Ci sono vicende che si ripetono più volte nel corso della storia, indipendentemente dal fatto che chi vi prende parte conosca la città di Troia ed il suo significato strategico nell’epoca classica d’Occidente. Verso l’inizio del V secolo a.C. in Cina, presso la regione del regno di Wu, la principessa straniera sposata con uno dei figli del monarca decise che non voleva più vivere con il marito marito, quindi si mise d’accordo con il seguito di servi e guardie del corpo per fuggire su un carro, in una notte di luna piena, verso la patria paterna, il confinante regno di Yue. Ciò mise immediatamente fine alla fragile pace tra le due nazioni, inducendo a rapidi preparativi per il conflitto finale. Le due armate si affrontarono quindi presso la località di Zuili dove, dopo uno strenuo conflitto, il re Goujian di Yue vide trionfare il suo esercito, riuscendo ad uccidere il re di Wu. Il quale tuttavia, prima di morire, avrebbe detto a suo figlio Fuchai “Non dimenticare mai Yue”. E lui non l’avrebbe dimenticato. Così che tre anni dopo, invadendo e devastando le terre del suo nemico, il giovane sovrano riuscì finalmente a catturare Goujian, facendolo prigioniero e trasformandolo in schiavo per punirlo. Tre anni dopo, per ragioni per lo più politiche, il sovrano fu rilasciato e fece ritorno in patria, dove assunse di nuovo la posizione di preminenza. Ma qualcuno avrebbe detto, con ottime ragioni, che l’esperienza di servitù l’aveva cambiato. Ora che conosceva la futilità delle ricchezze terrene, il re viveva in solitudine, e si nutriva di pietanze più adatte alle classi inferiori. Dormiva su una branda di rami appoggiata sul duro pavimento. E ogni giorno, beveva un intero bicchiere di bile, per mantenere fresca nella memoria l’esperienza della sua lunga umiliazione. Secondo una leggenda, quindi, fu in questo periodo che egli iniziò, in grandi sale sotterranee, a preparare l’armata invincibile che gli avrebbe permesso di avere l’ultima parola.
Le cronache coéve raccontano di come l’esercito del regno di Yue a partire da quel momento fosse capace d’incutere terrore nel cuore dei suoi nemici, poiché era composto di “criminali che si erano suicidati tagliando la loro stessa testa” (si sarà trattato di una metafora?) i quali erano soliti “correre incontro alle frecce alla maniera di persone assetate dopo una lunga marcia”. Il che fu ritenuto per lungo tempo una mera esagerazione degli storici, finché nel 1992, nella regione dello Zhejiang (l’odierno regno di Yue) una signora denominata “nonna Wu” (per quanto ci è dato di sapere, nessuna parentela) non si stancò di sentir ripetere, dai suoi coabitanti del villaggio di Longyou, che gli antichi serbatoi scavati nell’arenaria per l’irrigazione dei campi di cui disponeva l’insediamento erano “senza fondo”. “Tutto deve avere una profondità massima” era solita affermare la stimata anziana, portando infine alcuni dei suoi vicini a condividere la curiosità, e finanziando assieme a loro l’operazione di trasporto dalla vicina città di Jinhua di una potente idrovora elettrica, mediante cui drenare la più grande di queste pozze artificiali. Alla presenza di una piccola folla a cui era giunta la voce, quindi, i tecnici chiamati dalla donna iniziarono a far funzionare la macchina, che dopo diverse ore di lavoro, gradualmente, permise a un distante fondale di riemergere alla luce dimenticata della superficie. Ma quello che nessuno, fra le persone coinvolte, si sarebbe mai aspettato, era il grande ingresso che iniziò a fare capolino da sotto il livello del suolo, verso regioni letteralmente inesplorate del sottosuolo del mondo. Possibile che… Ci sono varie teorie, inevitabilmente. Nessuno sa realmente se le grotte di Longyou, destinate a diventare ben presto famose