L’elica che non fermava i colpi del Barone Rosso

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Che gli americani avessero una particolare confidenza con le armi da fuoco, questo lo sapevamo molto bene. Eppure qui le circostanze sembrano davvero superare l’immaginazione: due uomini adulti, ma che dico gli Slow Mo Guys, coadiuvati da un’intera squadra tecnica, che parcheggiano sul lato della strada del Nevada e si mettono a giocare con una vera mitragliatrice M60. Una, due, tre raffiche, grosso modo perpendicolari al senso di marcia delle auto di passaggio, sparate da quella che sembrerebbe essere a tutti gli effetti la carlinga di un aeromobile della prima guerra mondiale. O per lo meno, la sommaria riproduzione di una tale cosa. Il tono è spiritoso, divertente, con l’intero video proposto come uno spezzone d’intrattenimento. E diciamo che non è presente esattamente il senso di responsabilità ed attenzione che una simile arma da guerra potrebbe imporre su uno qualsiasi di noi: addirittura per un intero tratto del video Gavin, un fondamentale 50% del duo diventato celebre per la dimestichezza con le videocamere ad alto rateo di FPS (la velocità di cattura delle immagini) sembra perfettamente a suo agio posizionato dinnanzi all’arma da fuoco, con la testa a una distanza di circa 50 cm dalla parte frontale della canna. Almeno siamo in un luogo isolato, o per meglio dire, a tutti gli effetti e letteralmente deserto….
Dietro le strane circostanze c’è in realtà un reale intento sperimentativo, o per essere più specifici di ricostruzione storica, mirato a mostrare al grande pubblico l’effettivo modus funzionale di un dispositivo di cui non molti conoscono la teoria, ed ancora meno hanno visto all’opera fuori dai film e videogiochi. Se ci pensate, vi sarà subito chiaro: nel tipico aereo da combattimento della prima guerra mondiale, che si tratti di un mono, bi o triplano, il motore completo di elica è posizionato frontalmente, con il pilota nel primo terzo della carlinga che opera i comandi e sopratutto, in situazioni di battaglia, deve fare fuoco con le sue mitragliatrici di bordo. E in un epoca in cui ancora non esistevano sistemi elettrici di bordo, mentre persino quelli idraulici erano piuttosto rari, c’era un solo luogo in cui potevano trovarsi le armi succitate: tra l’uomo e l’elica, ove egli potesse ricaricarle, controllarne lo stato meccanico, tentare di sbloccarle a seguito di eventuali inceppamenti. Il che poneva in effetti un problema alquanto significativo: la corsa dei proiettili che nel primo micro-secondo di ogni sparo avrebbero dovuto attraversare lo spazio delicato, entro cui ruotava quello stesso oggetto dalla forma armonica e rotante, generalmente in legno, che serviva a tenere in volo l’aeroplano. La soluzione scelta, come continuò ad avvenire nella maggior parte dei casi per almeno il primo terzo dello scorso secolo, fu di tipo meccanico. Sostanzialmente, si trattò di un sistema che impediva all’arma di sparare nel momento in cui l’elica attraversava il corso della sua mira. Nei fatti, se vogliamo, la sua natura era molto più complessa di così.
