L’oscuro dedalo della città di Minneapolis e il rischio che costituisce per i suoi abitanti

Due città gemelle lungo il corso del Mississippi. Il suono dei secoli riecheggia sotto il guscio urbano, quello strato d’asfalto eccessivamente sottile. Ma non sono catacombe o fognature, tunnel dei contrabbandieri, scantinati a sostenere l’ombra inversa della megalopoli del Minnesota, circa tre milioni di persone raggruppate in senso amministrativo nei centri abitati Minneapolis e St. Paul. Bensì un grande vuoto che ha creato la natura, al termine dell’ultima glaciazione, quando i ghiacci quasi-eterni sono stati liquefatti dalle mutazioni della temperatura terrestre. Lasciando spazi cavi nella pietra d’arenaria americani, lungamente inesplorati da anima viva. Finché millenni a questa parte, gli antenati dei gruppi tribali degli Ojibwe e Dakota non si stabilirono al di sopra di essi. Associandoli al regno del sovrannaturale, poiché se un segreto risiedeva in tale labirinto, esso non poteva che essere appannaggio del divino. Giunti presso tali lidi quindi gli Europei gettarono le fondamenta di una nuova e inconsapevole realtà. Mentre il sottosuolo, gradualmente, finiva per essere dimenticato. Tranne per qualcuno che, persino oggi, corre il rischio necessario per scoprire sopite verità. Ed il risveglio ancora possibile, di un grande male.
La caverna di Satana, come viene chiamata dai locali, è un pertugio con l’ingresso situato presso l’isola di Nicollet, terra emersa circondata dai palazzi in mezzo al fiume nordamericano più famoso, concettualmente non così diversa dalla nostra isola Tiberina. Un lungo tunnel riscoperto ufficialmente nel 1989, quando un gruppo di coraggiosi esploratori, sollevando il tombino in un giardino privato, si inoltrato con la schiena curva per molte centinaia di metri, fino alla camera segreta dove qualcuno, in passato, aveva scolpito dozzine di volte il volto del malefico Avversario e ribelle dei Cieli. Forse per goliardia, magari per fede, quando ancora la pressione negativa dei tubi fognari adiacenti risultava sufficiente a mantenere le acque nere lontane da quel mondo sotterraneo, oggigiorno fetido al pari dell’Inferno che avrebbe dovuto idealmente rappresentare. Nulla più che un misero antefatto, dinnanzi a ciò che il più famoso membro della spedizione, l’idrogeologo del Servizio Parchi Greg Brick, avrebbe considerato per gli 11 anni successivi la missione più importante della sua carriera: ritrovare la quasi-leggendaria fonte della piccola cascata di Minnehaha, una risorsa potenzialmente utile, indubbiamente affascinante, di cui aveva parlato un articolo di giornale risalente al 1931, ponendola in fondo a quella che all’epoca veniva definita la Farmers & Mechanics Bank Cave, uno spazio sotterraneo “con la forma di una ciotola invertita” successivamente mai più discusso, poiché le autorità temevano che tra gli abitanti, sapendo quanto fosse vuoto il suolo sotto le proprie dimore, potesse diffondersi un senso di disagio o persistente terrore. Per non parlare del rischio, sempre presente, che giovani scapestrati perdessero la vita, nel tentativo di destare gli antichi segreti…

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Tre tombe solitarie per comprendere l’antico stile architettonico della Numidia