su scala internazionale, fossero il luogo nascosto in cui re Goujian aveva fatto addestrare il suo esercito di superuomini. Ciò che è certo, è che si tratti di un luogo unico al mondo, la cui effettiva natura esula da una semplice spiegazione storiografica di tipo convenzionale. Perché dopo questo primo episodio, altri seguirono l’esempio di nonna Wu, drenando i serbatoi che si trovavano nei loro terreni. Operazione al termine della quale, le grotte ritrovate furono 24, ciascuna delle quali composta da una singola, gigantesca sala, con un’estensione di 1.000 mq e una profondità di circa 30, e diversi altissimi pilastri di pietra naturale lasciati integri ad arte con lo scopo di sostenere il soffitto. Ma ciò che maggiormente colpì la fantasia dei locali, e degli studiosi accorsi per fotografare l’assurdo ritrovamento, era l’aspetto striato di tutte le pareti, quasi come se queste fossero state accuratamente incise per ragioni inconcepibili, oppure le caverne stesse fossero state create mediante l’utilizzo di un moderno macchinario di scavo. Prevedibilmente, la nutrita combriccola degli ufologi e i complottisti non tardò a farsi avanti con la loro eclettica antologia di spiegazioni.
storia
Da dove ha origine la pesca coi cormorani?
Mentre la canoa procede lentamente sulle basse acque del fiume Li, nella regione autonoma del Guangxi, il pescatore rivolge una breve invocazione agli spiriti dei suoi antenati familiari. Quindi estende la sua preghiera, mentalmente, al Buddha e alla dea Longmu, madre dei cinque draghi che dominano su tutte le creature pinnute d’acqua dolce. Con il tramonto ormai inoltrato ed un cupo crepuscolo, che pesa come una cappa sulla sua imbarcazione solitaria. “È il momento” sussurra a quel punto tra se e se, prima di accendere la lanterna montata a prua che, come lui ben sa, avrà l’effetto di attrarre indifferentemente tutte le specie di ciprinidi e le più rare e succulente carpe rimaste nei pressi del caratteristico villaggio di Yangshuo. Per non parlare dell’occasionale serpente. “Un mero spettacolo per turisti” affermerebbe con cinismo qualcuno. Ma per lui, come lo era stato per suo padre e suo nonno prima di allora, tutto questo è la vita, nient’altro che il mestiere della sopravvivenza applicato alle risorse ittiche fluviali.
Così l’uomo si china verso l’agitato e starnazzante carico della propria imbarcazione: cinque grandi uccelli neri, dal collo lungo e ripiegato come quello degli aironi. Ciascuno di essi, legato con un lungo cordino, che gli parte dal collo ed arriva fino alla struttura della canoa. Ma in pochi attimi, il nodo è sciolto. Conoscendo fin troppo bene le regole del gioco, gli splendidi rappresentanti della specie Phalacrocorax carbo, il grande cormorano o cormorano comune, si gettano a quel punto in acqua, con una formidabile economia di movimenti. Chiunque abbia visto uno di questi uccelli nuotare, in effetti, raramente ha pescato tra i suoi ricordi la visione di una qualsivoglia anatra, gabbiano o martin pescatore, pensando piuttosto all’agilità e le spontanee movenze di una lontra o un castoro. Tutto, nella loro famiglia di esseri, è finalizzato a facilitare la pesca subacquea nelle particolari nicchie ecologiche da loro occupate nel sistema della natura: una notevole flessibilità delle articolazioni, ali sottili che offrono poca resistenza all’acqua e una limitata secrezione di olii da parte della ghiandola dell’uropigio, presente in quasi tutti i volatili, appena sufficiente ad impermeabilizzare lo strato inferiore lasciando invece le piume esterne libere di scivolare in maniera perfettamente idrodinamica e senza fatica. Perciò il pescatore di turno, che avrà addestrato i suoi uccelli a partire dal giorno in cui questi ultimi sono venuti