Due rikishi, guerrieri potentissimi e massicci, che disseppelliscono la sostanza del momento. Sotto un tempio virtuale, l’imprescindibile struttura superiore di un santuario shintoista. Circondati dai quattro simboli e colori delle direzioni cardinali. Sappiamo già tutto di loro, come di ciò che viene dopo, perché è impossibile restare impassibili di fronte alla furia stessa dei terribili elementi, ridotti alla versione antropomorfa di una tale sacra scena. Mai nessuno si ricorda, invece, degli yobidashi. Tutti gli inservienti, gli artigiani specializzati, coloro che preparano il terreno usato per l’evento; peccato. Perché fanno un mestiere molto interessante. Un po’ come i giardinieri di uno stadio, però senza erba e senza spalti! Ma con molta sapienza delle epoche alle spalle. Per capirli davvero, occorrerà comprendere la loro pura essenza.
Traccia un segno cosmico con il pennello, demiurgo della nipponica esteriorità, partendo presso il centro esatto dello spazio: come una linea diagonale, questo abisso scuro, fatto con l’inchiostro dell’impegno e della convinzione. Sotto di esso, a media altezza e quasi perpendicolare, un secondo contrapposto, assai più breve, per il resto identico d’aspetto. Sembrerà una lambda o la torre Eiffel, questo kanji, l’ideogramma. Entrambe le sue componenti, la coppia di quei segni, appoggeranno saldi sulla Terra, ovvero il fondo definito dal tuo foglio. Ci siamo, hai terminato? Ebbene hai scritto hito人, uomo. Ma se pure il tratto breve del disegno calligrafico dovesse apparire assai meno importante del suo vicino, ai nostri occhi di profani, questo non significa che possa scomparire dalla composizione. Senza un tale inchiostro solido a fargli da sostegno, come potrebbe, la sua lunga e fiera controparte, stare dritta in verticale? Cadrebbe subito, è sicuro. Il tratto lungo sono i due lottatori di sumo, per metafora corrente. Quello breve, coloro che gestiscono il contesto. L’autista della metropolitana che conduce il manager fino in centro Kyoto, per assistere all’incontro. E tutti gli altri.
C’è la certezza, per molti di noi, che a questo mondo esistano dei metodi, diversi in base alla cultura, per comunicare con gli Dei. Cominciamo, per chiarezza, con quello più prossimo all’Europa. “Il mio corpo è un tempio, l’immagine perfetta del Creatore”. Unico, come l’edificio di Re Salomone, la fortificata origine di una visione che permane ancora: siamo frutto della costola di un Antenato, che a sua volta derivava dalla Terra e dalla mano di qualcUno. Quel qualcUno, ad oggi, ancora ci ascolta e ci comprende, proprio perché siamo fondamentalmente come LUI; per questo è nostro dovere sacrosanto, in tale universale concezione, essere belli, saggi, equilibrati. Succinti e piacevoli, per quanto ci è possibile. L’idea di partenza che sostiene il concetto monoteistico di preghiera si basa, fondamentalmente, sulla ricorsività dei metodi espressivi e dei modelli. Perfetta simmetria! Ci sono poi remote terre, come l’esotico Giappone, dove la visione delle Cose ha una sorgente differente. È priva di una forma chiara e definita, ma fluida, sfuggente: ci sono kami, ci sono mostri e draghi sommersi, spiriti del cielo e della terra. C’è Buddha che li osserva quieto, meditabondo e lì accanto c’è pure ogni profeta della Bibbia, perché no, intento a mescolarsi con gli apostoli del Nuovo Testamento. Sincretismo e commistione.
n tale poliedrica visione delle Cose, non può bastare più il singolo tempio, di un comune corpo umano, per pregare veramente a fondo. Occorre la creazione di un contesto magico, spirituale, in grado di coinvolgere lo sguardo degli Dei richiesti, di volta in volta e per ciascuna singola occorrenza. Che fortuna! Proprio a questo serve il sumo.
storia
Per il potere nanoscopico dei nostri stessi occhi
Che l’infinito possa veramente definirsi inconoscibile, nonché inavvicinabile da mente umana, è uno dei più tragici fraintendimenti dell’empirismo. L’infinitamente grande può essere scrutato con un telescopio. E l’infinitamente piccolo…. Basandosi soltanto sulla forza ponderosa della teoria matematica, il prodotto derivante dalla mente pura, chiunque fallirebbe nel comprendere l’epocale esperimento delle doppia fenditura. Flussi concentrici, particelle? Oppure tutte e due le cose, a seconda del minuto? Finché la realtà stessa non diviene come un’onda fuori controllo, da cavalcare sulla tavola periodica degli elementi. Fu, questa dimostrazione, la trovata senza precedenti di un singolare individuo, Thomas Young della Royal Society di Londra, ovvero colui che, sul principio del XIX, fu il precursore di una scienza Nuova. Quella che, fra tutte quante, rassomiglia maggiormente alla filosofia: la meccanica quantistica, stregoneria dei nostri tempi.