Ma prima d’inoltrarci nelle specifiche dell’argomento, finiamo d’osservare all’opera l’eccentrica coppia di scienziati con il camice ed i pantaloni corti. Che nelle battute di apertura si preoccupano di spiegarci come la mitragliatrice usata per l’esperimento non sia una vera Vickers fuoriuscita dalle fabbriche inglesi di circa 80 anni fa, bensì un’arma di tipo contemporaneo, capovolta verticalmente e decorata con una finta canna di raffreddamento ed un mirino d’aviazione piuttosto fedele, quindi posta sopra quel trespolo che vorrebbe ricordare la parte frontale di un Sopwith o di un Fokker di quell’epoca di fuoco e fiamme nei cieli, ovviamente completo di elica rotante, benché a una velocità ridotta. All’inizio della dimostrazione, quindi, l’arma inizia a fare fuoco, mentre l’elica gira vorticosamente, e le telecamere degli Slow Mo Guys fanno il loro dovere: per la prima volta forse nella storia, ci viene dato il privilegio di osservare in alta definizione l’ingranaggio “di sincronizzazione” o “d’interruzione”, come veniva chiamato, all’opera, con un conseguente rateo di sparo abbastanza rapido da non trovarsi a fare a pezzi la sua stessa piattaforma di tiro. Finché inevitabilmente, nel finale, la squadra cede alla tentazione di far fuoco a un ritmo intenzionalmente sbagliato, sforacchiando in quattro punti differenti la povera, incolpevole elica di legno. Anche se personalmente, ho una teoria diversa sul che cosa sia in realtà accaduto…

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La lega dei più straordinari spadaccini di YouTube

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L’abbiamo sempre fatto, tu ed io. Questa cosa d’incontrarci sui sentieri della vita e dimostrare chi è il più forte, per rivivere le grandi sfide del passato, vestendoci di luce e del tessuto della cappa degli eroi: Ulisse alle Termopili, Achille a Gaugamela. Cesare tra i colli di Agincourt. E Zorro che si lancia all’arrembaggio, scavalcando la murata del galeone del pirata Barbanera sulla Senna, mentre il carcere della Bastiglia trema per le rimbombanti cannonate all’uranio impoverito. Non più bambini, quindi, siamo diventati più sofisticati. Lasciato il ramo cruciforme, o quel righello piatto come una katana, le nostre spade sono diventate più sottili e immaginarie, eppure nondimeno, terribili e taglienti. Come raggi laser. Parole che trafiggono, pensieri che separano, gesti appartenenti al lato oscuro della Forza e della Luna. “Non guardare alle apparenze: quella è una stazione spaziale, giovane Skywalker…” Così come la gente, specie se si guarda più lontano dei propri confini quotidiani, che non è tutta fatta nello stesso modo. Al punto che qualcuno, crescendo, quella scherma che era un gioco ha poi deciso di studiarla. E approfondirla, finché non si è trovato… Ecco a voi la scena: uno scarno corridoio del castello di Kurovice in Moravia, struttura fortificata risalente al XV secolo che è sostanzialmente un grosso cubo, un tempo appartenuto alla nobile famiglia dei Vrchlabsky, prima che venisse trasformato in un museo. Il che non significa, del resto, che i giorni della guerra siano terminati. Mentre il suono del cozzare viscerale, sferragliante e indubbiamente fastidioso, ancora si ode a rimbalzare tra i pilastri degli ambienti privi di riscaldamento. A mostrarcelo, nel nostro caso, ci pensa la semplice telecamera, coadiuvata da un montaggio rapido e più instabile di un film di Jason Bourne, secondo i dettami di un metodo registico molto “contemporaneo” e “appassionante”. Ma se tutto questo fosse vero, e se noi fossimo delle mosche di passaggio, quello che i nostri occhi vedrebbero sarebbe l’ora di un confronto al primo e ultimo sangue (alfa ed omega, la perdizione) tra due uomini determinati a fare fuori l’aspro rivale. Le circostanze non lasciano alcun dubbio: siamo dinnanzi al rituale del duello, un confronto per difendere il prestigio dei propri nomi. Benché portato avanti, guarda caso, da due membri dell’associazione della Repubblica Ceca Adorea Olomouc, dedita alla pratica delle HEMA (Historical European martial arts) e rinomata su Internet per la proposta di un canale video le cui coreografie di combattimento rivaleggiano col meglio del cinema internazionale.
