Croazia: difficile scrutare dentro “l’occhio” della Terra e non restarne ipnotizzati

Risulta difficile narrare, come si trattasse di una semplice vicenda umana, i lunghi processi geologici che hanno portato alla formazione del paesaggio attuale. Per il semplice fatto che decine d’anni, nel concludersi di tali eventi, diventano come minuti, e i secoli corrispondo alle ore. Eppure, grazie alla precisa lente della scienza, noi possiamo dire di sapere grossomodo quale fu il momento. E la ragione; a seguito dei quali, l’alto strato di rocce carbonatiche situato all’altro lato dell’Adriatico, spinto verso l’entroterra per l’ampliarsi progressivo del suddetto mare, iniziò a piegarsi su se stesso, àncora ed ancòra. Come l’acciaio di una spada giapponese dall’ampiezza di 7 Km, ma senza l’inerente flessibilità posseduta da un simile materiale; il che ha portato, in modo inevitabile, al formarsi di una grande quantità di spacchi e profonde fessure. Spazi all’interno dei quali, attraverso interminabili generazioni, è penetrata l’acqua piovana, fino al formarsi di ampi laghi e lenti fiumi sotterranei. Destinati a rimanere tali per almeno 50 milioni di anni, finché il delicato equilibrio dello stato dei fatti, coadiuvato dall’effetto della pressione artesiana, non portò tale sostanza incomprimibile a premere con enfasi contro le mura della sua prigione. Ed un giorno, apparentemente uguale a tutti gli altri, le montagne cominciarono a vedere.
L’Occhio della Terra, come sembrano chiamarlo tutti su Internet, sebbene il nome in lingua originale si orienti molto più semplicemente su Izvor Cetine (letteralmente: “la Fonte del [fiume] Cetina”) o Veliko Vrilo (“Grande Sorgente”) si trova ancora oggi e costituisce una delle più notevoli caratteristiche paesaggistiche dell’intera catena montuosa delle Alpi Dinariche, sebbene molti simili voragini dalle acque azzurre siano presenti lungo questa intera zona del paese. Ma non tutte fornite, a dire il vero, delle stesse caratteristiche idrologiche e situazionali, trattandosi nella maggior parte dei casi di semplici doline, ovvero fori carsici allagati, per lo più durante alcune specifiche stagioni dell’anno. Mentre le ragioni d’esistenza di un simile “occhio” appaiono drasticamente differenti, per la sua appartenenza alla categoria delle risorgive o fontanili, in questo caso nell’insolito contesto di un’altura montana, e perciò portando immancabilmente al defluire delle chiare, fresche e dolci acque verso valle. Proprio come scrisse il Petrarca nel 1341, riferendosi alla simile struttura sotterranea della Fontaine-de-Vaucluse, una fonte carsica nella parte meridionale di Francia, nei cui dintorni avrebbe trascorso alcuni dei più ispirati anni della sua lunga carriera di poeta. Una capacità di attrarre le fervide menti che indubbiamente può essere osservata anche a margine di questa voragine di forma e ovale e dall’ampiezza di circa 30 metri, visitata da molte migliaia di turisti ogni anno anche in forza delle sue attraenti acque di un’intenso azzurro, grazie alla composizione chimica e la rifrazione della luce per l’effetto della sabbia e delle rocce. In merito alla sua effettiva profondità, nel frattempo, possiamo affermare di essere molto meno sicuri, con un’esplorazione umana che si è rivelata capace di spingersi fino ai 115 metri, senza potersi spingere oltre senza arrivare ad infiltrarsi negli stretti e angusti cunicoli della speleologia sommersa. Ed anche in considerazione del pericolo mortale corso dallo stesso celebre esploratore marino Jacques Cousteau e la sua squadra francese nel 1946, durante il tentativo di un’operazione simile nella risorgiva della regione di Vaucluse. Il che non rende, d’altra parte, queste acque scorrevoli e dalla temperatura costante di 8 gradi ogni mese dell’anno meno intriganti, e capaci d’inglobare i più attrezzati e coraggiosi tra i sub…