Non che lui avesse mai provato a definirla in questo modo. Semmai l’esigenza problematica, per lui, fu guidata dalla necessità di contraddire un gran maestro: nella stessa Inghilterra di suo padre, quacchero convinto, c’era stato l’uomo della Mela. Non Steve Jobs (mancavano parecchi anni) bensì Isaac Newton (1642-1727) lo scienziato con i femori incrociati sullo stemma, longevo, prolifico, l’arguto sperimentatore, alchimista misterioso, presunto inventore dell’analisi numerica, alias geometria descrittiva alias calculus. Leibniz permettendo. Figura che, da genio quale era, operava in molti campi. Non fu questo il primo caso di un polimata, ne certamente l’ultimo. Di contrario la natura di una simile figura, per noi italiani, è immediatamente associabile ad un preciso nome con tanto di toponimo: Da Vinci, Leonardo. Siamo stati infatti condizionati, soprattutto dallo studio del Rinascimento, a collocare le mentalità profondamente poliedriche, almeno in parte, nel regno delle discipline umanistiche o liberali. Come se lo studio del disegno, questo modulo di raffigurazione delle cose, donasse un senso di comprensione totale, fin da subito applicabile nell’arte scultorea, pittorica e infine, quasi incidentalmente, nell’invenzione delle cose pratiche per tutti i giorni. Ciò facilita il progresso, di parecchio. Perché quando uno scienziato puro viene percepito come l’uomo universale, che si staglia maestoso contro lo sfondo fulgido delle galassie, il suo lavoro si trasforma in sacro verbo, fin troppo difficile da confutare. Questa è fossilizzazione: l’aver avuto un predecessore in grado di enunciare spledide teorie, tanto accattivanti da poter contraddire l’evidenza. Cosa che avvenne almeno in un caso: l’Etere Luminifero, presunta inconoscibile sostanza, l’errore più vistoso di quell’uomo.
Niente Coca senza Cola, a meno che…
La solitudine non apre strade Nuove. Benché certi condottieri della mitica storiografia, con boccale di birra in una mano, ascia nanica nell’altra, avrebbero potuto fare la Rivoluzione. Un Gimli più pragmatico e brutale, col cappello da vichingo, contro tutti gli armigeri francesi dell’Ancien Régime, ve l’immaginate? Colpi a destra e a manca, neanche fosse stato un film degli anni ’80, tra battute, ghigliottine, frizzi, lazzi e teste rotolanti. Che risate. Poi ti viene da fare un confronto, quasi subito, con le storie vere della vita. Quei momenti un po’ difficili, l’ansia e il senso di fondamentale smarrimento. Vedi questo, per esempio.
Coca-Cola, nella sua nuova campagna per il web, ci riporta con la mente (grazie!) Al primo giorno di università. Quando dopo la lezione, tutti assieme nel cortile, al freddo e al gelo, sotto un sole che non scalda… Si ascoltava musica dal cellulare. Difficile socializzare, tra gli sconosciuti tanto giovani e inesperti. Fuoriusciti da una vita di cinque anni, almeno, con la stessa gente sempre attorno, pochi professori, una ventina di compagni, ritrovarsi avvolti nella turba trasparente. Sconosciuti, dietro alla cortina tecnologica di un videogame, magari messo in cuffia, oppure a quella di un romanzo, l’impenetrabile cortina della carta. Il tempo scioglie pure il ghiaccio, prima o poi, però appunto: avanza lentamente, il vecchio padre Crono. A meno che non sopraggiunga l’Imprevisto. Immagina! Tu, possibile acquirente della bibita gassata, usa gli occhi della mente! Mettiti nei panni di queste…Comparse? Che si trovano dinanzi ad un distributore molto strano. Un bizzarro figorifero, anzi, diciamolo praticamente: il protagonista della storia, qui presente. Pieno di bottiglie normalissime, però solo in apparenza. È uno scherzo, questo qui, diciamolo, davvero intelligente. Parla di un futuro veramente vantaggioso: con bibite che non si aprono da sole, bensì, l’un l’altra. Sai che convenienza!
