Il fenomeno calcistico dei mini-tornado

Non è soltanto la dichiarazione d’intenti, ossessivamente ripetuta ogni finale o inizio di episodio: “Voglio portare la mia squadra al campionato nazionale!” Né il campo erboso che diventa, grazie agli espedienti del montaggio immaginifico, più lungo di una tratta ferroviaria interurbana, da percorrere rimuginando sulla vita, il senso del futuro, gli eventi pregressi di una vita tormentata nonostante i soli 12 anni di età. Ma piuttosto, i tiri in porta: Drive Shot, Skydrive Shot, Ultimate Flying Drive Shot! Col pallone che diventa ovale, tanta è la potenza che gli ha impresso Holly (al suo paese Capitan Tsubasa) per volare senza falla fino al centro del bersaglio designato. Non per forza in linea retta: gli effetti, in uno dei più celebri cartoni animati degli anni ’80, erano del tutto fuori dal normale. Traiettorie spiraleggianti e quasi sovrannaturali, tali da far pensare all’esistenza di una sorta di campo gravitazionale invisibile, spostato innanzi con la forza del pensiero da un’intera giovane classe di X-Men. O un vento invisibile sempre presente, comandato dal potere sciamanico della sceneggiatura. Il problema della suggestione, tuttavia, è che essa costituisce anche una forma di mimési. E ciò che viene disegnato, a generazioni distanza, può finire per trovare posto tra i minuti della vita reale.
Lillehammer, terra di Norvegia: non esattamente un luogo caldo e secco, conforme al prototipo meteorologico di un tale piccolo disastro. Se non si vuole fare i conti col problema che a voler guardare i fatti, parrebbe colpire la più popolare attività sportiva del mondo: così il 29 aprile scorso, mentre due squadre di ragazzi si scontravano nel passatempo con gli scarpini, un vortice di polvere si è materializzato all’improvviso. E iniziando a muoversi in maniera perpendicolare dal parcheggio, ha smosso un po’ la situazione fra le righe bianche, ha fatto sollevare in aria qualche giacca e vari oggetti personali…Scaraventato a terra un giocatore… E a un certo punto se l’è presa con la porta di metallo, sollevandola e facendola girare. Poi, come vuole la convenzione, si è inoltrato verso l’aperta campagna antistante. Per andare a spegnarsi tra l’erba non tagliata. È uno strano fenomeno, questo, che parrebbe ripetersi in diversi paesi al mondo: Giappone, Corea, Germania, Messico, Brasile… Sempre in un campetto o in uno stadio, sempre durante la partita: il tornado sabbioso, riproduzione in piccolo delle tempeste dell’Oklahoma, Kansas e del Texas settentrionale. Anche in luoghi dove il mesociclone è soltanto una mossa dei Pokémon, e i venti più forti non raggiungono la velocità di una rondine in volo. Avete mai cercato “tornado soccer game” su YouTube? E vi siete mai meravigliati, al numero dei video ritrovati? È una questione in realtà del tutto sensata, che nasce dal concetto stesso dello specifico fenomeno in questione. Che in realtà, non è per nulla ciò che sembra, bensì un dust devil, diavolo di polvere, o vortice di sabbia che dir si voglia. Che non è mai altrettanto devastante (ma non si tratta di una regola) proprio perché non nasce come manifestazione terrigena di un grande vortice su in cielo. E infatti, non si presenta affatto con la forma visibile di una nube. Bensì il prodotto di un tratto di suolo largo e caldo, in quanto esposto al Sole, sopra il quale si verifica un’area di bassa pressione. Al che, l’aria sottostante inizia ad allungarsi verso l’alto, con un caratteristico moto rotatorio. E a quel punto, allargandosi progressivamente, fa cadere verso il basso una quantità equivalente di aria fredda, creando un sistema stabile sul tempo medio, che si sposta molto spesso in linea retta. Con un palese risucchio, in grado di aspirare tutto quello che gli capita a tiro. Ciò che resta da fare, a quel punto, è solamente riprendersi il pallone. E aspettare che la crisi finisca per tornare nel regno della più pura immaginazione.

