2016: l’anno dei grandi fiori maleodoranti

Titan Arum New York

Un evento abbastanza raro da riuscire a comparire, generalmente, come notizia nazionale ogni qual volta si verifica, con un notevole guadagno d’immagine da parte del tale o tal’altro orto botanico. Attraendo, senza falla, molte migliaia di persone oltre il normale pubblico di ciascun luogo ospitante, proprio perché pochi di noi, fin’ora, hanno avuto l’occasione di vederlo una, al massimo due volte nella vita. Ma è già dire tanto: perché ciascuna pianta di aro titano o aro gigante (scientificamente: Amorphophallus titanum) riesce ad espletarsi AL MASSIMO una volta ogni dieci anni, costituendo la singola infiorescenza alta 3 metri, la più grande del regno vegetale. Sprigionando di conseguenza quell’odore nauseabondo, concepito per attrarre gli insetti, che è stato più volte descritto come cadaverico, di pesci ed uova marce, di calzini usati, di formaggio gorgonzola… Non per niente, nella sua nativa terra d’Indonesia, lo chiamano bunga bangkai, il fiore carogna. Uno spettacolo per gli occhi quindi, ma anche per il naso. Che all’improvviso, per motivi che i botanici non riescono realmente a definire, sta diventando più comune delle repliche del telefilm Friends.
Ma iniziamo dal princìpio. Gennaio di quest’anno: dopo una lunga attesa, l’ufficio stampa dell’Università dell’Illinois, a Charleston, invia la lieta novella alle agenzie: il suo tubero interrato  di aro, avendo raggiunto una forma sferoidale dal peso di 15 Kg, è finalmente pronto a dare fondo a tutte le sue risorse, per iniziare la preziosa, e spettacolare stagione riproduttiva della pianta. Così, piuttosto che produrre il solito fusto frondoso destinato a deperire dopo appena 12-18 mesi, in un continuo ciclo di morte e resuscitazione, la pianta sta letteralmente esplodendo alla velocità di 10 cm giornalieri, per trasformarsi nel poderoso fiore dinnanzi al quale tutti amano arricciare il naso. Nel giro di due settimane circa, quindi, l’aro si spalanca completamente, mentre da ogni parte dello stato e del resto del paese la gente accorre per assistere a quello che avrebbe dovuto essere, come tutte le altre volte, un’occasione irripetibile per molti mesi, se non anni. Considerate come dal 1889 al 2008 (119 anni!) in tutto il mondo non sono fioriti che 157 ari titano in cattività, di cui soltanto una minima parte erano a portata della popolazione generalista in un dato momento X. Appena una settimana dopo, invece, la notizia più inattesa: sta improvvisamente per fiorire anche l’aro dell’Orto Botanico di Chicago! Gioia, giubilo! Quale improbabile contingenza, pressoché priva di precedenti, nevvero? Ma aspettate, non è finita qui. Nel corso della prima metà dell’anno, i due apripista vengono ben presto seguìti dal fiore gigante del Rollins College, Florida. Mentre proprio in questi giorni è il turno di quello presente all’Orto Botanico di New York, di un’altro sito presso l’United States Botanic Garden di Washington D.C, di un terzo al castello di Bouchout in Belgio e di un quarto, custodito all’Università dell’Indiana presso Bloomington, nella contea di McLean. Un quinto fiore potrebbe farsi avanti di qui a poco a Sarasota, in Florida. Diventerebbe a questo punto difficile definire ciascuna di queste casistiche, come si usa generalmente fare, “l’evento botanico dell’anno” perché è in effetti l’intero anno, che sta diventando in se stesso una contingenza totalmente priva di precedenti. Tanto che si potrebbe finalmente giungere a una comprensione superiore di questa straordinaria pianta, dopo tanti anni di studi saltuari e poco approfonditi, per forza di cose. Un fiore che non soltanto richiede 10 anni per formarsi, ma appassisce in appena un paio di giorni… Ce ne vorrebbero un bel po’ per arrivare ad una qualsivoglia valida conclusione. Ed almeno per il momento, sembrerebbe che li abbiamo!

