proprio coloro che erano stati infusi da tale evidente intercessione dello Spirito Santo, a non vedere le proprie piaghe infettarsi, senza che le sanguisughe o i rudimentali disinfettanti dell’epoca potessero riuscire a fare alcunché. Sotto qualsiasi punto di vista rilevante, diventò perciò del tutto che chiaro. Che “qualcosa” in quella terribile contingenza, era entrato all’interno del loro corpo. Sebbene quel qualcosa avrebbe desiderato essere, indiscutibilmente, da tutt’altra parte…

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L’albero maleodorante che cresce nello spazio tra una santabarbara e il Nirvana

Riecheggia nella giungla, sotto l’ombra delle fresche frasche guaianensi, brasiliane, d’Ecuador. Risuona fuori dal tempio induista, dove fu piantato per errore dalle mani di un gruppo di monaci eccessivamente operosi. Rimbomba sulla costa, lungo i fiumi, dietro gli edifici: il suono della sfera poderosa che precipita dall’alto, schiantandosi sul duro suolo che risulta estremamente lieto di contribuire alle preziose circostanze. Quelle di un proiettile soggetto a spinta gravitazionale, ed accelerazione relativa, che massimamente personifica ed interpreta l’utile aritmetica balistica delle verdeggianti ore. Proiezione di un’assedio, dell’alta corona nei confronti delle radicate propaggini inferiori, che può dirsi parte della narrazione stessa del sistema naturale. In altri termini, un’imprescindibile battaglia, alto Vs basso, e viceversa, il cui concludersi non ha in effetti nessun tipo d’importanza nella qualità ed il progredire della scala dei giorni. Pur rappresentando tutto, semplicemente ogni singola cosa, per colei (la pianta) o colui (l’arbusto) che il mondo della scienza è giunto a definire Couroupita guianensis, mentre tutti gli altri preferiscono l’appellativo di albero delle palle di cannone. E quanta precisione, quale enfasi encomiabile, troviamo espresse nella sua tendenza a dare un senso a tale appellativo programmatico ed esistenziale. Nella maniera in cui, al maturarsi del suo frutto distintivo ed imponente, quest’ultimo si stacca in modo autonomo dai rami. Portando a termine il tragitto fino al suolo, in modo chiaramente letterale, esplode.
Che poi non si tratta, siamo chiari, di una vera e propria deflagrazione, quanto piuttosto l’impatto ed il creparsi dell’oggetto in modo già pianificato, giungendo se possibile a dividersi in due perfette metà sotto l’ombra di una quantità innumerevole d’ulteriori munizioni. Il che costituisce l’occasione, oltre che di emettere quel suono roboante, di far iniziare l’altra parte di un copione largamente collaudato: il diffondersi di un valido ed evanescente odore, simile alla gomma bruciata. Ma che il pecaro (cinghiale dell’America centro-meridionale) o il maiale di Moupin (sua controparte nel subcontinente asiatico) trovano straordinariamente appetitoso, al punto da spostarsi da un lato all’altro del proprio habitat per consumare la tenera, maleodorante polpa al suo interno. E con essa, come si conviene, una grande moltitudine di semi.
Si tratta di una prassi ragionevolmente funzionale alla dispersione vegetale, sebbene segua un tipo di copione dalle origini assai più primordiali ed antiche. Vedi la maniera in cui, durante l’epoca preistorica, questi particolari doni della natura fossero riservati ad una bocca e lei soltanto. Quella dalle labbra prensili, ed i denti simili a una morsa, dell’antico Megatherium, la “grande bestia” che oggi siamo soliti associare al bradipo come suo antesignano delle origini, benché fosse di tutt’altra taglia ed imponenza circostanziale. Tale da poter raggiungere, con le sue 4,4 tonnellate per 6 metri d’altezza, direttamente i rami più bassi di queste piante in grado di svettare fino ai 35, allungando le zampe artigliate al fine d’afferrare e spaccare questo equivalente largamente sovradimensionato di un coriaceo e monocromatico melone. La cui valenza gastronomica, nonostante l’alto contenuto nutritivo, oggi siamo soliti chiamare limitata, visto il sapore tutt’altro che gradevole per quanto concerne il raffinato palato degli umani. Al che appare necessario chiedersi, e di contro giungere a giustificare, la ragione per cui tale pianta sia tenuta tanto in alta considerazione, da parte di culture tanto distanti dal punto di vista geografico, a partire da quando il colonialismo inglese fece in modo di trapiantarlo, di sua pura iniziativa, fuori dalle proprie ambascerie e governatorati del territorio indiano. Cognizione che troviamo garantita da due fattori, più di ogni altro: il primo di natura estetica. Ed il secondo, nato da un fraintendimento di portata più che generazionale…

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