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La millenaria cattedrale di marmo scolpita dai processi geologici di un lago cileno

Col procedere dei giorni, crescendo e accumulandosi, l’acqua vince su ogni altro possibile componente dell’universo filosofico immanente. Elemento chimico, o congregazione di elementi, che sorgendo dalle profondità immote o cadendo dalle prime propaggini nebbiose della volta celeste, s’incontra nel mezzo spegnendo le fiamme, soverchiando ed inglobando l’aria, consumando le più solide creazioni della Terra. Così archi, torri e i più maestosi troni crollano, per l’insistente effetto di una circostanza inarrestabile e la forza senza tempo della meteorologia. Che goccia dopo goccia, insiste, esiste e pervicacemente accresce la sua continuativa persistenza… Fino alla creazione di terribili devastazioni. E qualche preziosa, scintillante meraviglia. Avrebbe in effetti potuto costituire una scoperta quasi mistica e del tutto accidentale, quella fatta dai primi coloni della regione sudamericana di Aysén, sperduta tra le alte montagne della Patagonia Occidentale, se non fosse per la posizione presso le alte coste del più vasto lago del circondario, alimentato dai ghiacciai eterni che si trovano presso questa particolare parte della catena montuosa delle Ande. Tale da riuscire a farne un elemento di primaria importanza nella composizione generale del territorio: General Carrera, come lo chiamano dal lato ad est del Cile; o lago Buenos Aires, secondo la toponomastica dell’antistante Argentina, entro cui si spingono le braccia simili a propaggini di un vasto albero senza tempo. E nel suo centro (concettuale, se non propriamente geografico al calcolo delle misure) un alto monumento dato in concessione agli occhi dei viventi, simile a una costruzione creata per rendere omaggio al senso indefinibile della divinità: svettante, alta e cesellata roccia, sostenuta da una serie di pilastri candidi alla più remota apparenza. Ancorché mediante l’avvicinamento tramite l’impiego di un’imbarcazione, dalle spiagge non troppo vicine di uno degli svariati puertos costruiti entro lo spazio idrico di un tale scosceso baratro sempiterno, non si scorgano le reali sfumature della sua presenza: azzurri, bluastri, splendidi gradienti tendenti al rosa, collettivamente simili all’aspetto di opere pittoriche di espressionisti dalle proporzioni misteriose, ed altrettanto ignote epoche di provenienza.
È tutto ciò nient’altro, se insistiamo a dargli un nome, che la roccia in bilico della possente Catedral de Marmol (traduzione: non credo serva) diventata attraverso il corso delle ultime decadi e successivamente alla nomina come geosito d’importanza sudamericana a un punto di convergenza per il turismo internazionale, in forza di un aspetto già capace di colpire ogni molecola di chi abbia ancora la capacità d’interpretare la poesia. Visuale ma anche metaforica, per la capacità di suscitare l’istintivo senso di venerazione, che aveva in epoche pregresse aveva portato i popoli autoctoni a chiamare queste acque Chelenko. Termine di reverenza che nell’antica lingua dei popoli Tehuelche significa letteralmente “Acque Tempestose”, con indiretto riferimento agli indifferenti spiriti divini della Creazione. Ma è soltanto con il procedere della saliente visita, e l’inoltrarsi del proprio sfuggente scafo oltre i giochi prospettici di un così memorabile ed originale luogo, che la meraviglia inizia ad assumere le proporzioni degne di quest’occulto tesoro del paesaggio e il territorio. Quando lungo le scoscese pareti della vasta pozza, talvolta inclinate a 35/40 gradi in avanti come la prua di una giganteggiante nave, appaiono le multiple aperture o capillas (cappelle) che s’inoltrano in un network di caverne interconnesse, ciascuna impreziosita da una sfumatura, un colore degno di commemorare i gli scalini successivi nelle trasformazioni degli strati epocali. In una letterale costellazione di armonie cromatiche, firmamento dalla provenienza ed il significato tutt’altro che palesi…. E che permettono alla mente di creare e immaginare un’ampia gamma di scenari, da cui scaturisce la più pura ed innegabile poesia…