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Chi misura gli alberi più alti al mondo

Big Lonely Doug

Dietro un record significativo c’è (quasi) sempre una grande storia, e questo tanto maggiormente vero nel caso di un categoria da guinness, forse meno immediatamente spettacolare de “la creatura più veloce” o “l’uomo più forte del mondo” eppure straordinariamente importante per giungere a una comprensione più profonda del nostro pianeta. Perché risponde a una domanda d’importanza fondamentale: fino a che punto può spingersi la natura, nel rendere imponente e duraturo un solo, gigantesco essere? In se stesso dotato di ogni presupposto a sopravvivere per molte interminabili generazioni, ed al cui confronto noi effimeri camminatori del terreno non possiamo che esprimere la nostra riverenza, per venerarne ad un livello istintivo lo spirito prezioso ed antico… E la ragione di una simile avventura? Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, non è affatto facile assegnare un numero all’immenso, per quanto immobile e del tutto privo d’intenzioni. O per lo meno, è difficile farlo in maniera precisa. Voglio dire, provateci! Simili alberi massivi crescono, generalmente, in luoghi estremamente remoti, o in altri termini abbastanza scomodi perché, nelle generazioni, nessuno si sia mai preso la briga di buttarli giù, con l’obiettivo di creare gigantesche navi o la struttura d’edifici di ogni tipo. Non è quindi possibile sfruttare punti di riferimento, con la finalità di fare, per così dire, ad occhio. Né la soluzione più tecnologicamente moderna, dell’impiego di un sistema di misurazione laser, sortisce facilmente l’effetto desiderato, visto come la cima tenda ad oscillare nel vento, i rami siano molteplici e l’ottenimento di una misurazione oggettivamente corretta, anche per questo, estremamente passibile d’errori. Così alla fine, non resta che un’unica possibile soluzione: armarsi e partire.
Come fatto da questo team formato da vari individui dell’Arboreal Collective e dell’Ancient Forest Alliance, entrambe organizzazioni con sede nella Columbia Britannica, al fine di cementare, ed iscrivere nei libri mastri, la scoperta di “Big Lonely Doug”. Un abete. Non esattamente uguale a quello che avete addobbato in occasione del Natale scorso: se questo fosse un edificio, avrebbe almeno 15 piani. E la circonferenza del suo tronco è tale, che se un’automobile con quattro porte dovesse mettersi a girargli attorno, essa sparirebbe pressoché immediatamente dalla vostra vista. Queste sono, per intenderci, le dimensioni di cui stiamo parlando. 66 metri d’altezza, 4 di larghezza. Una vera enormità. E dire che l’antico vegetale, sito nel bel mezzo dell’isola di Vancouver, non è nemmeno vicino ad essere il più grosso del mondo sotto alcun parametro, venendo facilmente superato da almeno un suo simile alto quasi il doppio, laggiù nella contea di Coos nell’Oregon, per non parlare di tutti gli altri appartenenti ad una lista che viene ogni anno pubblicata, documentata ed aggiornata, con al suo interno la più vasta selezione di arbusti dell’America Settentrionale, australiani ed appartenenti ad ogni recesso geografico dell’area dei Tropici. Già, ma misurati COME? Salendoci sopra, se proprio volete saperlo! Il sistema più efficace, “semplice” ed a prova d’errori: un coraggioso, scelto tra i più agili del gruppo, dovrà premurarsi di lanciare a grande altezza un tenue e lungo filo, con un contrappeso alla sua estremità. Quindi mettersi a tirare quella cosa giù dall’altra parte, ma non prima di averla assicurata ad una corda da alpinismo, che egli impiegherà, secondo i suoi metodi e ritmi, per giungere fino alla cima della foresta e del mondo. E tutto questo, con la sola finalità di ritrovarsi da solo, lassù, una mano saldamente stretta al più solido ramo del circondario. Ed un altra, che stringe saldamente un nastro di misurazione, la cui estremità crescente dovrà essere gettata giù. Ottenendo, finalmente, una lettura in chiari metri dell’originale senso di stupore e meraviglia. Ed è proprio così, alla fine, che qui nasce una leggenda.
L’impresa relativa a questo particolare abete di Douglas, che viene definito il secondo più alto del Canada, non è del resto neanche tra le più incredibili. Ma soltanto una delle meglio documentate su YouTube. Gli alberi della specie Pseudotsuga menziesii, infatti, sono estremamente resistenti, rapidi nella crescita e vivono fino a 1.000 anni. Il che significa che essi attraversano, nel corso della loro vita, un’ampia serie di cambiamenti, tra cui il processo di auto-potatura dei rami più bassi per ottimizzare il proprio dispendio di energia. Raggiunto il secolo d’età, quindi, essi presentano uno spazio di circa 10 metri da terra, in cui l’unico appiglio offerto agli aspiranti scalatori è il tronco nudo dalla ruvida e sugherosa corteccia. E gli ostacoli si moltiplicano, con il distanziarsi del soprastante obiettivo…

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Viaggio nella fabbrica dell’impossibile insalata

