Pensieri senza fondamento: credevi che l’insetto con la forbice non sapesse volare?

Bersaglio delle iperboli più surreali, il dermattero è l’abitatore esapode che in Italia viene definito forbicina, per il possesso dei cerci, le tenaglie a uncino situate in corrispondenza del suo affusolato posteriore. Avvistamento non così infrequente negli ambienti domestici, ove tende a rifugiarsi nei pertugi angusti e umidi o nel mezzo della polvere nascosta, le sue molte specie sono state al centro di racconti o narrazioni folkloristiche generalmente minacciose, tra cui l’ipotesi secondo cui sarebbe in grado d’infliggere punture dolorose, o addirittura andare in cerca dell’orecchio umano per intrufolarvisi, inducendo alla follia col battito dei propri piedi sul padiglione oculare. Prima di scavare, attraverso la carne e l’osso, un tunnel fino al morbido cervello, ove procedere a deporre le proprie uova! Orribile, terrificante non-verità! L’entomologia non è d’altronde un tipo di ambito disciplinare particolarmente affine alla sapienza del quotidiano, così da dare ambito a un certo numero di luoghi comuni al netto della logica facente parte del senso comune. Il tipo di elucubrazioni in base a cui, guardando una creatura oblunga e vermiforme, che deambula rapidamente in cerca di un ombroso nascondiglio, giammai si penserebbe che potesse accedere alle gioie del… Decollo. Una mosca ronza e infastidisce le persone vagheggiando attorno. Una zanzara ama librarsi andando in cerca del suo pasto, come un missile a ricerca di calore indifferente ai pensieri del mondo. Mentre il dermattero si libra raramente, ma se decide di farlo, potete essere certi che ci sia una valida e condivisibile ragione. Non è ad esempio ignoto l’aneddoto, effettivamente documentato dalla scienza, di persone risvegliate dal rumore di dozzine o addirittura centinaia di questi insetti, che dal soffitto si lasciano cadere a terra come reazione a un improvviso rumore. Uno sciame da ogni punto di vista rilevante, come quello di api o formiche, motivato dalla sovrappopolazione e la percepita assenza di cibo. Non eusociale per nascita, la forbicina è d’altra parte totalmente priva di indole territoriale, e per sua natura socievole coi propri simili, giungendo a formare legami che vanno ben oltre quelli tra fratelli e sorelle provenienti dallo stesso nido. E trasportano con se nei nuovi territori, mentre decidono grazie all’istinto il modo più efficace per dividersi le fonti di cibo…

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Ipotesi evidente: che l’unico cuculo altruista porti l’abito nero