Lo scenario, di per se, risulta già piuttosto insolito. Perché non si è forse mai verificato, nella storia di simili prassi sanguinarie, che due contendenti si siano affrontati in assoluta solitudine, impugnando armi sovradimensionate come una longsword. La famosa spada “da una mano e mezza” o come usavano chiamarla già in quell’era, lama bastarda, perché concepita per usi multipli e sostanzialmente diseguali. Vuoi disarcionare un nemico a cavallo? Perfetto, vibra il colpo alla sua massima estensione, come se stessi usando lo strumento di una falce. Occorre perforare un’armatura? Niente di più semplice, basta posizionare la seconda mano sul ricasso (parte non tagliente della lama) e trasformare il simbolo del proprio onore in una volgare picca, sulla cui efficacia ben pochi oserebbero sollevare dei dubbi. Ma se c’è l’improvvisa necessità, più o meno oggettiva, di far fuori un avversario in abiti civili, ecco, non è che manchino strumenti più efficaci. Proprio per questo, a partire dal XVII secolo, nacque la spada all’italiana o striscia, che gli anglofoni chiamano rapier, concepita per saettare rapida verso i punti vitali di un qualsivoglia corpo umano. Difficilmente, con un attrezzo ponderoso come quello usato dai due figuranti della presente scena, si sarebbe potuto raggiungere un simile grado d’efficienza. Ma prima di allora, tutto era possibile. Anche che due soldati mercenari dell’Europa Centrale, magari dei lanzichenecchi innamorati della stessa donna, si sfidassero impiegando lo strumento con cui avevano maggiore familiarità. Senza ricorrere al vestito corazzato, perché ciò non tollerava il senso di una simile tenzone, ma soltanto ben vestiti per andare all’aldilà. Con tanto di vistosa braghetta per tenere in vista i gioielli genitali nel caso del guerriero in pantaloni verdi, ma soltanto (?) perché ciò esigeva la moda dell’epoca. Cosa non si farebbe, per apparire storicamente corretti…

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New York ’93: l’impossibile videocassetta in HD

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La città era gremita, le persone si parlavano l’una sull’altra. Dall’Ottava Avenue a Gran Street, da Broadway a Times Square, non c’era un singolo luogo in cui sarebbe stato possibile individuare il suono del vento. Gente semplice, gente elegante, uomini e donne di mondo, eroi emarginati. Ciascuno estremamente cosciente, così come lo è immancabilmente la natura umana, del preciso istante e della condizione in cui stava vivendo, al termine di un secolo di duri sacrifici, lotte, ardue tribolazioni; sulla cima del periodo economicamente più elevato degli ultimi 100 anni. Alla Casa Bianca faceva il suo ingresso proprio in quell’anno Bill Clinton, con un futuro ancora da decidere, forse un passato nebuloso, ma una leadership di partito solida e una visione politica del mondo a cui il popolo americano, fin da subito, si dichiarò abbonato. Altre scelte, meno degne dei libri di storia eppure a loro modo non prive d’importanza, influenzavano il mondo del commercio in modo significativo. I dischi giravano nei vorticosi meccanismi.
I Kennedy, i Rockfeller. Chi sono i Taft, gli Udall? Di certo non potremmo sollevare alcun dubbio, neanche da ignoramuses europei, in merito all’importanza rivestita nella storia del contemporaneo dai due presidenti Bush. Le dinastie al potere della classe dirigente americana, la cui storia pregressa porta molti a pensare che persino dopo queste elezioni del 2016, i Clinton possano tornare in lizza con l’ingresso nell’arena della figlia Chelsea. C’è una tendenza fondamentale, universalmente nota, che porta il potere politico a scorrere dentro alle vene con il sangue, e per questo trasferirsi intonso lungo il flusso delle sue generazioni. Mentre se c’è un ambito in cui questo non poteva mai succedere, questo era senz’altro la tecnologia. Un mondo le cui regole sono dettate necessariamente dal senso pratico, e il ritmo è scandito dalle innovazioni ingegneristiche e la sperimentazione. Giusto? Allora spiegatemi un po’ questo documento: una ripresa della Grande Mela in cui la folla, presa da lontano, non è soltanto una massa indistinta di colori, ma presenta nasi, bocche, addirittura singoli capelli. La cui inquadratura si compone, se volessimo contarli, di esattamente 1980 x 1080 pixel a scansione interlacciata. Gli stessi di un moderno film in Blu Ray. E a scanso d’equivoci: non siamo assolutamente di fronte a una creazione avveniristica, creata per un pubblico di tecnici nelle candide sale. Queste scene, create con piglio registico neutrale ma piuttosto accattivante, facevano parte originariamente di un disco demo giapponese, impiegato per dimostrare nei negozi le straordinarie potenzialità del Laserdisc MUSE della Pioneer. Un qualcosa che avrebbe immediatamente ricordato, agli occhi dei giovani d’oggi, un CD grosso come un 33 giri.