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L’impressionante linea bianca, precario cimento dei ciclisti dell’Arizona

Pedalando verso ulteriori destinazioni, il gesto ripetuto che prolunga il momento e definisce il senso finale dell’escursione; manubrio mantenuto perpendicolare al suolo, strada che scorre ai lati del campo visivo. Ed è allora che l’attrito al contatto del suolo, all’improvviso, diminuisce in maniera esponenziale. Cosa è successo? Entrambe le ruote si trovano perfettamente in linea, un po’ come se si trattasse di un binario, con la candida linea al centro del sottile nastro asfaltato. Vernice acrilica bianca, continua o tratteggiata, segnaletica orizzontale trasformata in canale privilegiato verso l’ottenimento di un sentiero dall’efficienza superiore. Ed è questo un po’ lo stesso concetto, dell’insolito strato geologico situato in prossimità della cittadina turistica di Sedona, contea di Coconino. Seguito dai suoi maggiori estimatori fino alle più estreme conseguenze. Che potrà un giorno anche includere, a seconda delle circostanze ipotetiche, la morte.
Siamo a Chicken Point (Il Punto del Pollo) una collina rocciosa di tipo butte, ragionevolmente simile a quelle che in Sardegna prendono il nome di “tacco”, non fosse per l’alta concentrazione mineralogica di ematite, il riconoscibile ossido polverizzato capace di tingere l’intera zona di un color rosso intenso simile alla ruggine del ferro. Fatta eccezione, s’intende, per l’eponima sezione del panorama indimenticabile, situata ad almeno 40 metri da terra e che partendo da una cornice relativamente accessibile gira tutto attorno al precipizio, in maniera analoga a quanto potrebbe fare un volontario segno di riconoscimento prodotto dalla mano umana. Effetto stratigrafico delle antiche maree in realtà, che un tempo caratterizzavano questi luoghi coperti da uno scomparso mare. E che oggi diventa pista d’atterraggio, o decollo che dir si voglia, per i sogni più sfrenati di un particolare tipo di amante della mountain bike. Persone come il coraggioso Michal Kollbek, che nel video di apertura ripreso via drone possiamo ammirare mentre spinge il suo veicolo velocipede fino al punto più distante prima che un simile passaggio si faccia eccessivamente scosceso. Quindi, mentre il pubblico maggiormente empatico trattiene spaventosamente il fiato, rivolge il manubrio direttamente verso le profondità del baratro, in una manovra delicata della durata di pochi istanti, che lo porta a discendere per circa 8 metri e come se niente fosse, voltarsi e tornare al punto di partenza. Nessun dubbio rimane in tali circostanze agli spettatori, che se soltanto avesse sbagliato leggermente i tempi, se un sassolino si fosse trovato in posizione inappropriata, se la pressione degli pneumatici avesse avuto un valore eccessivamente basso, se i freni non fossero stati in condizione ottimale… Questi avrebbero potuto essere gli ultimi secondi della sua esistenza. Ed è ciò il motivo per cui l’esatta posizione di Chicken Point, Google Earth permettendo, resta un segreto preferibilmente ben custodito dagli abitanti del posto. Anche se bastano poche decine di dollari per partecipare al tour geologico a bordo di riconoscibili Jeep color rosa fuchsia, occasionalmente ed accidentalmente completo di spettacolo adrenalinico gentilmente offerto dal ciclista privo di senso del pericolo o dubbi in merito alla sua preparazione tecnica pre-esistente.
Perché intendiamoci, l’effettiva manovra richiesta per fare ritorno integri dalla linea bianca non è in se particolarmente difficile, almeno dal punto di vista di praticanti ragionevolmente esperti. Con l’effettivo elemento limitante individuabile, più che altro, nella posta in gioco sottintesa da un eventuale errore. Frutto innegabile di una circostanza paesaggistica che, nel frattempo, meriterebbe almeno un breve approfondimento…