Pigola, svolazza, si tuffa ed alternandosi, scorrazza. Tutti amano, nel giusto contesto, lo stile e il modo di porsi dei clown. Le gesta imponderabili, sgraziate ma non prima di una certa grandiosità immanente. L’aspetto a suo modo superbo, pur deviando in modo significativo dalla consuetudine nel modo di presentarsi. E non c’è alcun piumato essere, tra Texas, Trinidad, Florida e Bahamas, fino a buona parte dell’America Meridionale, a possedere un innato spirito comico più sviluppato dell’intero genere dei Crotophaga, letteralmente dal greco “Mangiatori di zecche”. Un nome ed un programma benché ciò non esaurisca i tratti distintivi di questi volatili, che potrebbero assomigliare alla lontana ad un corvo, per forma, colore e dimensioni, se non fosse per il possesso di una lunga coda a ventaglio ed il più singolare becco immaginabile: altissimo e piatto verticalmente, vagamente preistorico nell’aspetto come se alludesse a un’ascia di selce o la clava di un guerriero cavernicolo dimenticato. Essendo disponibile effettivamente in tre varianti: quella liscia del tipo chiamato “comune” (C. ani), quella con caratteristiche dentellature della versione “scanalata” (C. sulcirostris) e il più bitorzoluto, ricurvo arnese posseduto dalla specie più massiccia delle dimensioni di 40-45 cm, contro i 35 dei propri cugini, chiamata per l’appunto C. major. Uccelli molto simili per stile di vita e comportamento, dalle piume scarmigliate e il volo sgraziato, tanto che si osservano il più delle volte correre rapidamente a terra, alla ricerca delle proprie fonti di cibo preferite, vermi, cavallette, scarabei e l’occasionale frutto caduto a terra dagli alberi soprastanti. Quando non seguono in maniera eponima i greggi o armenti che si credeva costituissero la principale fonte delle zecche, in realtà non particolarmente apprezzate dal loro palato. Il che li rende a pieno titolo in linea con la dieta tipica della famiglia dei Cuculidi, pur mancando di altri tratti giudicati normalmente imprescindibili da questa qualifica all’interno del sistema naturale, già operata a suo tempo da Linneo grazie a un’osservazione del medico irlandese Patrick Browne (1720-1790). Tra tutti quello maggiormente affascinante dal punto di vista del senso comune, al punto da aver generato interminabili stereotipi e termini di paragone, del parassitismo di cova. Ovvero la maligna propensione a deporre le proprie uova nel nido di altre madri uccello più piccole affinché i nascituri buttino fuori o uccidano i propri malcapitati fratellastri. Beneficiando in modo significativo dell’amore e il cibo ricevuti dall’ingenua genitrice adottiva. Ed è partire dall’assenza di questo comportamento istintivo, che lo studio di questo genere alato porta gradualmente all’evidenza dei determinanti tratti caratteriali, nella gestione delle risorse condivise e la reciproca assistenza delle coppie riproduttive, che lasciano intendere se non esattamente un’utopia volatile, quanto meno un tipo di riguardo per i propri simili piuttosto insolito all’interno del regno animale…

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Morte, vita e metamorfosi del coleottero che crede nell’amore materno

Quando si tratta di scovare l’odore di una piccola carcassa, nessuno è più efficiente del Nicrophorus americanus, onorato rappresentante di una categoria d’insetti che gli antichi Egizi giudicavano connessa alla divinità suprema. Questo perché la versione americana dello scarabeo sacro, che avvicinava metaforicamente la palla di sterco al disco incandescente del sommo Ra, non ha particolari preferenze per le deiezioni di altri esseri biologici bensì l’intero corpo fisico lasciato indietro successivamente al trapasso: l’insensibile, inamovibile residuo degli animati uccelli, topi o altri mammiferi del sottobosco. Eppur mai inutili, anche dopo essere stati abbandonati dalla vivida scintilla dell’esistenza. Essendo un concentrato estremamente apprezzabile, per chi non è incline a formalizzarsi, di nutrienti calorie pronte ad essere fagocitate. Per se stessi e caso vuole, la nutrita, brulicante schiera della sua prole. Come ed ancor più di molti altri esponenti di quell’ordine, lo scarabeo “seppellitore” è infatti una creatura emimetabola ovvero adattata a condurre una prima fase della propria esistenza in forma sotterranea/ipogea, prima di affrontare una metamorfosi completa in grado di donargli tra le altre cose un efficiente paio di ali ed elitre capaci di proteggerle dagli urti accidentali. Ma è su come riesca a garantire, ogni volta, la riuscita di un processo tanto lungo e laborioso, che si basa il suo effettivo nome in termini di linguaggio comune, risalente all’epoca in cui era praticamente ovunque sulla Costa Occidentale e buona parte dell’entroterra statunitense. Nato dall’osservazione del momento in cui effettivamente trova la propria notevole fonte di sostentamento. Dando inizio, piuttosto che portando a conclusione l’opera che può costituire il solenne coronamento del suo stile di vita. Se c’è allora uno agente dell’ordine davvero efficiente, tra la schiera di creature non più lunghe di 45 mm, egli ne costituisce senza dubbio l’esempio maggiormente apprezzabile tra la sfera biologica corrente. Per il modo in cui, dopo aver chiamato sulla scena una degna partner riproduttiva mediante l’uso di specifici feromoni, la coppia inizierà sapientemente a muovere il defunto fondamento della propria nascente vita domestica. Fino al punto ove la terra sia abbastanza friabile, per mettersi a scavare e seppellirne le rigide membra: un’operazione ingegneristica, quest’ultima, tutt’altro che semplice per creature fino a 150 volte più piccole dell’eventuale ratto bersaglio di tali attenzioni. Le quali ben conoscono i vantaggi di rimuovere un tale tesoro dal ciclo attivo degli altri saprofagi o eventuali predatori di striscianti agenti della decomposizione. Nascondendolo dove nessuno, tranne loro stessi, potrà scegliere di agire indisturbato per le prossime settimane o mesi di febbrile attenzione…

