Il drago robotico più grande del mondo

Tradinno

Ci sono diversi modi per mantenere una tradizione; forse il più suggestivo è questo. Nel comune tedesco di Furth Im Wald, al confine con la Repubblica Ceca, da cinque secoli a questa parte si tiene la processione, festa e rappresentazione teatrale del Drachenstich, l’Uccisione del Drago. Le caratteristiche del programma parlano da se: 1500 persone coinvolte tra attori, figuranti e organizzatori. 750 bambini che sfilano in variopinti abiti d’epoca. 200 cavalli seguiti da quasi altrettanti carri storici, non allegorici. Tornei e accurate ricostruzioni di giostre medievali. E poi…Lui. Un robot animatronico, che sarebbe degno di un film de Il Signore degli Anelli non fosse che oggi, in quel campo, si fa tutto al computer. Che quasi ricorderebbe una macchina teatrale creata per il ciclo operistico dei Nibelunghi, se non per quel piccolo dettaglio. Ovvero l’essenziale capacità di muoversi liberamente attraverso un intero paese, camminando su quattro realistiche zampe. La sua performance, infatti, si svolge all’aperto. Tradinno è il dragone verdeserpe, scaglioso, sputafuoco, cornuto (e mazziato) del peso importante di 11 tonnellate, che dal 2007 ha preso il posto di quattro attori in costume, diventando il protagonista indiscusso di una delle più antiche rappresentazione folkloristiche di tutto il centro Europa. Piuttosto che da una caverna della Foresta Nera, Tradinno, il cui nome sarebbe un’amalgama tra “tradizione” e “innovazione”, proviene dalle officine tecnologiche della Zollner, rinomata compagnia di prototipazione e messa in opera meccatronica, con quartier generale nel pieno mezzo del land della Baviera. È frutto dell’appassionata progettazione da parte di 15 massimi esperti del settore, che dentro ci hanno messo di tutto. Nove unità di controllo modulare, ciascuna dotata di due processori DSP; un motore turbo-diesel da 2.0 lt, con la capacità di erogare 80Kw di potenza, più 10 di energia elettrica; due poderosi circuiti pneumatici, finalizzati alla deambulazione; l’organo fiammeggiante, che poi sarebbe una bombola del gas e l’essenziale sistema “di sanguinamento” con 80 litri di acqua colorata, da trafiggere all’occorrenza, con conseguente inzaccheramento dell’eroe di turno, fra il tripudio di tutti i presenti. Il drago è telecomandato.
Un conto è creare sistemi tecnici di supporto all’atmosfera di un evento, ma qui si è andato davvero oltre; un mostro simile, così perfettamente funzionale, toglie la voglia di fare gli eroi. Chi non vorrebbe, piuttosto, cavalcarlo?

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L’eterna lotta tra una pecora e la moto

Bikeram

TeeOCee è il giovane motociclista neozelandese che, percorrendo una tranquilla strada boschiva, si è imbattuto nell’ariete nero più arrabbiato al mondo. Da quel giorno, come in un romanzo d’avventura, è nata la loro faida senza fine: più volte si sono scontrati, per stabilire il predominio su quel territorio essenziale, punto di passaggio strategico fra i diversi attimi di un percorso storico importante. Corna ritorte e motori ruggenti, soffice lana di fronte al duro metallo. Il guardiano quadrupede della foresta, contro l’arrogante essere umano, a bordo del suo spaventoso veicolo a due ruote. Perché, qualcuno potrebbe chiedersi, non scegliere semplicemente di passare altrove? “Questa è casa mia, tengo moglie e figli!” L’animale potrebbe dire: “Beeehasta con questo assordante belato a due cilindri, ragazzino”. Ed è facile da capire, persino da condividere, il suo punto di vista. Ma la situazione va doppiamente analizzata. La convivenza, in questo caso, ha una sua ragion d’essere e un contesto. Le pecore selvatiche del Nuovo, Nuovissimo Mondo, che si compone d’Australia e ancor più Recente Zelanda, non sono in effetti tribù native proprietarie delle isole, cui qualcuno vorrebbe sottrarre un sacro diritto ereditario. No signore, Cristoforo Colombo. Discendono tutte dalla medesima razza Merino, fiore all’occhiello di Castiglia, nonché massima esportazione dell’Europa coloniale. Prima dell’avvento dei frigoriferi, preservare il cibo era un problema. Le navi europee del diciottesimo secolo, che per la gloria di distanti regni esplorarono queste terre, ne scaricarono intere carrettate, un po’ qui e un po’ la, insieme ad altrettante capre, maiali, cani e i sempre temutissimi conigli. Qualcuno, prima o poi, li avrebbe ringraziati (pensavano). Il modo più facile per preservare la carne, a quei tempi, era infatti mantenerla in vita. Così le bestie vennero diffuse, proprio come i microbi americani del comune raffreddore, distruttori di grandi e antiche civiltà. E se soltanto qualcuno avesse chiesto il parere del koala, oggi non saremmo a questo punto. A schivare i cornuti con la moto.