Eppure, non è ancora questa la ragione degna del nostro supremo senso di sorpresa: perché il video in questione, per come lo stiamo guardando attraverso l’upload dell’utente YouTube Pedant, è stato in effetti catturato tramite l’uscita component dispositivo differente, per il grande pubblico letteralmente sconosciuto. Un videoregistratore… In alta definizione. Si, è così! La suprema contraddizione in termini, come un pesce che cammina sulla terra, o un cubo di ghiaccio che va a fuoco, un verme che mette le ali come una farfalla. C’è stata un’epoca, tutt’altro che lontana, in cui lo storage ottico del disco laser ci sembrava vecchio e superato. Ed il futuro era chiaro  e limpido, come una scatola di plastica col nastro magnetico all’interno. La sublime, indimenticabile invenzione del VHS di JVC: torneremo mai a quell’epoca gloriosa? Aah, la nostalgia. Il fatto, sostanzialmente, è come segue. Nell’opinione comune, si tende a pensare che l’immagazzinamento dei dati in formato digitale non possa che derivare da specifiche tipologie di supporti. Che i dati codificati, in maniera totalmente scollegata dalla loro fisica natura, siano un appannaggio del “mondo nuovo” nato successivamente all’invenzione del transistor, e che la conoscenza, come qualsiasi altra forma di energia, non possa comprimersi al di sotto di un peso specifico determinato. 74 minuti di musica, ad esempio, per un CD Audio; ma ora provate a registrarli in formato MP3, o ancora meglio in FLAC. Ora avete 650 megabytes, ed in funzione della qualità scelta, molto, MOLTO spazio di manovra…

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La leggenda cinese del veleno supremo

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È piuttosto raro che un singolo elemento di una cultura pluri-millenaria giunga, pressoché invariato, fino alla soglia della modernità. E quando ciò accade, il più delle volte, c’è di mezzo una credenza filosofica o religiosa. Le prime notizie che abbiamo della misteriosa sostanza definita gu o ku, sono delle iscrizioni oracolari su ossa di tartaruga, facenti parte del corpus di testimonianze risalenti alla prima espressione storica della civiltà cinese, la dinastia Shang (1600-1046 a.C.) grosso modo corrispondente al Nuovo Regno dell’antica civiltà Egizia sul corso del Nilo. In esse, strumenti ritenuti fondamentali per ogni decisione importante presa dallo stato, si faceva riferimento con ideogrammi prototipici ad una certa entità, la cui notazione per iscritto includeva una mescolanza dei termini riferiti a “verme”, “insetto” o “serpente” e quello usato per “giara, recipiente”. Tra i frammenti relativi a tale creatura, se di questo si trattava, ricorreva una lamentazione sull’odio degli antenati per le attuali generazioni e veniva dato ad intendere, con tono perentoreo, che “chiunque fosse colto nell’atto della preparazione del gu, dovrà essere messo a morte insieme a tutta la sua famiglia.” Fino a un tale punto, gli antichi governanti temevano questa connotazione demoniaca della natura, imbrigliata e costretta a servire la volontà omicida dell’uomo.