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La danza delle mille braccia e il suo significato in Cina

Tai Lihua, ballerina rimasta sordomuta all’età di soli 2 anni, è famosa nel mondo per una particolare performance teatrale, diventata veramente internazionale durante lo show della China Central Television per il capodanno lunare del 2005: al rombare di una musica di flauti ed archi, accompagnata da quello che sembra a tutti gli effetti un canto sacro, ella esce da un portale fiammeggiante che rappresenta l’ingresso dell’Inferno, in abiti dorati e con vistosi ornamenti a punta che si estendono dalle dita delle mani. Quindi, rivolgendosi frontalmente al pubblico, cammina fino al bordo più estremo del palco, raccogliendo le mani in un gesto elegante all’altezza del suo petto. Poi, le allarga in un ampio abbraccio, mentre all’altezza delle sue spalle, ne spuntano un altro paio. Ma l’imprevidibilità della scena non termina lì: nel giro di pochi secondi, ai due lati del suo corpo spuntano una miriade di arti, che realizzano una serie di figure ed intriganti gestualità. Completata la prima sequenza, ai presenti viene mostrata la verità: 21 danzatrici anch’esse non udenti, che si nascondevano dietro la schiena di lei, si raccolgono a gruppi di tre, ciascuno dei quali disposto in fila rigorosamente indiana, per continuare separatamente l’improbabile pantomima. Ciascuno impegnato nel rappresentare lo stesso importantissimo personaggio. La “Dea” della Misercordia Guanyin, dalle 11 teste, le mille braccia e quasi altrettanti occhi, altrimenti nota col nome sanscrito di Avalokiteśvara, colei (o colui) che contempla [il male].
Dal punto di vista della Cristianità moderna, il dubbio non può sussistere in alcun modo: la religione Buddhista rientra nel gruppo dei politeismi, ovvero i culti non fondati sull’esistenza dell’unico Dio. Poiché Buddha non è un’entità singola, onnipresente ed onnisciente, bensì un princìpio oscuro che si trova nell’anima di tutti noi, che possiamo arrivare ad illuminare e liberare nel mondo, una volta superato il peso doloroso dell’Esistenza. Per la dottrina fondamentale iniziata da Siddhārtha Gautama, non esiste dunque neppure il concetto di teismo, poiché tutti gli esseri, terreni o ultramondani, sono fondamentalmente la stessa identica, suprema cosa. Eppure, ci sono dei punti di contatto tra le due distanti religioni. Uno di questi è la fiducia che nel mondo siano sempre esistiti, ed esistano tutt’ora, degli individui in grado di esprimere in maniera altruistica la loro probità, ricevendo in cambio il potere salvifico dei loro devoti. Sono costoro i santi, infusi del potere di miracolare la gente osservando le ingiustizie dal Cielo, oppure i santi Bodhisattva, coloro che una volta giunti sulla soglia della suprema realizzazione, hanno scelto di dargli le spalle, e guardando coloro che ancora giacevano intrappolati nel ciclo infinito ed inutile del Samsāra, sono tornati nel mondo per aiutarli. Ce ne sono svariate centinaia, a cui vengono dedicati dei templi in buona parte dell’Asia, più altri innumerevoli e poco noti. Come per i nomi che si affollano nel nostro calendario, ci sono entità Buddhiste che proteggono le madri, i padri, i camionisti, gli idraulici, gli studenti… Una grande proliferazione d’entità specializzate, a cui rivolgersi per determinate situazioni e causalità. Ciò che manca, invece, è la figura uguale per tutti della Madonna. Un’entità supremamente benevola, a cui persino il malfattore possa rivolgersi, nell’attimo fondamentale del pentimento. Eppure… Secondo il Sutra del Loto, il primo e più importante dei testi sacri del Mahayana (“Grande Veicolo”) oggi la corrente più seguita della religione Buddhista, c’è una preghiera che “[…] per un singolo secondo, porterà maggiori benedizioni di tutti i tipi di offerte ad una quantità di Dei pari ai grani di sabbia presenti in tutti e 62 gli aspetti del sacro Gange, per il periodo di una vita intera.” Ed è questa, ovviamente, la preghiera rivolta alla misericordiosa Guanyin.

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Vade retro, uccello sacro della spazzatura

