Il popolo che corre nel deserto 30 miglia con la palla prima di realizzare un gol

Inciso a chiare lettere di fuoco nella memoria di molti nati negli anni ’80, soprattutto nella nostra terra calcistica d’Italia, è la spropositata rappresentazione del campo di gioco nel cartone animato giapponese Captain Tsubasa, alias Holly e Benji. Con il suo luogo erboso capace di estendere le proprie proporzioni durante una sola azione di gioco in base alle necessità della ripartizione in episodi, la cui percorrenza diventava l’occasione di accurate rimembranze d’infanzia, multipli confronti coi rivali e il ricordo assai preciso dei lunghi periodi d’allenamento trascorsi assieme ai fedeli compagni di squadra, pedissequamente suddiviso in più capitoli per estendere l’accumulo della suspense narrativa. Persino tale rappresentazione estesa come frutto di una palese licenza poetica, tuttavia, raramente superava qualche centinaia di metri, dovendo necessariamente rendere conto agli stringenti limiti della realtà, coadiuvati dal bisogno di “vendere” al pubblico un qualcosa che, bene o male, fosse riconoscibile come lo stesso gioco della palla nel campetto sotto casa e la partita della domenica in Tv. Traslando la nostra lente analitica dall’altro lato dell’Atlantico, tuttavia, è possibile trovarsi in un luogo dove non soltanto le corse senza fine dietro ad una sfera dall’impiego simile non stupirebbero nessuno. Ma sembrerebbero, persino, relativamente brevi. Rispetto al gioco nazionale dello stato di messicano di Chihuahua, nonché esperienza mistica e fondamentale per le tradizioni millenarie del popolo indigeno di quelli che vengono talvolta definiti indiani Tarahumara, ma preferiscono per loro stessi la definizione di Rarámuri, ovvero “Coloro che corrono”. Un nome programmatico se mai ce n’è stato uno. Mirato ad esemplificare la conclamata naturale propensione di costoro, forse genetica o forse culturale, ad esercitare il più antico e diffuso metodo di spostamento tra gli umani: muovere un piede di fronte all’altro, più velocemente possibile, e poi farlo ancora. E ancora…
Il gioco nazionale del Rarajipari dunque, attività del tutto unica al mondo, consiste fondamentalmente in questo. Con il catalizzatore universalmente riconoscibile di una sfera dal diametro di 7-10 centimetri, realizzata mediante legno di quercia o radici, che dovrà essere calciata dai membri di una squadra fino al raggiungimento di un luogo prefissato al termine di un lungo viaggio, che può facilmente raggiungere (e superare) la lunghezza di una maratona secondo le precise cognizioni dell’uomo bianco. Nel delinearsi di un evento che ha un profondo significato sociale, nel quale membri di diversi villaggi e tribù contrapposte possono fare parte dello stesso gruppo, ricevendo l’onore ed il dovere di mantenere il controllo della palla soltanto quando si trovano in vantaggio nella carovana. Un proposito che spesso viene considerato l’occasione di scommettere ingenti somme di denaro o risorse importanti, mentre i concorrenti fanno il possibile per incrementare le proprie capacità di vittoria, bevendo presunte pozioni magiche preparate dai rispettivi sciamani o facendo inviare da questi ultimi il malocchio nei confronti degli avversari. Non prima, tuttavia, del concludersi della tradizionale festa celebrativa notturna caratterizzata da impegnative danze, consumo di bevande alcoliche e lauti pasti. Strana preparazione per ancor più strani atleti, che già più di una volta hanno lasciato senza parole coloro che hanno tentato di misurare la propria preparazione fisica con la loro. Vedi il caso spesso citato dei tre membri dei Rarámuri che parteciparono nel 1993 alla gara di podismo lunga 100 miglia di Denver, contro molti atleti professionisti e lungo l’impegnativa pista del Colorado riuscendo a giungere rispettivamente primo, secondo e quinto. Per il semplice fatto che, nel caso del cinquantacinquenne fumatore primo classificato Victoriano Churro, il tempo registrato per la seconda metà della corsa era risultato maggiore di soli 20 minuti rispetto alla prima parte del tragitto complessivo. In altri termini, dopo uno sforzo simile per un intero periodo di 20 ore, l’uomo era tranquillamente pronto a proseguire…

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Messaggi dal popolo che celebra la sua cultura con una folle corsa degli scooter di legno