al mondo, saprà con assoluta certezza che essi, una volta in acqua, avranno una capacità di manovra superiore a quella di tutte le possibili prede, iniziando a cercarle con tutta la precisione di un missile a ricerca di calore per il combattimento aereo. O se vogliamo usare una similitudine più pertinente, un siluro guidato a distanza. Cosa che puntualmente accade. Così come puntualmente, ad ogni preda catturata, gli uccelli faranno il loro ritorno sulla canoa, affinché il padrone possa prelevare il pesce direttamente dai loro becchi e deporlo nell’apposita cesta in vimini saldamente assicurata allo scafo. Già, ma come è possibile, in effetti, che gli uccelli non trangugino le loro stesse prede? Il tutto assomiglia al paradosso del cane che deve custodire un panino al prosciutto per il suo padrone. Per quanto una bestia possa essere educata e precisa, dinnanzi ad un cibo altamente desiderabile, sarà sempre l’istinto ad avere il sopravvento. Ed è proprio in questo, che ha origine il fondamentale segreto e l’apparente crudeltà della pesca col cormorano: ciascuno degli uccelli incaricati di una simile mansione, al momento in cui si tuffa, mantiene legata al collo la corda che gli impedisce di ingoiare pesci al di sopra di una determinata grandezza. Ovvero quelli, guarda caso, facilmente vendibili presso il mercato di Yangshuo. È soltanto al termine della sessione, che il dominatore del fiume, una volta recuperati i suoi servitori animali, li slega del tutto, ricompensandoli della fatica con un pesce di medie dimensioni ciascuno. Esattamente come vuole la tradizione.
La pesca col cormorano è una prassi a cui diverse popolazioni del mondo sembrano essere arrivate di propria spontanea iniziativa. A tal punto, è efficiente questo volatile nel praticare la sua attività innata, risultando nel contempo un poco agile volatore, e per questo molto più facile da addestrare. Esistono testimonianze scritte di una pesca simile praticata in Perù attorno al V secolo, tuttavia priva di una sua versione contemporanea. Essa fu praticata anche, per un breve periodo, in Grecia e Macedonia in epoca rinascimentale, soprattutto presso il lago Doiran, da dove la prassi venne importata anche in Francia ed Inghilterra. Ma nell’immaginario comune, così come nell’analisi statistica dei successi ottenuti, stiamo parlando di un’attività prettamente appartenente al contesto estremo orientale, che oltre a diversi villaggi disseminati lungo i fiumi dell’entroterra cinese, trova un’importante espressione ancora più a est, presso le isole dell’arcipelago giapponese.
Il seme al centro di un’industria: la cioccolata
Visto da fuori, sembra proprio un melone d’inverno. Se soltanto quest’ultimo si fosse ritrovato il DNA del suo cultivar incrociato con quello di una misteriosa pianta preistorica, assumendo un aspetto selvatico e strano. Bitorzoluto, crestato, dalla solida scorza. Se lo scuoti, produce un suono: drrr, drrr. E se vi dicessi che questo frutto, in effetti, l’avete mangiato non soltanto una volta, bensì migliaia? Centinaia di migliaia di volte? Ci sono persino buone probabilità che esso rappresenti, a conti fatti, il vostro cibo preferito. Caso vuole in effetti che, per ogni volta in cui i vostri genitori vi redarguivano con il consiglio: “Basta coi dolci, mangia verdure” era loro intenzionale scelta la mancata considerazione di alcune delle componenti vegetali, pressoché imprescindibili, in ogni merendina che si rispetti. Tra cui lo zucchero (canna, barbabietola) la vaniglia (innocente orchidea) e lui/lei, la sostanza Theobroma, dall’espressione greca che vuole significare “[il più] divino tra gli alimenti”. Cacao che nutre, polvere lenitrice, in grado di curare ogni fisima dello spirito mentre assuefà il corpo.