Nel Mondo Antico i conflitti tra nazioni opposte potevano talvolta rappresentare, per agenti terzi, un significativo punto di svolta nei processi basilari della civilizzazione umana. Come nel caso celebre delle tribù nomadi dei popoli nordafricani che i latini chiamavano Massylii e Masaesyli, situati grossomodo nell’odierna Algeria, allo scoppio del conflitto più importante che il Mediterraneo aveva conosciuto: la seconda guerra punica (218-201 a.C.) Quando un re particolarmente potente, nonché saggio e illuminato, prese un gruppo di guerrieri scoordinati e ne fece una forza di cavalleria priva di paragoni; riformò l’agricoltura per produrre cibo dove prima esisteva soltanto il deserto; ma soprattutto, stabilì l’esistenza di un’identità comune ed al di sotto di tale bandiera, trasformò le genti nomadiche in un vasto regno stanziale. Così nacque il regno della Numidia, secondo alcuni nel preciso momento in cui il sovrano recentemente riconosciuto Masinissa (o Massena) scelse di cambiare la propria alleanza politica dall’ancestrale avversario Cartagine, alla forza che evidentemente stava per sconfiggerla, l’ondata inarrestabile dell’Urbe settentrionale. Fu dunque la costituzione in essere di un contesto culturale significativamente diverso, situato ai margini dei grandi imperi, che per lungo tempo aveva commerciato e tratto ispirazione dalla cultura sincretistica dell’Ellenismo. Il che lascia sorgere spontanea la domanda del perché, esattamente, molto poco sia rimasto come lascito degli oltre due secoli, in cui i discendenti di una tale tradizione avrebbero continuato a regnare come stato cliente, eppure mai del tutto annesso dall’Impero Romano. Che avrebbe conquistato, a seguito di ulteriori conflitti fino alla caduta di Cartagine, anche parti della Libia e della Tunisia. Edificando importanti centri d’interscambio culturale e luoghi fortificati per difendere i propri confini. La risposta è rintracciabile nel modo in cui l’architettura dei primi tempi moderni avrebbe trattato i tre principali monumenti ancora integri di tale situazione remota, tradizionalmente accorpati sotto la definizione di “architettura reale numida”. Un punto di partenza, isolato nel vasto vuoto delle nostre conoscenze, dell’ideale fascino locale verso gruppi umani antecedenti quali Egizi e Greci, come se nulla d’originale potesse sorgere da tali territori aridi ed ormai sostanzialmente dimenticati. Osservate, come primo riferimento, la tomba risalente al terzo secolo chiamata mausoleo di Medracen o Medghassen situata nei pressi della città di Batna, all’ombra dell’Aurasius Mons. Sostanzialmente una piramide di pesanti mattoni tufacei, sostenuta da una base circolare con colonne sormontate da capitelli dorici, ove s’ipotizza che il membro omonimo dell’elite regnante, antecedente a Masinissa, fu deposto nell’ora del suo eterno riposo. Un luogo presso il quale, riscoperto agli albori dell’archeologia moderna, fu fatto oggetto di una gara nel classificarlo come mera gestalt o deriva d’influenze di seconda o terza mano…

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Strade di tronchi trasversali, le ossa desuete dei collegamenti sepolti

In qualità di civilizzazione comunemente considerata il simbolo dell’ingegneria pubblica nel mondo antico, l’antica Roma era solita costruire reti di collegamento in grado di durare secoli, se non millenni. Ed anche successivamente alla caduta del potere centrale, simili infrastrutture continuarono ad essere impiegate “resistendo all’uso” per l’intero periodo medievale; un risultato perseguibile anche grazie all’assenza del pesante traffico veicolare dei nostri giorni. Ciò di esistono soltanto rare testimonianze archeologiche, d’altro canto, è il tipo di sentiero costruito per l’esercito durante tali marce di conquista epocali. La costituzione in essere di una linea di transito, capace di essere spianata nel momento del bisogno. E la cui durata sia effettivamente garantita fino al completamento della campagna di turno. Una soluzione semplice. Una soluzione pratica. Forse l’unica possibile, considerati i presupposti. Immaginate una legione che procede in mezzo agli alberi di una foresta, trovandosi improvvisamente innanzi a un tratto di terreno paludoso. Ci sarebbe nulla di più naturale a questo punto, che abbattere i primi, per disporli uno di seguito all’altro sulla seconda?
Il termine tecnico attribuito in epoca moderna per tale prassi parzialmente dimenticata si configura come corduroy road; dal nome del tipico tessuto del velluto a coste, il cui aspetto in plurimi avvallamenti e protrusioni ricorda in effetti quello della strada concepita molti anni prima. Così chiamata tradizionalmente in riferimento al particolare percorso costruito dai normanni poco dopo l’anno mille, per porre sotto assedio la fortezza di Hereward il Fuorilegge, famoso condottiero dei ribelli sassoni durante la conquista delle isole inglesi. Ma per dare seguito ad un simile contesto culturale, il particolare sistema avrebbe in seguito trovato larga applicazione particolarmente dopo i quasi cinque secoli, necessari affinché gli europei approdassero sulle remote coste del Nuovo Mondo. Un luogo dove zone ancestrali di foresta tappezzavano il perimetro dei continenti. E non c’era nulla di più facile, per collegare i vari insediamenti, che traferirne l’opportuna parte sotto le ruote dei propri sistemi logistici eminenti. Ed alcuni dei tratti di corduroy oggi più rilevanti dal punto di vista archeologico sono riemersi sostanzialmente nello stesso modo: durante i lavori per la posa in essere di nuovi tratti di collegamento, mentre i cantieri scavavano al di sotto del terreno noto, riscoprendo il legname di un tempo oramai distante. Vedi il caso della scoperta realizzata nel 2015 in Fairfax, Virginia, dei numerosi tronchi di cedro utilizzati durante l’epoca della guerra civile in sostituzione dei noti sentieri fangosi tipici di questa regione nordamericana. E sembra quasi di vedere i treni di rifornimenti, dietro all’esercito dal passo lieve e i suoi cannoni frutto delle forge mai sopite, mentre incedevano verso gli obiettivi giudicati necessari dal comando dell’Unione…