“Costruttori di piramidi…” Pensò Toth Tre Volte Grande, il dio egizio manifesto, trasferito sulla Terra nella forma di un possente messaggero alato: “…Alla perenne ricerca di una costruzione che sorpassi il tempo. Così, questo è ciò che hanno saputo costruire oltre l’isola di Salomone… Tanto distante dal luogo d’origine di tutti noi.” Sotto di lui candida e brillante la struttura quasi vegetale della Sydney Opera House. Dinnanzi ad essa, gli edifici del principale quartiere commerciale del Nuovo Galles del Sud. Nel cielo un nugolo di piume, rese vicini dall’estrema percezione del visitatore: gabbiani, piccioni (con la cresta o senza) pappagalli variopinti, il grido stridulo di un qualche kookaburra. Creature nobili, perché in grado di sfruttare il potere estemporaneo dei venti. Ma ormai prive dell’antica intelligenza, la suprema consapevolezza delle bestie nell’Età dell’Oro ormai trascorsa. “Molto presto, tutto questo sarà mio.” Stringendo attorno il metaforico mantello, quindi, Egli rallentò il silenzioso battito delle sue ali. E con un tonfo lieve, toccò il marciapiede sottostante, tra l’indifferenza generale. Di sicuro, era meglio non dare nell’occhio. Mentre si apprestava a fare colazione, presso il più vicino cassonetto.
Il mondo cambia e quando cambia, è tutta una questione di capacità di adattamento. Non è facile però riuscirci, fra tutti i possibili traguardi, è quello che permette di raggiungere uno stato di grazia sufficiente addirittura a prosperare. Chiedete pure, se rimane qualche dubbio, agli abitanti del più nuovo continente, i cui ambienti urbani sono in genere un pulito esempio di educazione e civiltà. Tranne quando proprio lì è passato, poche ore prima, un esponente della specie Threskiornis molucca, l’uccello noto a molti con il nome breve di ibis bianco. Benché il becco e il resto della testa glabra siano neri, come le piume della coda e le lunghe zampe scagliose, mentre la pelle sotto le ali risulta di un riconoscibile color rosato. Che diventa rosso porpora, nella stagione degli amori. Alto fino a 75 cm, e pesante anche due chili e mezzo, una creatura di certo non priva di una sua latente maestosità. Tanto che in effetti, non saremmo in pochi ad esclamare: “Magari, anche qui da noi…” No. No, non fatelo. Non completate questa frase: poiché leggenda vuole, che al terzo richiamo consecutivo, Toth si manifesti nella luce della Luna che si emana dallo specchio acquatico del lago più vicino. Subito seguìto dall’inarrestabile genìa. E non c’è niente, di più terribile, che un eccesso dell’uccello simbolo della magia. Poiché questi, guidato dal suo istinto di frugar tra il fango con il lungo becco, sensibile e ricurvo, in assenza di paludi si è industriato nel trovare una risorsa nuova. E benché sia ancora sacro, così come lo era per gli egizi che usavano mummificarlo assieme al faraone, non c’è nulla che sia sacro PER LUI. Chiassoso e maleodorante, quest’ultima caratteristica non soltanto dovuta alla sue attività di ladrocinio, ma anche una prerogativa innata della specie, per ragioni evolutive poco chiare, l’ibis bianco è solito creare il proprio nido sulle palme a lato della strada, o tutto ciò che gli riesce di trovare di alto ed isolato, come il tipico lampione suburbano. E da quel momento, sono guai per i vicini: perché non c’è nulla di più rumoroso, e infastidente, che un numero variabile tra 1 e 5 pulcini di questo uccello, che chiamano costantemente i loro genitori usando un suono gutturale e ripetuto, inframezzato da striduli gridi penetranti. Ma quel che è peggio, perennemente sporco, sulla candida livrea che lo caratterizza, di sostanze indefinibili e nerastre.
Lasciate che lo dica chiaramente, dunque: non siamo innanzi ad un volatile particolarmente amato. Anzi, tutt’altro: i soprannomi dati all’ibis dai nativi di questi luoghi variano tra il “pollo della spazzatura” al “tacchino dei cassonetti” e non pochi provano un disgusto immediato alla sua semplice vista. Benché si tratti, visto da lontano, di un uccello piuttosto bello ed aggraziato, soprattutto quando vola in formazione coi suoi simili, creando grandi V nel cielo. Accompagnato da un sentimento che varia tra l’indifferenza e la pacata ostilità, come esemplificato dall’ormai famoso video di Matt Eastwood & David Johns, intitolato “Bin Chicken” in cui la voce fuoricampo del loro amico Rupert Degas, imitando alla perfezione quella del solito naturalista inglese Sir Sir David Attenborough, ne offre una descrizione piuttosto completa sul modello della serie di documentari Planet Earth, nonché apocalittica nel suo messaggio finale: “Quando noi saremo tutti morti, esso continuerà a fagocitare i rimasugli della civilizzazione.” Afferma con enfasi fin troppo seria. “E questo sarà noto, per l’eternità, come il pianeta Bin Chicken.”

