Ricostruita su Internet la misteriosa canoa dei guerrieri irochesi

Nel 1603, con la decisione dei coloni francesi di non vendere armi alla potente Lega delle Cinque Nazioni del Nuovo Mondo, creata grazie alle scelte politiche e la grande abilità diplomatica del capo irochese Hiawatha assieme al profeta degli Huron Deganawida, la diffidenza di una simile potenza nei confronti degli europei giunse al limite estremo. Fu quello il momento dunque, più o meno definito, in cui le tribù belligeranti decisero di allearsi con gli inglesi della Costa Est, dietro l’accordo implicito, mai davvero messo per iscritto, che questi ultimi gli avrebbero permesso di mantenere il controllo esclusivo sui propri territori. Trascorso un breve periodo di calma apparente, quindi, un nutrito contingente di guerrieri iniziò a costeggiare il fiume di St. Lawrence verso meridione, nella regione dei Grandi Laghi dove si trovavano i clan allineati con la Francia degli Algonchini, i Susquehannock, gli Erie e gli Abenaki. Ma prima di raggiungere i loro villaggi, dall’altro lato dell’impetuoso corso d’acqua scorsero pattugliatori a cavallo con l’uniforme imperiale, armati degli ultimi moschetti prodotti dall’altro lato del grande Mare. Nascondendosi a quel punto tra gli alberi della foresta, gli irochesi lasciarono alle truppe nemiche tutto il tempo di prepararsi, mentre nel profondo della foresta, misero in atto il loro piano. Una notte e una mattina dopo, la piccola armata organizzata del re di Francia era pronta ad impedire il guado e conseguente assalto, nell’unico punto in cui fosse possibile effettuarlo nel raggio di molte centinaia di miglia. Essi sapevano bene, grazie al resoconto degli esploratori, che il loro nemico “primitivo” era del tutto privo d’imbarcazioni o altri metodi capaci d’invertire i presupposti. Giusto mentre i comandanti continuavano a ripetersi questo, scrutando pensierosi la direzione da cui sarebbe stato costretto a provenire il nemico, si udì un grido di battaglia provenire da molto, troppo vicino. Gli indiani avevano attraversato in un altro punto, ed ora stavano attaccando da dietro! “Uomini, preparatevi a respingere la carica!” Difficilmente, tuttavia, la battaglia avrebbe potuto iniziare con presupposti peggiori…
Il sapere dei popoli nativi americani era vasto e talvolta vario, come il grande azzurro dei cieli. Essi possedevano, per quanto era dato sapere all’uomo cosiddetto bianco, essenzialmente due mezzi di trasporto nautici, concepiti per i labirinti fluviali e lacustri di questo vasto ed ancora largamente inesplorato continente: una era la canoa ricavata da un singolo, enorme tronco esattamente come un totem, estremamente pesante ed associata principalmente ai popoli della regione corrispondente all’attuale stato di New York fin su a settentrione, nella parte canadese del continente. L’altra era quella in corteccia di betulla, molto più leggera, maneggevole e soprattutto trasportabile, considerata l’ideale per spostarsi attraverso i corsi d’acqua e le asperità montuose di questi luoghi. Entrambe, tuttavia, in grado di richiedere svariati giorni per essere costruite, e comunque troppo ingombranti perché un’armata di guerriglieri in marcia potesse trascinarsele dietro per migliaia di chilometri, prima di montare l’assalto contro un contingente nemico. Come potevano aver attraversato, dunque, il fiume di St. Lawrence, gli inferociti guerrieri delle Cinque Nazioni?
La risposta, oggi facilmente disponibile a un qualsiasi esperto di quell’epoca e le relative tradizioni, viene resa per noi esplicita dall’archeologo sperimentale e divulgatore di YouTube Jas Townsends, dal riconoscibile cappello e giacca coloniale, perennemente impegnato nella ricostruzione dello stile di vita nordamericano nel XVII e XVIII secolo. Che in occasione dei suoi ultimi due episodi, collaborando con l’esperto nautico Erik Vosteen, ha scelto di approfondire la costruzione di un qualcosa che in molto pochi, oggi, hanno avuto modo di vedere coi propri occhi: la perfetta ricostruzione, fedele per metodi e tecnologie, di una canoa in corteccia d’olmo, particolarmente rara persino all’epoca citata, benché venisse occasionalmente utilizzata da tutti quei popoli che si trovavano al di sotto della latitudine a cui potevano crescere con successo le betulle. Verso l’approntamento di uno scafo pesante, compatto, difficile da rifinire e generalmente condannato a disgregarsi nel giro di una, due settimane al massimo. Benché avesse una qualità, sopra ogni altra: la capacità di essere pronto nel giro di appena 12 ore. Soltanto mezza giornata affinché un intero contingente potesse, con estrema facilità e nessun tipo di rischio, varcare il corso infuriato di un vasto fiume!