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Se incontri un bufalo nella foresta,

Buffalo

Se incontri un bufalo nella foresta del parco di Yellowstone, amico guarda meglio, quello non è un bufalo è un bisonte. L’animale più grande del continente americano. L’animale più grande del continente europeo. Quell’essere che ricorderebbe molto da vicino una mucca, soltanto che è lungo 3 metri, alto 1,90, pesa fino a 900 Kg, ha i quarti posteriori di un cavallo purosangue, il davanti di un grizzly e degli ottimi motivi per portare risentimento verso l’intera razza umana. Ah, si, anche un paio di corna, piuttosto mediocri rispetto all’enormità di tutto l’insieme. Nessuno mai ci pensa, a quel paio di piccole corna diavolesche, potenziale segno di riconoscimento e classificazione. Meno di tutti, forse, gli scopritori del vecchio West, coloro che, viaggiando sui loro carri lungo la pista dell’Oregon, di queste creature ne lasciarono un’esanime scia, tanto lunga da poter collegare gli estremi limiti di un continente. Loro, i pionieri mormoni in fuga dalle discriminazioni delle colonie inglesi, non andavano granché per il sottile, né del resto lo facevano i soldati delle compagnie mercenarie, pagate per fornirgli cibo e protezione dagli “indiani”. Passati erano i tempi in cui le popolazioni semi-nomadi delle americhe sfruttavano quelle antiche mandrie con giusta moderazione. L’eroico Buffalo Bill, forse il più grande cacciatore della storia, si vantava di averne uccisi, lui soltanto, circa 4000. Gli alti cumuli dei loro crani bucefali marcavano la posizione dei campi recentemente arati, come materia prima per far da concime. Certi dagherrotipi, visti ai giorni nostri, ricorderebbero più che altro le copertine fantasy di Frank Frazetta con il mefistofelico Death Dealer, rimpiazzato per l’occasione da un cowboy, ugualmente trionfante sulle spoglie defunte dei suoi molti barbarici nemici. Se soltanto li avessero guardati due volte, prima di sparargli, non li avrebbero chiamati bufali. Avrebbero probabilmente notato quanto diversi fossero nell’aspetto dai bovidi della tradizione europea, i cosiddetti “tori lunati” dell’Eneide e della Teseida di Boccaccio. Niente puntuta luna sulla testa…Ma quelli erano tempi difficili e con il bisonte c’è poco da scherzare: l’animale che era e resta tutt’ora più pericoloso dei puma, degli orsi bruni e dei lupi messi tutti assieme. Statistiche alla mano, s’intende!

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Vecchia rassegna di strane macchine volanti

Flying machines

Quante persone hanno perso la vita tentando di librarsi? Geniali inventori, temerari, avventurosi sperimentatori dediti a un sogno, la sublime visione dell’uomo che restituisce al mittente l’imprescindibile vincolo della gravità. Raggiungere l’obiettivo di un’idea avveniristica, il più delle volte, richiede un certo numero di sacrifici. Jean-François Pilâtre de Rozier, pilota di una delle prime mongolfiere, sospinto dal vento delle sue brame precipitò con il suo mezzo, mentre tentava di attraversare il canale della Manica, sul finire di un cupo 1785. Franz Reichelt, sarto di origini austriache e inventore del paracadute, nel 1912 ottenne dalle autorità francesi il permesso di provarlo mediante l’impiego di un manichino. L’avrebbe lanciato da sopra la svettante torre Eiffel; un tonfo terribile annunciò la sua sconfitta. Eppure era così certo… Tanto da essersi scambiato col pupazzo, rimettendoci le ali, il futuro e il bene prezioso della sua stessa vita. Mongolfiere, dirigibili, ornitotteri a pedali, bizzarre viti volanti… Nel regno di una scienza esatta, l’aerodinamica, non c’è un grande spazio per gli eccessi di una mente sregolata. Oggi, un centinaio di anni dopo, ci ricordiamo dei migliori prodotti e dei più sfortunati pionieri, sacrificatisi presso l’altare del progresso, le cui creazioni hanno sancito valide scoperte e nuovi approcci metodologici al problema; guardiamo indietro al genio di costoro, soddisfatti e cautamente grati, seduti durante un comodo volo tra i diversi continenti. Che secolo, quello dell’aviazione! Nessuno potrebbe mai disconoscere tali e tanti meriti, empirici e trascendenti, sospesi tra la filosofia e il più profondo suolo. C’è un qualcosa, però, che non viene spesso celebrato. Tutte le vie di mezzo, i mille alti e bassi di chi ha sfidato ogni regola, creando qualcosa di straordinario come la neve di agosto, altrettanto destinato a sciogliersi per l’effetto di un clima avverso. I dissennati, i capoccioni e i pitagorici costruttori di aggeggi sconclusionati. “Quei temerari, sulle loro [strane] macchine volanti”. La folle raccolta di cinegiornali in cima al presente post, gentilmente pubblicata dal Museo dell’Aviazione di San Diego, ci aiuta nel rimetterli sul giusto piedistallo.

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