Dice la sgargiante Kawasaki Z1 blu notte del ’72 nel parcheggio del Ryokan, presso l’imbocco settentrionale della Shuto, celebre superstrada che permette di raggiungere rapidamente i quattro angoli di Tokyo: “Ah, voi giovani! Da quanto tempo avete perso il contatto con i valori alle origini del nostro mondo?” Le carene rialzate ed inclinate a 45 gradi, il manubrio rivolto all’indietro, il vistoso poggiaschiena dietro quel sellino connotato ulteriormente, in base al gusto del suo proprietario, da una triplice marmitta degna di trovare posto sopra un dragster supersonico di concezione americana. Eppure niente affatto impressionato, oppure in soggezione, sembrava essere lo Skywave 250 Type S della Suzuki, anno 2005, color verde coleottero, la sella tra le elitre scanalate, i fari sostituiti da quel rostro aerodinamico, fatto per “insinuarsi” o “trafiggere” gli ingorghi in mezzo al traffico di tipo convenzionale. “È questo che pensi, ojiichan? (nonnetto) Superare i limiti di velocità, passare con il rosso, provocare le polizia mentre s’indossano uniformi con slogan altisonanti e altri accessori da piloti di una guerra ormai dimenticata… Secondo me questo è l’anacronismo, l’inutilità che si trasforma in rombo di motore! Il nuovo è basso e aerodinamico, senza neanche l’ombra di una molla nelle sospensioni…”
Bōsōzoku, ovverosia 暴走族: letteralmente [la] tribù che corre senza controllo. Il principale movimento giovanile nato immediatamente dopo la fine del secondo conflitto mondiale in Giappone, sulla base di quel tipo di veicolo a due ruote, la moto, che poteva essere guidato senza attendere il raggiungimento della maggiore età. In abbinamento con un forte senso di nazionalismo piccato, reso chiaro con l’impiego di simbologia militare, tra cui l’intramontabile bandiera con il Sol Levante a strisce rosse e bianche, usata per la prima volta sui campi di battaglia dell’epoca dei samurai, fortemente associata ad un particolare tipo di pensiero politico e sociale. Il che lascia intendere un fraintendimento alla base di questo particolare movimento, visto dal pensiero internazionale come una via di mezzo tra le gang motociclistiche ribelli statunitensi, nello stile degli Hell’s Angels, e la cultura Mod britannica con le sue vespe fortemente accessoriate, punto di rottura con lo stile sobrio ed “elegante” di coloro che avevano posseduto l’asfalto delle strade fino a quel momento. Laddove non c’è niente, contrariamente all’apparenza, di selvaggio e imprevedibile nei gruppi organizzati di costoro, all’interno dei quali vige una gerarchia ancor più rigida dell’adiacente società civile, basata sul sistema giapponese dei senpai e kōhai (“primo” e “ultimo” compagno, sostanzialmente un merito donato dall’anzianità) legati assieme dalla struttura inscindibile del nakama (gruppo a.k.a. famiglia o clan, non per forza di tipo biologico) e dediti a una serie di valori estremamente precisa: lealtà, onore, coraggio, rettitudine… In buona sostanza, una versione riadattata ai nostri tempi del Bushido, famoso codice di autoabnegazione e sacrificio nei confronti del proprio signore.