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Riconsiderando la complessa relazione tra il bradipo preistorico e il frutto dell’avocado

Non succede particolarmente spesso che un producer di video divulgativi su YouTube sollevi una questione biologica oggettivamente del tutto nuova per il pubblico, e benché ampiamente nota in determinati circoli accademici purtroppo mai discussa, di fronte all’opinione pubblica, per lo meno con l’ampia considerazione che avrebbe meritato. Per l’oggettivo spunto di riflessione che ci può fornire, in merito all’evoluzione, l’ambiente preistorico, gli alterni sentieri e metodi della natura. Così Adam Crume, ambasciatore scientifico del canale SciShow è comparso lo scorso 19 dicembre online con un titolo esplicitamente provocativo: “Tutti si sono sempre sbagliati sull’avocado. Inclusi noi.” E una breve, quanto pregna trattazione di una di quelle percezioni generalmente diffuse, in forza di una serie di circostanze pregresse, fino al punto di essere diventate delle vere e proprie roccaforti. Ovvero la seguente concatenazione di cause ed effetti: l’albero tropicale mesoamericano di Persea americana, per come lo conosciamo, è un vero e proprio anacronismo. Questo per la dimensione del suo seme, sproporzionatamente enorme ed in funzione di ciò praticamente impossibile, per qualsiasi creatura attualmente esistente, da trangugiare tutto intero. Ciò anche senza considerare il suo contenuto di tossine, sufficientemente elevato da poter venire tritato, ad esempio, per la produzione di un veleno per topi tradizionale. Quale appartenente al mondo animale, dunque, aveva la capacità e propensione di provvedere alla diffusione di tale pianta? Soltanto due famiglie, appartenenti alla categoria della megafauna di quel mondo, con origini rispettivamente nelle epoche del tardo Oligocene (25 mya) e del Pliocene (5,2-2,3 mya) avrebbero potuto vantare la capacità di farlo. Sto parlando dei gomfoteriidi, pachidermi proboscidati vagamente simili a degli elefanti con quattro zanne, e dei megateri, colossali bradipi di terra che potevano anche raggiungere i 6 metri in determinate specie. Creature primariamente erbivore (nel secondo caso, non solo) la cui dieta per quanto ci è stato possibile desumere conteneva effettivamente le foglie di piante ad alto fusto e potenzialmente, anche i loro frutti e semi dal variabile grado di tossicità, che avrebbero potuto metabolizzare possedendo stomaci di ferro analoghi a quello dell’odierno rinoceronte. Così venne teorizzato, per la prima volta nel da Wolstenholme and Wiley nel 1999, riallacciandosi a uno studio di 17 anni prima di Janzen and Martin, che l’avocado in questione potesse avere una stretta relazione simbiotica con queste creature, riuscendo nonostante questo a sopravvivere successivamente alla loro estensione. Un’ipotesi ulteriormente sostenuta nel famoso saggio del 2002 della studiosa Connie Barlow “I fantasmi dell’evoluzione” il quale avrebbe ulteriormente cementato questa percezione ritenuta effettivamente utile ad avvicinarsi all’inspiegabile realtà dei fatti. Almeno finché a qualcuno, da qualche parte, non fosse venuto in mente di porsi le domande adeguate…

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