A quanto ci è dato di sapere, grazie a testimonianze e scritti successivi, la forma fisica del gu era quella di un decotto insapore ed inodore, prodotto da una sostanza organica finemente sminuzzata grazie all’uso di un pestello. Ma sarebbe stata la provenienza di questo particolare ingrediente, a renderlo davvero speciale. Il quinto giorno del quinto mese di calendario, corrispondente con la ricorrenza del solstizio d’estate, lo stregone si sarebbe procurato personalmente un certo numero di animali, appartenenti alla categoria tradizionale delle “cinque bestie velenose”: il rospo, il centopiedi, il serpente, il ragno e lo scorpione. Quindi li avrebbe rinchiusi tutti assieme dentro a un recipiente, il più angusto ed oscuro a sua disposizione. Attraverso innumerevoli giorni e settimane, le povere creature avrebbero combattuto divorandosi tra loro. Finché alla fine, l’ultima sopravvissuta, sarebbe giunta ad includere magicamente nel suo corpo tutta la nefandezza e le nequizie del mondo, e conseguentemente un fluido in grado di distruggere sistematicamente l’organismo umano. Diluito nel vino o in altre bevande, era impossibile da rilevare, e non esistevano metodologie per rilevarne l’uso pregresso in alcun modo. Ad oggi il dizionario enciclopedico Hanyu Da Zidian, portato a termine nel 1979 a partire da fonti filologiche di ogni epoca, parla di 9 tipi differenti di gu, tra i quali il più frequente era l’avvelenamento addominale, una sorta di infiammazione cronica con complicazioni autoimmunitarie, che causava sintomi simili a un colpo di calore prolungato all’estremo, oltre a perdita di appetito e di peso, febbre e vomito “simile al cotone”. Si trattava di una patologia incurabile che uccideva molto lentamente, rendendo questo tipo di vendetta estremamente adatta a chi voleva prolungare le sofferenze della sua vittima, causandone la morte tra atroci sofferenze. Ma il punto principale dell’impiego di questo veleno piuttosto che un altro, almeno secondo le credenze sciamaniche dei popoli aborigeni del meridione ove avrebbe avuto origine la terribile usanza, erano le implicazioni sovrannaturali liberate dal questa diretta manipolazione del destino. Sembra infatti, secondo quanto riportato da diversi farmacisti di epoca Tang e soprattutto dallo studioso Cai Dao nel XII secolo (dinastia Song) che l’impiego del gu permettesse all’assassino di attirare su di se le fortune di colui che avvelenava, portandolo al guadagno immediato di una grossa somma di denaro, spesso a discapito dei legittimi eredi del malcapitato. In questa particolare versione, tuttavia, il veleno prendeva il nome di jincan, letteralmente “il bruco d’oro” e trovava un metodo di preparazione totalmente differente. Esso era il prodotto della sublimazione di una leggendaria e non meglio definita larva del colore del prezioso metallo, proveniente dal Kashmir, che una volta ingerita si sarebbe ricomposta negli intestini umani, iniziando a divorarli dall’interno. Una volta così ricreato, l’insetto diventava immortale alla stessa maniera dei cadaveri rianimati dal vudù caraibico, e tendeva a ritornare sempre dal suo padrone. Nulla poteva nuocergli, neppure le armi ed il fuoco. L’unico modo di liberarsene, una volta soddisfatti dei risultati e dell’arricchimento personali a cui si era arrivati, era dunque chiuderlo in un recipiente assieme a del denaro e lasciarlo per strada, nella speranza che un passante lo raccogliesse e portasse in casa sua, per dare nuovamente inizio al ciclo di morti e sofferenza. Tale prassi veniva definita “dare in sposa il bruco d’oro” ed era considerato un passaggio necessario affinché l’animale non finisse per rivoltarsi contro il suo stesso padrone. Ma naturalmente, nulla di simile si è mai verificato…

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