Eppure, può sembrare strano: se si mette piede in un raduno bōsōzoku successivo all’anno 2000 e le più stringenti leggi messe in opera dagli ultimi governi, c’è ben poco di quest’aria carica di pregni e ormai desueti significati, sostituita dal palese desiderio di stupire colui che guarda, mediante l’ineccepibile originalità delle proprie soluzioni veicolari dal piglio altamente personalizzato. Mezzi che, come le itasha del contemporaneo (automobili decorate con personaggi dei manga) o gli sfavillanti dekotora (camion ricoperti di luci decorazioni di vario tipo) sembrano conformarsi agli stilemi privi di contesto del più assoluto e sfrenato post-modernismo. E ciò ancor prima di considerare quello che costituisce, forse, il più imperdonabile tra tutti i tradimenti: l’alta percentuale di veicoli totalmente fuori dalla categoria produttiva della tradizionale Universal Japanese Motorcycle (UJM) soluzione in grado di rivoluzionare il mercato dei trasporti a due ruote verso l’inizio degli anni ’70. Sostituiti da quelli che potremmo solamente definire, con vezzo prettamente europeo, dei veri e propri big scooter per l’impiego esclusivamente urbano…
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Dal Giappone case di polistirolo in grado di resistere a qualsiasi terremoto
Fiero edificio un tempo appartenuto a Kato Kiyomasa, signore samurai capace di trionfare sui molti campi di battaglia della sua Era, il torrione sopra il terrapieno parzialmente integro lascia l’impressione di aver visto tempi migliori. L’alto castello di Kumamoto nell’isola occidentale del Kyushu, dalle mura scure come l’orsacchiotto che oggi rappresenta l’omonima regione del Giappone, ormai sgretolate in vari punti. Le tegole non pienamente parallele, alte impalcature e per finire una svettante gru, in grado di superare in altezza la ponderosa magnificenza ereditata dai nostri tempi. Poiché nulla può resistere, come alle cannonate o i colpi di trabucco di un esercito nemico, dinnanzi all’incontenibile ferocia della Terra, quando libera d’un tratto tutta l’energia di mesi o anni di pressione, traslazione, flessione e accumulo preparatorio, verso l’inizio di un terribile jishin – 地震 dal grado 7.0, quello che all’estero chiamiamo un vero, grosso terremoto.
Eventi come il qui trascorso del 2016, capace di costare la vita a 50 persone (e l’equivalente di 7,5 miliardi di dollari di danni) anche senza uno tsunami, lasciando nel contempo un chiaro segno sulla ricca eredità culturale e il patrimonio infrastrutturale di questi luoghi: distrutto il grande ponte di Aso sul fiume Kurukawa, parte delle antiche fortificazioni, la galleria commerciale di Kengun al centro della capitale regionale e l’iconica Janes’ Residence, primo edificio in stile occidentale cronologicamente costruito nella grande città.
Ma quando ancora non si erano posate le polveri di un simile disastro, tra l’ansia e la tristezza della gente, una strana presa di coscienza prese posto prepotentemente piede tra le cognizioni collettive: che un solo luogo, nei dintorni, sembrava non aver subito nessun tipo di danno. Niente vetri rotti, mura fessurate, infissi scardinati o il benché minimo ferito, nonostante la vicinanza all’epicentro del fenomeno che aveva appena dissipato la sua forza. Tra tutte le evenienze, forse la più inaspettata? Sto parlando del famoso (oggi, più che mai) resort denominato in lingua inglese Aso Farm Land benché non abbia alcuna implicazione agricola, rappresentando piuttosto l’essenza di un resort turistico dedicato “alla salute del corpo e della mente” e costituito da niente meno che 450 casette a forma di cupola, apparentemente progettate dalla Capsule Corporation di Dragonball, ancorché i Puffi, i Flintsones o altri membri di fantasiose società alternative. Per cui l’aspetto estetico, a conti fatti, non è neanche quello maggiormente sorprendente, quando si considera quale sia il materiale di cui sono fatte: nient’altro che il candido, leggero e (convenzionalmente) friabile conglomerato di molecole semplici, spesso usato come confezione per gli elettrodomestici e il cibo. E che invece mostra, in questo luogo ben preciso prima che altrove, tutto il suo inusitato ed architettonico potenziale…
L’arcana funzione della bottiglia di vino con l’elmo da samurai
Sulla tavola imbandita di una cena formale, capace di riunire i membri di un’intera famiglia divisa dagli eventi e i casi della vita, feroci condottieri si combattono per prevalere nella guerra senza fine del gusto e dei sapori. Lì uno Chardonnay di Franciacorta, pronto a galoppare in mezzo ai piatti più corposi, per sorprendere la fanteria in attesa dietro la collina. Mentre dietro i suoi vessilli, in controluce, il Nebbiolo d’Alba impugna gli archi ereditari del suo clan, sicuro di riuscire a cogliere nel centro del bersaglio, riuscendo ad immobilizzare le manovre del nemico. “Oggi è il giorno in cui coroneremo i nostri sogni di vittoria” enuncia nella lingua inaudibile degli oggetti, il Malvasia di Casorzo con l’emblema sulla fronte, la maschera da demone a coprire l’orgoglioso tappo: “Sughero, vetro oppur cartone (puah!) non potranno più riuscire a contenerci. Questa è l’ora della nostra Sekigahara. Brindiamo, alla restituzione del Giappone al suo legittimo Erede!” Ma qualcosa, nel preciso piano di battaglia, sembrava essere andato per il verso sbagliato. Mentre l’attacco gastronomico dei piatti della seconda portata, per qualche ragione, ritardava il suo ingresso in battaglia. Possibile… Un cedimento alle lusinghe di chi offriva improbabili sogni di gloria? Finché l’orribile rivelazione: all’interno del cerchio tracciato dal piatto in ceramica, neanche l’ombra dorata di un pesce. “È carne, hanno servito la carne… Richiamate gli uomini, dobbiamo cambiare strategia!”