È incredibile, tutto considerato, quanto il consumatore medio di questa delizia, tra le più amate dai palati del mondo moderno, abbia poco presente il suo aspetto al momento in cui prende forma nel mondo della natura. In mezzo alle foreste di Brasile, Colombia e Perù, dove un tempo costituiva una parte inscindibile dei più importanti rituali Maya ed Aztechi. Popoli tra i quali, la preparazione di una simile regalìa a guisa di bevanda era prerogativa e appannaggio esclusivo delle classi al potere, costituendo un segreto gelosamente custodito dai sacerdoti dei templi al centro di ciascuna delle due civiltà. Ma il cacao era anche una merce di scambio, nel senso che i suoi semi piuttosto grandi, oggi chiamati fave, circolavano in forma essiccata al di là dei confini, assolvendo alla mansione di merce di scambio, una sorta di valuta ante-litteram. Bitcoin commestibile, se lo vogliamo. Finché il 15 agosto nel 1502, una data destinata a restare iscritta nella storia della gastronomia, Cristoforo Colombo e suo figlio Fernando, nel corso della loro quarta missione nelle Americhe, catturarono una canoa poco fuori dal territorio di Montezuma. All’interno della quale, con interesse, scoprirono l’alimento che gli riuscì di associare alle testimonianze frammentarie della strana, brodosa bevanda di cui gli “indios” andavano così eccezionalmente fieri. Fu loro scelta, quindi, per non dire imprescindibile prerogativa, inviare il carico verso la corte spagnola dei Re Cattolici. Dove inizialmente, il consenso delle opinioni in merito fu largamente negativo. L’approssimazione europea del cosiddetto chocolātl mesoamericano aveva in effetti un gusto forte ed amaro, essendo inoltre caratterizzato da una consistenza granulosa che lo rendeva difficile da mandar giù. Eppure, ben presto iniziò a circolare la voce che come tutti gli alimenti sgradevoli, il cacao facesse bene alla salute. Che potesse costituire, addirittura, la panacea di tutti i mali! È del resto una cosa nota che la theobromina, tossica per cani e gatti, sia una sorta di droga leggera, in grado di dare assuefazione. Quella che Colombo aveva riportato in Europa, stavolta, era la più leggera, e per questo pervasiva, di tutte le droghe della storia. Riusciremo mai a ringraziarlo abbastanza per questo?
Ma il mondo industriale è anche questo. Dimenticare, sull’onda del sogno post-modernista, la provenienza effettiva di tutte le cose, persino quelle più importanti per noi. Così all’inizio del video qui riportato, in cui lo youtuber H.I.S Survival ci mostra come fare la cioccolata “da zero” ci si può anche aspettare un certo grado di perplessità da parte dello spettatore medio. E persino disagio. Lo sapevate, ad esempio, che la barretta più amata da tutti i bambini è un prodotto della fermentazione, come la soia, la birra, o il cavolo coreano?
Il vero significato della cerimonia olimpica di Pyeongchang
Nella giornata del 9 febbraio 2018, seguendo l’antica usanza popolare in tutto l’Estremo Oriente, la festa è iniziata facendo decollare una certa quantità di luci splendenti. Le tradizionali lanterne cinesi, un tempo rosse di fiamma, oggi del bianco clinico tipico delle luci al LED. Agli spettatori dello Stadio Olimpico, tuttavia, non può essere sfuggita la fondamentale differenza: piuttosto che il solenne silenzio delle feste e dei rituali religiosi, risuonava nel cielo di Corea un possente ronzio, come per la cavalcata di un nugolo di Valchirie Cyberpunk. A pochi minuti dall’inizio, tra lo stupore generale, l’impossibile è capitato: spostandosi in direzione contraria al vento e alla gravità, gli oggetti volanti hanno cambiato direzione. Così che in cielo, pochi secondi dopo… Impossibile sbagliarsi! Figuravano, alti ed irraggiungibili, cinque cerchi olimpici interconnessi tra di loro. E a partire da quelli, seguendo il copione di questo sciame di storni meccanici, è apparsa la figura di uno snowboarder, la punta della tavola diretta verso l’indirizzo della stella del Nord. O almeno, questa era l’idea originaria. Poiché a causa della temperatura di -9 gradi (che non ha impedito all’atleta di Tonga Pita Taufatofua di sfilare seminudo) e dei forti venti locali, si è optato alla fine per uno show mostrato in differita. Dopo tutto, i 1.218 droni “Shooting Star” della Intel, già usati durante lo show d’intermezzo del SuperBowl, non costano esattamente una bazzecola. Né possono sovvertire le leggi implicite della natura, come avveniva per le creature mitiche delle antiche leggende coreane.