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L’antica professione della pesca con la lontra in Bangladesh

Uniti ma divisi, nel teatro della foresta di mangrovie più vaste al mondo che chiamiamo Sundarbans: tre diversi personaggi. Il primo nuota, per definizione, sotto il ciglio di quell’acqua opaca per la terra e il fango smosso, andando in cerca del tesoro ittico della giornata. Il secondo viaggia in mezzo agli alberi, strisce mimetiche nel vento, con gli artigli pronti per ghermire chiunque invada il proprio territorio. Il terzo sono io, il terzo siamo noi. Il terzo è il tipico rappresentante (singolare/plurale) delle genti indigene del Bangladesh. Tra quest’ultimo e il secondo, quella tigre delle circostanze, non può esservi un incontro produttivo, poiché siamo rispettivamente assai pericolosi, carnivori aggressivi, costruttori e boscaioli… Tra la lontra ed il secondo, zero incontri, poiché lei sa correre e nascondersi, gettarsi in acqua e scomparire molto prima di finire preda del famelico felino. E invece, l’uomo? C’è un conflitto, un dramma, qualche tipo di racconto? Ebbene, se vogliamo, c’è qualcosa di persino meglio di così; un’antica e importantissima alleanza. Così tanto duratura perché possa teorizzarsi, in questi luoghi, quell’approssimazione funzionale del processo evolutivo della natura, che ha comunemente il nome di addomesticazione. Nato e ancora adesso presentato in modo più che mai evidente, dal ripetersi di un gesto antico: quello del maestro pescatore, circondato da una schiera di assistenti zampettanti, squittenti e quanto mai operosi.
Questo genere di lontre, immagino le conosciate molto bene. Si tratta delle Lutrogale perspicillata o “a pelo liscio” esteriormente molto simili alla specie più diffusa dalle nostre parti, soprattutto nello stato naturale di questi animali, ovvero quello ricoperto e intriso di acqua quando emergono dall’increspata superficie del proprio habitat privilegiato. Per rientrare, almeno in questo caso, nella scatola di legno incorporata nel tipo più classico d’imbarcazione del gruppo etnico e culturale dei Malo jele, popolazione fortemente radicata nell’ambiente estremamente umido delle remote Sundarbans. Intendiamoci, non siamo certamente qui a parlare di un’industria pervasiva secondo gli standard d’osservazione moderni, che possa costituire le ragioni del sostegno di una vera e propria economia. Bensì della pratica lungamente tramandata di un particolare tipo di attività familiare, oggi sfruttata da circa 300 persone a voler essere conservativi, benché fosse in grado di coinvolgerne almeno 10 volte tante all’inizio del secolo scorso; nient’altro che un approccio, se vogliamo, ad un diverso tipo di rapporto proficuo con la natura. Che consiste, come avrete già intuito, nel procurarsi una certa quantità di lontre in età pre-adulta ed addestrarle, al fine di poter contare sulla loro assistenza durante la ricerca e la cattura sistematica del pescato. In un numero tra i tre e i sei animali per ciascun operatore, di un approccio che prevede inoltre la partecipazione di almeno un paio di aiutanti umani, al fine di manovrare la barca e nel contempo i lunghi pali, al termine dei quali sono collocate, rispettivamente le lontre e le reti. Metodologia la cui provenienza da un periodo cronologicamente remoto risulta chiaramente osservabile, nell’estrema efficienza con cui sembra mettere a frutto lo spazio difficile della palude…