Aerofarms

Un nuovo marchio è presente, dal 2004, tra i prodotti vegetali dei supermercati di New York. Con un variopinto logo con foglie sovrapposte in tre colori che incorona la dicitura “Local Baby Greens”, riferita alle più popolari tipologie d’insalata raccolta tra i 15 e i 40 giorni dal momento della prima innaffiatura. E sotto a quest’ultima, lo slogan: “Orgogliosamente coltivato a Newark, New Jersey”. Il che potrebbe anche lasciare un po’ (molto) stupìti. Perché la Città del Mattone, come viene affettuosamente definito un tale agglomerato di oltre 500.000 persone, si trova a null’altro che 8 Km dall’isola di Manhattan, facendo parte a pieno titolo di una delle più vaste, popolose e celebri metropoli del mondo. Dove dovremmo quindi immaginarci questa magica coltivazione di lattuga, rucola, cicoria e crescione… Tra le aiuole di un affollato parco cittadino? Sopra i tetti di un possente grattacielo? Sotto terra, dentro a un’ex stazione della metropolitana? Ci stiamo avvicinando, ci stiamo… Ma la realtà è ancor più stupefacente, ed improbabile, di così. Tra le proprietà già pienamente operative della Aerofarms, compagnia coltivatrice di dette insalate, troviamo un infatti ex nightclub su Market Street e un’arena riconvertita per il paint-ball a poca distanza dagli argini del Passaic River, in cui al posto di luci, barriere e punti di riarmo, ora sorgono le innumerevoli file sovrapposte di un vero e proprio mare di cibo. Disposto per un’area orizzontale relativamente limitata, ma nonostante questo in quantità abbondante, perché in grado di sfruttare un tipo di spazio normalmente sconosciuto agli orti ed alle fattorie: quello della verticalità. Immaginatevi la scena! Voi che entrate dalla porta principale, di una tale installazione del futuro, per trovarvi innanzi a delle convincenti rastrelliere della sala server, una realtà operativa molto nota agli informatici di qualsivoglia ambiente, con tanto di ventole per il raffreddamento e la migliore circolazione dell’aria. Ma al posto degli strumenti tecnologici in questione, un grande spazio per ciascuna vasca, racchiuso tra una sottile membrana di stoffa ed un letterale coperchio di luci al led, facenti le veci del Sole e perennemente accese 24 ore su 24. Ciò che viene prodotto in questi luoghi, non è cibo metaforico per la mente (informazioni) bensì carburante appartenente al mondo fisico, perfettamente usabile al fine di consentire il proseguimento del fecondo status quo. E il tutto, impiegando una quantità d’acqua inferiore alla media di fino al 95%.
Ora se vuoi decideste di sostare per riprendere fiato e scendere a patti con l’allucinante modernità, scoprireste nel giro di pochi minuti la funzione dell’intero meccanismo. Perché su ciascun pezzo di stoffa, diversi giorni prima, erano stati disposti dei semi delle piante succitate, appositamente scelte per grandezza, caratteristiche e popolarità commerciale. Confidando pienamente nel miracolo della natura, che ad esse avrebbe consentito, nonostante le comuni aspettative, di riuscire a germogliare proprio lì, con le orgogliosi foglie a cogliere la luce artificiale dell’impianto elettrico cittadino e le radici…Sospese in aria, nello spazio sottostante della vasca, ben visibili attraverso le pareti trasparenti. Una pausa ad effetto. La consapevolezza improvvisa di trovarvi, per lo meno, in un ambiente attentamente climatizzato. Ottenuta poco prima del rumore, totalmente inaspettato, di uno spruzzatore di vapore d’acqua e soluzione nutritiva, posizionato sul fondo del recipiente a voi più vicino. Le sostanze da esso messe in circolo, quindi, sono state liberate innanzi all’influenza diffusiva delle ventole. Che con stolida certezza, la instradano verso la parte delle piante che dovrebbe, normalmente, essere custodita sotto qualche valido centimetro di terra.
Si tratta di una soluzione tanto contro natura, all’apparenza, da evocare suggestioni simili a quelle delle fattorie di uomini del film Matrix, da cui le occulte macchine senzienti controllavano ed estraevano potenza dall’inconsapevole umanità dormiente. Il che è tutt’altro che casuale: le fiabe e gli spauracchi di un’intera generazione, talvolta, traggono l’origine da manifestazioni fantasiose di un diffuso e vago senso di colpa. Quello di una società civile che da tempo, simile angustie le ha già inflitte al mondo naturale che occupa, più o meno abusivamente, con tutto il suo cemento, vetro e plastica, nel tentativo fallimentare in partenza di giungere a uno stato superiore di controllo. Chi dovesse tuttavia identificare, questa prassi della Aerofarms, come uno sfizio totalmente fine a se stesso, dovrebbe riconsiderare il suo punto di vista. Da soluzioni simili, in effetti, potrebbe dipendere la nostra stessa SOPRAVVIVENZA futura…