Il periodo delle guerre civili giapponesi è quell’Era durata oltre un secolo tra il 1497 e il 1603, che dopo essersi protratta attraverso svariate generazioni di raffinatissimi e abili guerrieri, fu portata a compimento all’improvviso in una singola battaglia, per la tardiva risoluzione un daimyo (signore della guerra) indeciso. Quel Kobayakawa Hideaki nipote del grande capoclan e conquistatore Hideyoshi che, per la vaga promessa di un feudo da 500.000 koku, all’ultimo momento scelse di schierarsi dalla parte dell’usurpatore, colui che sarebbe passato alla storia con il nome di Tokugawa Ieyasu. Il che gli avrebbe consentito, incidentalmente, di passare alla storia. Ma soltanto fino a un certo punto. Poiché non sono i furbi. Né i vincenti, o gli scaltri, ad incarnare il vero spirito del samurai. Che trova un’importante espressione traversale, fin dall’epoca della Restaurazione del potere politico di colui che regnava a Kyoto, l’Imperatore (1868) nella beneamata tradizione del Tango no sekku o quinto giorno del quinto mese (5 maggio) anche detto festa dei bambini ed oggi anche delle bambine, benché a quest’ultime venga riservata anche una diversa ricorrenza soltanto per loro, quella del 3 marzo della Hinamatsuri o festa delle bambole. Anch’essa caratterizzata, come nel saliente caso, dall’esposizione di particolari figurine antropomorfe, realizzate secondo attente metodologie tradizionali. Raffinate ed eleganti effigi della nobiltà di corte, per le giovani appartenenti al gentil sesso. E guerrieri in armi pronti alla ferocia inusitata della guerra, per tutti coloro che dovranno crescere appartenendo alla metà opposta del cielo. E c’è una sorta di pregevole senso di responsabilità ereditario, nell’opera di artigiani come Yasuhiro Ohkoshi della Tadayasu Co. della città di Saitama nell’omonima prefettura, fabbricante dal 1964 di tali emblematiche yoroi (armature) per una clientela dai gusti particolarmente difficili e ricercati. Almeno finché, attorno ad un periodo risalente all’incirca a 5-6 anni fa, uno specifico ordine ricevuto non gli avrebbe aperto gli occhi: ” È magnifico scoprire che la mia arte ha il potenziale di far conoscere il Giappone nel mondo. Anche se dovrò affiancare una produzione di semplici gadget allo stile prestigioso che ha sempre caratterizzato il mio lavoro”. Il tutto, attraverso l’assistenza nel compiere un gesto straordinariamente internazionale ed umano: preservare per qualche la freschezza della bottiglia di vino, aperta per gli ospiti e alla fine, tristemente, lasciata a evaporare nel suo trasparente contenitore…
L’isola sopravvissuta secoli nutrendosi di palme velenose
L’anno era il quattordicesimo dell’era Keicho (1609 d.C.) non troppo dopo l’inizio del regno dell’Imperatore Katahito e a seguito dell’epocale battaglia sulla piana di Sekigahara, costata la vita alla parte significativa di un’intera generazione di nobili e popolani. Ancora una volta Tamaki guardò fuori dalla finestra della sua nuchijaa in legno con tegole di terracotta, avendo cura di non affacciarsi in maniera troppo evidente per i sorveglianti con le due spade. Mentre accarezzava pensierosamente il bastone con l’anima di ferro, arma ereditaria della sua famiglia, si rivolse quindi alla propria consorte Beniko “Puah, samurai! Non riesco ad immaginarmi nulla di meno giapponese” Smettendo per un attimo di percuotere con enfasi il mochi dalla strana consistenza che stava preparando in un pentolone, lei ebbe appena il tempo di rivolgergli uno sguardo preoccupato, prima che i