Il tema astrale, in modo particolare, era stato reso centrale fin da subito: nella primissima scena dell’evento diretto dal celebre regista teatrale ed attore Yang Jung Woong, in cui i cinque bambini di un idealizzato ambiente rurale, ciascuno vestito di un colore corrispondente ad un cerchio olimpico nonché uno degli elementi della filosofia asiatica (Verde: Legno, Rosso: Fuoco, Giallo: Terra, Bianco: Metallo e Nero: Acqua) trovavano nella neve dell’inverno una mistica sfera dei cieli, che li guidava verso una caverna considerata sacra dai loro antenati. A partire dalla quale, bassorilievi parietali simili a quelli delle tombe dinastiche dei rei Goguryeo (primo secolo a.C.) prendevano vita, facendo il loro ingresso in scena a guisa di vivide creature all’interno dell’arena della kermesse. A partire dalla tigre bianca dell’Ovest Sohoorang, mascotte ufficiale dei Giochi Olimpici, animata da un team di ballerini secondo i ritmi e le modalità della wushi, la danza cinese del leone, creatura tradizionalmente posta a guardia dei templi di tutta l’Asia. Con i suoi tre compagni-marionetta, ciascuno indicativo di una direzione cardinale: la Tartaruga/Serpente del Nord, il Drago Azzurro dell’Est, la Fenice Vermiglia del Sud. Un concetto quaternario, legato anche al succedersi delle stagioni. E così come lo stesso regista era stato famoso per la sua trasposizione coreana di svariati drammi shakespeariani, tra cui Sogno di Mezza Estate, il succedersi delle scene sotto gli occhi del mondo è proseguito con una visione onirica del più profondo inverno, completamente incentrata sul ricorrere del colore bianco: bianco era l’abito delle danzatrici di accompagnamento, come candida appariva la pletora di mostri e animali che hanno iniziato a sfilare dietro le loro code, tra cui figuravano scimmie, una mantide religiosa e un grande orso. Possibile riferimento, quest’ultimo, al mito della creazione in cui una simile creatura fu la prima ad essere elevata dal sovrano dei cieli Hwangun allo stato di essere umano, avendo rispettato la sua direttiva di nutrirsi solamente di artemisia ed aglio per il periodo di un mese. Occasione in cui invece la sua amica tigre fallì, fuggendo nella foresta. L’orso quindi avrà un figlio di nome Tangun, destinato a diventare il primo sovrano della dinastia Joseon (1392 d.C.) Ma il tempo di soffermarsi nelle leggende passate è già quasi al termine, quando dai margini della scena fa il suo ingresso il personaggio destinato a colpire maggiormente l’immaginazione del pubblico e lasciare basito più di uno spettatore, anche di nazionalità coreana: chi sarà mai il misterioso uccello dal volto umano e il cappello di un funzionario di corte, simile a un cigno dalla coda biforcuta, che si dispone al centro dei quattro animali guardiani, per conversare a lungo con i bambini sperduti nell’incredibile mondo della fantasia?