Però funziona. E guarda tutte quelle coppie intimidite, attratte dalla malìa di una gratuita regalìa, come avvitano i reciproci tappetti, giungono le linee arcuate dell’oblungo flacone con un ghigno maliardo, ruotano l’arnese con sguardi di sottecchi alla metafora corrente (l’incontro di due navi nello spazio). Suggere il gassato nettare, alla fine, conta poco. Ciò che resta è la commedia visuale, come sempre capitava, pure al tempo dei soldati con la giubba. Dalle rovine fumanti di un antico ordine costituito, rovesciato con la forza e per volere delle moltitudini, spesso emerge un gruppo di oligarchi. 30, 20, 15 persone. A questo punto, il passo è chiaro. Nel giro di un annetto, fra tanti barbogi parrucconi, dovrà restarne solo uno. L’Eroe, il Tiranno, l’Intrepido Generale. L’Unico. In una parola: Napoleone.
Lacrime di pioggia nello stadio abbandonato
Le navi naufragano per un attimo di distrazione. Capitani poco coraggiosi, troppo dediti a trastulli socialiti, si schiantano su alte montagne bianche, iceberg persi nell’oceano sciagurato. Oppure incontrano bassi fondali, scogli affioranti e mai segnati sulle mappe. Intere città così spariscono nel nulla, in un attimo, sfrangiate fra le onde turbinanti. Meglio sarebbe stato…Costruire sopra fondamenta solide ed immote. Ma c’è un altro tipo di catastrofe, molto più lenta, altrettanto irrecuperabile. Quella della marcescenza. Non basta la memoria per tenere a galla luoghi di una tale caratura, serve l’utilizzo assiduo. E dopo il collasso, viene la rovina. Di un augusto mausoleo, ma che dico, cupola di argentovivo – piena d’acqua impietosa. Roba da archeologi, come gli avventurieri di Detroiturbex, il portale che fotografa abusivamente le vestigia della grande Crisi.
Pontiac non è solo un marchio di automobili, né il nome di un potente capo indiano, scomunicato dalle pagine statunitensi della storia. C’era e c’è una ridente cittadina, poco fuori Detroit, che si fregia di questo stesso appellativo fin dal remotissimo 1818, l’epoca di tardive colonie d’entroterra. Quindici soci di una grande compagnia, sotto la guida di Solomon Sibley, ne decretarono il successo urbano, creando magazzini, stabilimenti e posti di lavoro. Pionieri! Nacque giustappunto attorno ad una ricca industria, questa fervida comunità: fin da principio, in un tale luogo ricco di risorse naturali, si assemblavano strumenti di lavoro. Carri e carriole, catenacci e carrucole, titanici barili. Per un secolo durò una tale fama dei solerti costruttori, finché negli anni ’20 del XX, con gran sorpresa dell’intero mondo, non si scoprì che si poteva fare a meno del cavallo. Giunsero i motori, in generale, ed in particolare: la General Motors. Che qui fondò la prima fabbrica, nel bel mezzo di una penisola meridionale, tra le due del Michigan, stato di tempeste, nevi e piogge prepotenti.
Fu come un fuoco, un’esplosione. La neonata industria dei trasporti a motore, che qui ebbe da subito il suo polo nazionale, portò a un aumento vertiginoso di popolazione. Il volume degli affari era talmente grande, così preponderante, che si cercavano soluzioni nuove per l’investimento. Vie asfaltate oppure erbose, strade proprio come questa. Nel 1934, una cordata di facoltosi industriali decise che la regione si meritava una squadra di football, per il maggior prestigio dei presenti. Con i soldi della città intera dentro al portafoglio, molto presto la trovarono. Provenivano dall’Ohio, i Portsmouth Spartans, ed avevano una storia d’insuccessi e bancarotte. Con piglio scaramantico, i loro benefattori li ribattezzarono “I Leoni” o per meglio dire Detroit Lions, dando i giusti meriti alla città più forte, vasta e popolosa dei dintorni. Avevano dunque le belve, costoro, ma mancava ancora il giusto Colosseo. Si allenavano in principio, i malcapitati giocatori, nella spaziosa palestra della locale università. Poi ebbero qualche stadiuccio, in centro città, nulla di particolare. Finché non giunse un uomo, con un sogno ed un’idea: il suo nome era C. Don Davidson, atleta, soldato, architetto. Armato di una laurea conseguita presso la North Carolina State University, finanziata grazie ai meriti sportivi.