ricordi sopraffacessero entrambi. Di un epoca capace di sembrare lontana di anni ed anni, prima che le navi dai vessilli verdi del clan Shimazu sbarcassero sulla verdeggiante isola di Amami, permettendo ai loro occupanti di dichiarare le terre emerse del sub-arcipelago delle Ryukyu come un proprio territorio per il concetto quasi-universale del destino manifesto, sopra cui imporre la dura legge e tassazione di un distante daymyo nel suo castello, circondato da tesori dell’arte e incalcolabili ricchezze della nostra Era. “Marito, metti via l’hanbō per favore. Sai cosa è successo al nonno e se soltanto l’uomo là fuori dovesse sospettare un intento di ribellione da parte nostra, ordinerà di nuovo ai suoi sottoposti di erigere i pali. Se dovessi finire crocifisso, non sopravviverei…” Parole tremule, ma un’espressione risoluta. Di guerrieri, navigatori, ecclesiastici disallineati. Per lunghe generazioni, all’insaputa dei sedicenti Shōgun di Heian-kyō (Kyoto) prima e i signori della guerra della guerra civile, la gente di Amami aveva commerciato e conversato con i mercanti provenienti dalla Corea, Cina e altre terre lontane, apprendendo norme della tecnica e della scienza precedentemente inusitate. Assieme alle storie di un uomo vissuto, morto e resuscitato oltre un millennio e mezzo fa in Galilea. Ed era proprio in suo nome che adesso, esisteva una simile possibilità: “Vorresti dirmi che non abbiamo altra scelta? Dare via il nostro raccolto e soffrire, per l’ennesima volta, il tormento del sotetsu jigoku?” Fu allora che un suono distante sembrò risuonare nel loro giardino: era la Shishi-odoshi, canna di bambù dondolante che colpiva la pietra sonora posta alla sua estremità. “Niente affatto, mio caro. Ti sto consigliando di assaporarlo, preparandoti a un’ora della riscossa che potrebbe anche non giungere mai!”
Sotetsu (ソテツ in alfabeto sillabico, non esistono kanji per definirla) è una “palma” del gruppo delle cicadofite, in realtà parte di quell’antichissima gruppo di gimnosperme (piante dal seme nudo) che da oltre 300 milioni di anni sopravvivono e si propagano a dismisura, nella maggior parte dei biomi tropicali e non solo. Mentre jigoku (地獄) significa, letteralmente, inferno. Un’associazione o metafora, questa, quanto mai appropriata soprattutto all’epoca, per definire l’ultima risorsa disperata di un intero popolo isolano costretto più volte a fare la fame, prima per l’occasionale verificarsi di periodi di magra e catastrofi naturali, quindi per le dinamiche sociali imposte da un crudele corso della storia. E più volte viene narrato, nella letteratura locale, di quanto terribile fosse, in origine, consumare i frutti, le foglie e persino il tronco specie locale della Cycas revoluta, basso e tarchiato arbusto dalle foglie lanceolate, naturalmente in grado di produrre la cicasina, una sostanza a base di glucosio capace di causare conati, nausea, diarrea e gravi conseguenze sull’integrità dei reni e del fegato umano. Questo almeno finché la gente dell’isola di Ashima non scoprì, forse accidentalmente, che lo stesso fungo impiegato per trattare la soia allo scopo di farla fermentare nella preparazione del miso, l’Aspergillus oryzae o più semplicemente koji (麹) poteva sortire un effetto quasi mistico sulla polpa ridotta in polvere dell’amata-odiata pietanza vegetale. Separando il principio attivo dalla parte commestibile durante la fermentazione in maniera sufficiente perché fosse possibile, a quel punto, passare alla fase successiva di una complessa e importantissima procedura…