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Lo scienziato che frantuma con amore la barriera corallina

Avete mai amato qualcosa a tal punto da pensare: “Adesso prendo una spranga di ferro e inizio in modo sistematico ad accarezzarlo?” Un passaggio alla volta, dal fondo fino alla cima, affinché restino soltanto singoli frammenti dell’oggetto di quel sentimento… Terribile, nonché terribilmente controintuitivo, possiamo dunque definire il gesto del biologo marino David Vaughan del MOTE Lab di Sarasota, Florida, soprattutto quando si considera che le vittime di quest’iperbole (la tecnica è in realtà di un tipo più sofisticato) sono nient’altro che gli inoffensivi, placidi, vegetativi polipi della barriera corallina. Creature tanto piccole la cui sopravvivenza ha un’importanza primaria, affinché possa essere adeguatamente preservata almeno un quarto dell’intera biodiversità marina. Ragione sufficientemente importante questa, e probabilmente l’unica, capace di giustificare una così specifica violenza delle circostanze avverse.
Ma come può talvolta capitare, è dalla cupezza dei più tetri gesti che rinasce l’occasione; dalla tenebra che sorge l’alba; dall’annientamento sistematico che appare, nuovamente, un timido barlume di speranza. Tutto ebbe inizio con l’aneddoto più volte raccontato, nelle sue interviste, che potremmo provvisoriamente collocare verso i mesi del 2006. Quando il buon professore, lavorando presso l’istituto annesso al proprio centro di ricerca “EMICCRRR” (Elizabeth Moore International Center for Coral Reef Research & Restoration) si trovò ad elaborare all’improvviso la futilità della sua opera: poiché produrre uno scheletro ricostruito per quel bioma tanto raro ed importante nell’economia marina, composto dai cosiddetti “coralli massicci” caratterizzati da una crescita misurabile in singoli centimetri ogni 12 mesi e trapiantati per lo scopo nelle apposite vasche del laboratorio, sembrava ormai una meta irraggiungibile prima del sopraggiungere della pensione. E fu così che, con momentanea e accidentale malagrazia, prese un singolo campione di corallo a corna d’alce (Acropora palmata) o per spostarlo, finendo invece per spezzarlo in due.
Immaginate ora il suo rammarico. Provate a considerare quel rimorso, di aver danneggiato irrimediabilmente l’oggetto delle sue attenzioni per un tempo comparabile a una gravidanza, andando contro a tutto quello che sarebbe stato il contenuto di un suo eventuale giuramento d’intenti. Se non che a diverse settimane di distanza, ritornando nel suo giro presso il luogo dell’incidente, Vaughan vide qualche cosa che avrebbe cambiato la sua vita: i due pezzi del corallo spezzettato, che non soltanto erano ancora in ottima salute, ma erano cresciuti a un punto tale, che ciascun frammento aveva adesso la grandezza della forma originale. Proprio lui aveva scoperto, in altri termini, che occorreva distruggere il corallo, al fine di creare una quantità maggiore di corallo. Senza neanche un attimo di esitazione, dopo una simile esperienza, lo scienziato veterano abbandonò immediatamente il suo proposito di andarsene in pensione entro la fine dell’anno. E impugnata la metaforica spranga d’acciaio, iniziò produrre la più significativa parte della propria eredità professionale…