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Nuova creazione del costruttore di case in erba

Primitive Technology Grass Hut

Viene da pensare a volte che, fra tutti i luoghi di residenza possibili a questo mondo, non ve ne sia uno migliore della tipica foresta remota d’Australia, nella regione nord-orientale del Queensland, grande oltre un milione e mezzo di chilometri di quadrati. Tranquillità, solitudine, coccodrilli mangiauomini. Chi ti ammazza, lì? Un koala? “Ma loro, possono ancora TROVARMI…” Potreste dire, facendo riferimento ai parenti, agli amici, al capo dell’ufficio o del dipartimento…Giusto! Sbagliato. Perché non importa che tu porti cellulare, PC a batteria, antenna satellitare o baracchino ad onde radio (bella escursione nella natura, eh! Ma si sa, la tentazione è forte.) La ricezione è una leggenda che qui narrano i nativi, come un “qualcosa” che prima o poi dovrebbe giungere, sull’ali pervasive del progresso. Correre avanti con la mente, tuttavia, è un’errore che ci priva di molte ottime opportunità. Torniamo, dunque, a noi. Anzi torniamo a lui, l’uomo senza maglietta né abbronzatura, che il mondo conosce unicamente come Primitive Technology, o per gli amanti degli acronimi P.T, e che assurse alle cronache, nonché agli entusiasmi internettiani, proprio a séguito dei primi video realizzati attorno alla primavera dell’anno scorso, in cui mostrava l’applicazione pratica di alcune tecniche da lui apprese in via particolare, assai probabilmente, in qualche libro sulle antiche civiltà. Muovendosi, lui stesso lo ammette, per tentativi. Certo, è il tipico luogo comune del mondo contemporaneo: se si tratta di un “appassionato” egli non potrà insegnarci granché. Questa è la concezione, estremamente diffusa, secondo cui i professionisti siano in qualche modo infusi di un sapere superiore, derivante dagli alti standard che t’impone lo stress e la continua corsa del bisogno di primeggiare. Ma la realtà è che non siamo tutti così fatti e soprattutto, c’è il bisogno a questo mondo anche della visione contrapposta. Per cui nel week-end, al termine di una pesante settimana, piuttosto che andare a ballare con gli amici o farsi un giro al centro commerciale, c’è chi sceglie di coltivare l’auto-determinazione del proprio fato. E quale miglior modo di riuscirci, come suddetto, che andando a vivere per qualche tempo giù nella Foresta…
Ciò detto, naturalmente, chiunque può comprare una tenda e metterla a ridosso di un ruscello, facendo affidamento sulla tecnologia sempre più portatile e moderna. Oggigiorno, si può approntare un pratico accampamento in poco più di venti minuti, completo di fonte di energia per la ricarica dei cellulari, riscaldamento e/o aria condizionata, fornello a gas tascabile con libro di ricette. Il valore dell’esperienza, tuttavia, potrebbe uscirne compromesso. Poiché il mondo del selvaggio dovrebbe in primo luogo essere, per l’appunto, inospitale, e soltanto la scelta di compiere una full-immersion, così come un falco pescatore che si getta sulla preda, può davvero giungere a fornirti un valido ritorno dell’investimento temporale pregresso. Ed in ciò, P.T. è maestro. Guardate ad esempio il suo ultimo rifugio, costruito giusto la settimana scorsa impiegando unicamente paglia, i lunghi rami flessibili del Calamus australis (palma rampicante comunemente nota con il nome un po’ inquietante di “frustino dell’avvocato”) e viticci di un qualche altro tipo di vegetale non specificato, impiegati con sapienza per tenere il tutto ben stretto assieme. Una capanna, insomma, costruita con il nulla, eppure straordinariamente utile e funzionale. Con un design progettuale che parrebbe direttamente ispirato a quello degli aborigeni della regione di Murray, o volendo andare più lontano con le ipotesi, addirittura alle sar-bet tradizionali dei popoli del nord dell’Etiopia costruite in legno d’eucalipto, dalla somigliante pianta circolare, o ancora alle abitazioni del popolo Maleku della Costa Rica, la cui costruzione è oggi proibita per l’impiego previsto di alcuni vegetali a rischio d’estinzione. Ma forse dopotutto, associare detta struttura ad una specifica regione geografica sarebbe un errore, visto come essa risponda al più semplice e diretto dei bisogni degli umani: avere un luogo da chiamare casa propria, in cui togliersi le scarpe ed attaccare il capello al chiodo. Non che P.T, naturalmente, sia solito disporre dell’uno o dell’altro indumento.

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