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Oh, maestro del poliporo di Transilvania! Degno artigiano del fedora fungino!

Camminando lieve sul tappeto di foglie, udendo augelli che denunciano il passaggio dell’autunno, mentre ombreggiano le foglie i fili di vegetazione sovrapposta, ebbi a chiedermi: non sarebbe forse un ottimo proposito, da ogni punto di vista una gran cosa, se il tragitto dei pensieri intersecasse il mutamento di ogni cosa circostante? Se sinapsi cogitanti nel profondo di tale calotta, più che fredda nella tersa aria delle alture d’Europa, diventassero silvane ovvero parte di quel mondo mai tangibile, sempre selvaggio, così alieno all’urbana moltitudine vociante dell’altrui clamore? Ma il cranio non è mai al sicuro, dalla pioggia, vento e neve, se non è coperto da quel nobile indumento. La cui fonte tende ad essere purtroppo il frutto dell’industria inquinante. Oppure… No.
Amadou è il nome di un antico materiale, che proviene da una fonte che sussiste nell’ambiente privo di persone. Un fungo non del tipo nato in seguito alla pioggia, in timidi anelli semi-nascosti tra le erbe. Bensì fiero ed altezzoso, sopra i tronchi che insistentemente infesta, con le proprie ife che perforano cortecce, come fossero panetti di morbido burro da cucina. E suggendo come un parassita il ricco fluido che giace all’interno, assumono la linfa d’albero facendone benzina per il proprio metabolismo. Tante mensole che crescono, morbide e poi dure in mezzo alla penombra. Ma è nel mezzo tra i due estremi, che diventano il tesoro di chi giunge col progetto chiaro e un appropriato cesto da raccoglitore fungaiolo. Sia chiaro: non con fini alimentari. Giammai possa sembrarvi valida l’idea, di consumare il Fomes fomentarius alias “fungo dell’esca del fuoco” il cui uso come letto di scintille fin da tempi avìti è contenuto in tale nome programmatico, nonché dimostrato dal trasporto in una borsa di quel cavernicolo trovato sulle Alpi Venoste, Ötzi congelato in mezzo ai ghiacci sempiterni della Preistoria. O per meglio dire, uno degli utilizzi possibili, giacché lo stesso Ippocrate, grande medico del V secolo a.C, parlò estensivamente delle sue capacità di arresto ematico, ovvero fungere da bendaggio in grado di arrestare le emorragie. Così come in Cina si era soliti attribuirgli la capacità di allontanare il cancro gastrointestinale, se bevuto in forma di tè. E che dire degli amanti della pesca, che in tempi recenti hanno imparato a farne uso per asciugare le mosche artificiali da usare come esche nei fiumi? Ancorché persista in altri luoghi, l’antica idea che sia perfetto come fonte di un pregiato materiale. Essendo in grado, se trattato con il giusto metodo, di trasformarsi in strisce di cuoio del tutto simili a quelle di provenienza animale. Diventando l’ideale parte costituente di borse, accessori decorativi. Ma soprattutto dei fantastici, distintivi copricapi adatti ad ogni clima e temperatura…

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