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Parla su Internet l’ultimo erede ninja del leggendario clan Koga

Nello spazio della tipica casa rurale, con gli shoji semiaperti per lasciar entrare il sole della primavera, un uomo in abito tradizionale arringa la sua ospite dallo sguardo rapito. Con un sorriso sereno, a un certo punto, raccoglie un cerchio di metallo con il filo più tagliente di un coltello da cucina: “Vedi come funziona? Si metteva attorno al braccio o al collo del nemico.” Segue dimostrazione pratica, “E nel momento in cui tentava di resistere, avresti tirato con forza… Così!” Morta e viva nello stesso tempo, la ragazza emette un sibilo di apprezzamento. Conta gli arti: uno, due… Quattro, tutto a posto. “Adesso andiamo un attimo in cortile. Ti spiegherò perché Naruto correva con le braccia parallele al suolo…”
Limpido e diretto è lo sguardo della dea del Sole Amaterasu, capostipite ed eterna protettrice della più lunga ininterrotta dinastia di governanti nella storia del concetto di nobiltà umana. In ogni luogo, tranne questo: dove lo splendore dei suoi raggi, colpendo l’appuntita sommità lignea dell’antico santuario di Ise, deviano nel dare luogo a luci ed ombre, che si estendono verso le valli geograficamente adiacenti. Dando luogo alle leggende di regioni popolate da creature subdole dei fiumi e delle foreste, striscianti kappa, possenti tengu e tutta la compagine restante dei superbi mononoke. O secondo una diversa e più credibile interpretazione, soprattutto grazie al filtro della razionalità contemporanea, intere famiglie di quegli uomini e donne che, addestrandosi in segreto, coltivarono le arti oscure, sfruttando tale fama leggendaria per portare a termine un’estrema varietà di missioni. Torniamo per un attimo nell’era del Paese in Guerra (Sengoku Jidai: 1467-1603) durante la quale un susseguirsi di generazioni dei signori della guerra, e particolarmente i più potenti tre individui parte della loro grande famiglia, plasmarono dal Caos l’immagine ideale di un paese totalmente unito e pronto ad affrontare le agitate onde tempestose della storia. Agendo, in molti casi, con l’aiuto rinomato di due “scuole”, se vogliamo veramente definirle tali, ciascuna con il nome derivante da un toponimo dell’odierna prefettura di Mie: Iga e Koga. E voleva la leggenda che diverse fossero le loro tecniche, elaborate tramite lo studio della mente e della psicologia umana. Così che gli Iga, esperti infiltratori e spie, operassero al di là delle linee nemiche per raccogliere prevalentemente informazioni utili ad elaborare un qualche tipo di strategia di guerra. Mentre nel contempo i Koga, più diretti e spietati, preferissero attuare sabotaggi o veri e propri assassini, al fine di minare in modo più diretto la capacità bellica del clan rivale. D’altra parte, tanto popolare resta la visione di un dualismo percepito tra uomini nascosti e tipici guerrieri, con i primi capaci di agire al di fuori delle rigide norme comportamentali del codice d’onore, per colpire i secondi nel modo più imprevisto e doloroso, guadagnandosi istantaneamente un posto d’onore nell’inferno delle loro reincarnazioni future. Ma chi è addentro alla questione, come l’esperto divulgatore Jinichi Kawakami, ben conosce la realtà che permette d’interpretare Iga e Koga come due facce della stessa medaglia. Così come, nella più profonda ed ignorata verità dei fatti (sia all’estero ed in patria) le categorie sociali percepite come particolarmente distinte di ninja e samurai. Laddove se volessimo attualizzarne le caratteristiche, potremmo ben dire che si tratta concettualmente di una distinzione come quella tra soldato semplice e un membro con addestramento delle forze speciali. Laddove il secondo mai e poi mai, si sognerebbe di considerarsi fuori dal proprio stesso contesto di formazione…

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