Sul finire di un mese di aprile particolarmente umido, un cowboy impettito con le ruote corre a perdifiato giù per le strade della città di Banaue, non troppo dissimile da San Francisco, nella parte settentrionale dell’isola filippina di Luzon. Senza mai muovere le braccia o gambe, la figura dal cappello texano s’inclina fin quasi a 30 gradi in ciascuna curva, sfruttando ogni vantaggio offerto dalla forza centripeta e l’attrazione gravitazionale della Terra. Soltanto al secondo sguardo, quindi, appare chiara la ragione della sua discesa in velocità: un drago, un coccodrillo, un leone, un’aquila senz’ali ed un groviglio di serpenti lo seguono da presso, con espressioni minacciose ed immutabili che non sembrano sottintendere alcunché di buono. Ma è soltanto grazie a un repentino cambio di prospettiva, che le cose iniziano a farsi davvero interessanti; perché in spalla a ciascun essere incluso lo statunitense mandriano in prima posizione, del tutto indifferenti alla precarietà immanente delle circostanze, figurano altrettanti uomini vestiti in perizoma, con vistose sciarpe rosse a strisce ed a quadretti. I loro copricapi piumati, facendo su e giù, oscillano nel vento. Anche questo, oltre a letterali millenni di storia derivanti da un’antico territorio culturale, è la ricorrente festa di Imbayah, creata in origine per celebrare l’ascensione di una coppia di sposi al rango di kadangyan (nobili) ed ai nostri tempi diventata un’occasione utile a mantenere viva l’identità di tutti. E con tutti intendo, sia chiaro, l’intero popolo di circa 130.000 appartenenti all’etnia degli Ifugao o Igorrote, come furono chiamati durante il colonialismo spagnolo, termini derivanti rispettivamente da ipugao (gli umani) o igolot (gente di montagna). Non a caso vista la capacità di mantenersi indipendenti e sopravvivere nell’entroterra di una regione particolarmente ricca di rilievi, densa vegetazione ed in conseguenza di tutto ciò priva di ampi spazi da dedicare alla coltivazione di cibo. Il che avrebbe portato, di contro, alla creazione di una delle più famose opere civili e al giorno d’oggi attrazioni turistiche dell’arcipelago, le famose risaie a terrazzamento delle Cordilleras Filippine e quelle, per l’appunto, di Banaue. In aggiunta ad un problema particolarmente rappresentativo di un simile stile di vita: ovvero come fare, esattamente, per trasportare su e giù dalle colline il palay (riso non ancora processato), gli utensili agricoli, il materiale da costruzione e gli altri carichi pesanti, senza andare incontro a sforzi eccessivamente gravosi o potenzialmente lesivi per la salute. Ovvero tramite l’impiego del tradizionale carretto a quattro ruote chiamato tal-lakan, costruito di legno pesante bannutan, medio dalakan e leggero gabgab, attentamente legato assieme mediante l’impiego di lunghi tratti di spago. Un oggetto che sarebbe giunto ad essere realizzato, attraverso gli anni, mediante l’applicazione di avanzate competenze artigianali e soprattutto le notevoli capacità d’intaglio e decorazione di queste genti, che possiedono un vocabolario di letterali dozzine di termini utilizzati soltanto per identificare il legno. E il seguito di questa storia, come si usa dire, sarebbe diventato leggenda…

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L’ultima di Bugatti, stravaganza di un giocattolo per bimbi miliardari