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Gua Rusa, caverna malese con le proporzioni di un aeroporto internazionale

A ben pensarci, sarebbe davvero conveniente: uno spazio ombroso, sotterraneo, segregato dalla natura. Dove neppure l’imponenza di due o tre jet di linea fianco a fianco non riesca in alcun modo a disturbare la popolazione, umana ed animale, che occupa la superficie verdeggiante del Borneo, unica terra emersa dalle proporzioni isolane occupata da tre nazioni: Siam, Malesia ed Indonesia. Ma di certo prima di procedere, occorrerebbe costruire una pista al suo interno. E forse nel punto più stretto, dove si trovano le due cascate note come docce di Adamo ed Eva, occorrerebbe un’opera finalizzata all’ampliamento degli spazi latitudinali, per garantire un conveniente accesso al terminal posizionato all’interno della montagna. Mentre i 169 metri di larghezza nel punto più ampio, e i 122 di altezza, sarebbero più che sufficienti al fine di garantire l’operatività di un 747 carico di passeggeri. I quali, senza particolari indugi, potrebbero sbarcare direttamente a ridosso di uno dei territori segregati più particolari al mondo, chiamata fin da tempo immemore “la valle dell’Eden”. Ci sono molti luoghi simili, da queste parti, circondati dalle alte pareti in calcare ed arenaria scolpite dalla potente erosione delle precipitazioni atmosferiche tropicali, capaci di trasformare l’intera massa di una montagna in cavità monumentali, dove scorrono torrenti e fiumi sin dall’epoca della Preistoria. Ciò che differenzia il luogo noto ai nativi come Gua Rusa (letteralmente, “Caverna del Cervo”) dalle altre grotte simili nell’area del parco nazionale malese di Gunung Mulu, restano però le proporzioni ancor più impressionanti, tali da sfidare ogni convenzionale ipotesi a proposito della sua genesi ancestrale. Come se un colossale verme delle sabbie, agitandosi per secoli o millenni, avesse ampliato il cunicolo del suo passaggio. Come se un cantiere messo in opera da civiltà perdute, avesse ultimato lo spazio segreto da utilizzare per l’atterraggio delle proprie praticissime navi spaziali.
Ciò che si palesa, ad ogni modo, al termine dell’escursione tra i suoni e gli alti fusti della giungla a partire dai villaggi più vicini e la città costiera di Miri, che raggiunge l’apice lungo la passerella in legno più fotografata di tutta l’Asia, è un’ingresso semi-nascosto dagli alberi e sovrastato da antiche stalattiti che ben presto si rivela degno di quella che sarebbe stata definita, per lungo tempo “La caverna più vasta del mondo” (almeno fino alle nuove misurazioni, effettuate nel 2009, della grotta di Son Doong in Vietnam – vedi precedente articolo). Benché sia chiaro, tale primato risulti difficile da attribuire all’uno o l’altro candidato, data la quantità estremamente significativa di criteri applicabili a tal fine: larghezza e lunghezza dei singoli passaggi, profondità totale o metri quadri d’estensione. Così che, nonostante la sua innata predisposizione alle operazioni aeronautiche, la grotta del Cervo risulta essere inerentemente piuttosto breve, con i suoi “appena” 4 Km dall’ingresso all’uscita, sebbene esista una teoria che avrebbe fatto in tempi ormai trascorsi, di essa, la più incredibile cattedrale geologica del pianeta. Quella secondo cui la stessa Valle dell’Eden, simile a una dolina carsica circolare dal diametro di oltre 1 Km e sita all’altra estremità e con l’unica uscita diametralmente opposta della piccola cavità nota come Grotta Verde, fosse stata ricoperta originariamente da una volta rocciosa, che avrebbe impedito alla luce del Sole di penetrare nelle sue oscure, inimmaginabili profondità, buie eppure mai, davvero, silenziose. Questo in quanto, aeroporto o meno, nessuno potrebbe mai anche soltanto ipotizzare che un simile dedalo oscuro sia mai stato, anche soltanto per un attimo, del tutto privo di vita…

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