É la classica storia di “Azienda vecchia di oltre un secolo celebra il suo anniversario. Azienda costruisce nuovamente la replica dell’auto che negli anni ’20, il suo fondatore aveva regalato al figlio di 8 anni. Quindi, l’Azienda scopre che in un mondo colpito da una pandemia globale, persino 500 esemplari di veicoli elettrici in scala 1/2 con una velocità concepita per girare nei terreni privati di una grande villa, che costano circa il prezzo di una Nissan Leaf nel loro allestimento più accessibile, potrebbero non appartenere esattamente alla categoria più facile di oggetti da piazzare sul mercato. Per cui Azienda si rivolge alla potenza di marketing virale del Web, nella speranza di trovare nuovi spazi per un prodotto un po’ superfluo, certamente decadente ma che può definirsi, a pieno titolo, una piccola opera d’arte.” Non a caso c’è un signore di mezza età, e non suo figlio o nipote, alla guida dello strano e compatto veicolo nel video di presentazione offerto sul canale della compagnia inglese The Little Car Company, in qualità di collaboratrice e produttrice di un qualcosa che in origine il buon vecchio Ettore B. aveva creato, assieme al figlio adolescente Jean per il fratello di quest’ultimo, decidendo in ultima battuta di farne costruire qualche centinaio in serie, per i conti, duchi e nascenti capitalisti di un’Europa soggetta a significativi cambiamenti. Con il nome ragionevolmente descrittivo di Bugatti Baby, laddove carrozzeria, aspetto e funzionalità generali erano stati concepiti per riprendere quelli dell’allora celeberrima Tipo 35, senza dubbio una delle vetture da corsa di maggior successo nella lunga storia degli sport a motore. Oltre 2.000 vittorie nella stima più aggiornata, uno status leggendario nel collezionismo nonostante la quantità di esemplari prodotti ed ora, all’inizio del secondo decennio del secondo millennio… Questo. Ed emerge ad un preciso sguardo una certa passione, difficile da mettere in dubbio, nel modo preciso in cui sono stati ricostruiti i più minuziosi dettagli dell’ispirazione full-size dai fari sporgenti fino agli interni, probabilmente anche meglio del giocattolo motorizzato di circa 10 decadi a questa parte, al cui propulsore a combustione è stato tuttavia sostituito un impianto elettrico di concezione contemporanea, capace di operare a un ritmo “ridotta” di 20 Km/h aumentabili fino a 45 nel più costoso dei tre allestimenti, previo inserimento dell’apposita chiave di sblocco, dando vita a quello che potremmo definire come uno dei passatempi fanciulleschi più potenzialmente pericolosi da questo lato delle piccole armi da fuoco donate ai pargoli di certi ambienti, che lo stereotipo vuol essere soprattutto statunitensi. Tralasciando ad ogni modo il rischio d’incidenti, ciò che resta è una vettura creata molto chiaramente come oggetto di prestigio, espressione di quello stesso concetto di lusso che porta a ricoprire i telefoni cellulari o le mascherine di oro e gemme preziose, benché diretto, almeno in linea di principio, alle menti particolarmente fertili delle nuove generazioni. Poiché anche se un bambino o una bambina potrebbe non sapere esattamente cosa rappresenta o è veramente stata una Bugatti Tipo 35 all’epoca della sua reale commercializzazione, tutti possono capire, grazie all’interpretazione dell’altrui lingua del corpo, quale sia il valore non sempre arbitrario delle cose. Ed è guidando, come si usa dire, che vien la fame (di entrare di diritto nella Leggenda)…

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Cosa rende tanto rapidi levrieri e ghepardi?

Nell’intero spettro del possibile tecnologico, riesco ad immaginare impieghi maggiormente inutili di una telecamera ad alta frequenza di cattura delle immagini… Che incapsulare, ridurre e in qualche modo tentare di comprendere, uno dei più significativi misteri della biologia quadrupede: per quale improbabile ragione, pur avendo dimensioni, muscolatura e approcci simili dal punto di vista motorio, il più veloce degli animali terrestri si sposta a un ritmo quasi doppio rispetto a quello del suo maggior rivale? Sto parlando, per intenderci, dell’Acinonyx jubatus o più semplicemente ghepardo, messo a confronto con quella che doveva essere la versione artificiale ed in funzione di ciò, addomesticata, della stessa idea di partenza. Ovvero il greyhound alias levriero da corsa, bestia da appena 63 Km/h di velocità contro i 112 del succitato felino rivale. In una discrepanza che ha portato alla stesura, nel 2012, di uno studio scientifico da parte del Royal Veterinary College di Londra, ad opera di Penny E. Hudson, Sandra A. Corr e Alan M. Wilson, in cui le rispettive caratteristiche kinematiche della specie africana e dell’antica razza canina sono state attentamente confrontate, progettando d’utilizzare lo strumento della ripresa al rallentatore e piastre a pressione per determinare, attraverso vari tentativi, quante volte in percentuale i levrieri potessero raggiungere e sconfiggere gli avversari. Numero destinato a corrispondere, non troppo sorprendentemente, al 100% delle volte nonostante le cifre offerte dalla convenzione, per il semplice e sottostimato fatto che il tre esemplari di ghepardo prelevati presso lo ZSL Whipsnade Zoo di Dunstable, tutti in ottima salute, mancavano nondimeno della fondamentale motivazione a competere, diversamente dai cani, secondo i limiti più estremi concessi dal proprio fisico eccezionale. Cionondimeno, l’approccio esplicativo dei tre scienziati assieme ad uno stile d’analisi piuttosto chiaro (l’articolo è reperibile online a questo indirizzo) avrebbero collaborato nel porre le basi per questo successivo video prodotto dal canale inglese BBC Earth, nel quale le effettive nuove idee venivano tradotte in immagini e spiegate in termini perfettamente comprensibili ai non iniziati. Cominciando dal più classico degli spunti d’analisi, un video di repertorio in cui il predatore a macchie della savana viene mostrato, immagine perfetta della grazia ed efficienza predatrici, mentre si sposta a gran velocità tra l’erba splendida di un qualche territorio ragionevolmente incontaminato. Laddove il greyhound, notevolmente più facile da gestire, viene effettivamente trasportato presso quello che sembrerebbe essere un piccolo aeroporto, proprio al fine di comprendere & dimostrare, finalmente, il suo segreto. Le telecamere puntate, dunque, il pubblico trattiene il fiato nell’attesa di scoprire la verità…

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