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Quando sarà giunta la mia ora, seppellitemi nel pesce d’oro

Era una vera pasta d’uomo. Ha avuto tre mogli che lo amavano, ha dato i natali a 17 figli. Ha posseduto una grande casa, ha fatto il pastore, il boscaiolo, il pescatore. Ha viaggiato in tutta l’Africa e l’Europa. Raggiunta la terza età, si è trasformato in uomo di cultura, e quando scriveva lettere ai parenti, non mancava mai di ricordare i vecchi tempi. L’altro giorno, mentre la pioggia battente cadeva sopra le acque del lago Bosumtwi, noi ci siamo svegliati. E invece lui, non c’era più. La Morte l’ha raggiunto nel sonno, stringendolo nell’ultimo e più duraturo degli abbracci. Privatamente, qualcuno si è rinchiuso in casa a meditare. Tra gli amici è insorto un forte senso di malinconia. Ma quasi nessuno, ha pianto. Ciò perché la fine della vita non è il termine di tutto, a Teshie nella periferia di Accra, né un momento triste per definizione. Si tratta, piuttosto, di un’occasione per raccogliere le idee, accogliere il pretesto e fare festa. E che male c’è… I vecchi membri del villaggio, giunti nello stesso periodo presso le strade asfaltate della grande città, si sono radunati per la processione funebre, in attesa di…Qualcosa. L’ultima consorte con il figlio, nel frattempo, hanno raggiunto un officina assai particolare. Un luogo ameno, rumoroso, con teste variopinte d’animali che si affollano presso l’ingresso. E le ombre varie, di alti attrezzi, sagome a martello, peperoncini grossi quanto un coccodrillo. “Buongiorno Mastro Kwei, buongiorno. Purtroppo, egli ci ha lasciato. Hai terminato ciò che servirà ad accompagnarlo all’altro mondo?” Falegnami, intagliatori, pittori che si mettono da parte. Ponendosi per indicare con lo sguardo quella cosa splendida e agognata: due specchietti, un parabrezza, un grosso cofano d’argento. È una Mercedes Benz, fatta di legno, come quella che il defunto possedeva da anni, e usava il fine settimana per andare in chiesa. Le linee sono fedeli e raffinate, gli specchietti incorniciano quel volto inanimato come si trattasse di un’attrice. Con un gesto carico di sottintesi, il capo dell’officina solleva sui cardini l’intera parte superiore. Al suo interno, il raso rosso (colore della morte) attende il corpo che custodirà per  ogni giorno a venire, da qui fino all’Eternità.
È un’usanza particolarmente legata al popolo nativo di questi luoghi, le genti che prendono il nome di Ga-Adangme, o semplicemente Ga (popolo). Che pur avendo ricevuto, come tanti altri vicini del continente africano prima di loro, il dono straniero del Cristianesimo, restano legati all’antico culto di Nyogmo-Ga, l’Essere Supremo, e i molti spiriti che fanno il suo volere presso i mari, monti e fiumi della Terra. E assieme a simili credenze, mantengono a un qualche livello la preziosa convinzione che i defunti, nel momento del trapasso, non lascino i viventi, ma piuttosto li accompagnino e li guidino attraverso le peripezie della vita. Un motivo in più, se mai ce ne fosse stato bisogno, di lasciare in loro un ottimo ricordo di se. Il che significa, sostanzialmente, inviarli all’altro mondo col possesso di qualcosa, almeno, un grande oggetto che ricordi quello che erano stati in vita. Qualcosa che accresca il loro prestigio, e che connoti l’imprescindibile post-esistenza nella  terra dei defunti. Soprattutto per questo, i funerali in Ghana sono un momento di raccoglimento, ma anche danze, canti e banchetti. Nel corso dei quali, un momento particolarmente significativo e la rivelazione della bara. Che costituisce, molto spesso, un vero e proprio capolavoro dell’arte naïf. L’origine delle bare personalizzate in senso formale è in realtà piuttosto recente, non andando oltre gli anni ’50 dello scorso secolo, benché nei fatti, esistesse qualcosa di simile nell’antica organizzazione tribale della società. C’era infatti l’abitudine, al momento del decesso di un capo, di porre la sua bara sopra lo stesso mezzo di trasporto che egli aveva usato in vita, e talvolta, seppellirlo con lui. E fu proprio così, secondo la leggenda, che nacque questo particolare mondo artistico di un campo tanto inusuale: quando, oltre 65 anni fa, un membro della comunità di spicco aveva chiesto a Seth Kane Kwei (1922-1992) la creazione di un palanchino con la forma di un seme di cacao, cibo da lui particolarmente amato. Poco tempo dopo, quindi, costui morì. E quello fu l’inizio dell’idea: perché quando svariati anni dopo, purtroppo, anche la moglie di Seth dovette passare all’altro mondo, egli costruì per lei una bara con la forma di un aereo, dando seguito al sogno irrealizzato che la donna aveva avuto di viaggiare in giro per il mondo. “Non l’ha potuto fare in questa vita, quindi gli darò queste ali, affinché possa sperimentare una simile esperienza nella prossima.” Fu una frase ad effetto, che fece una grande impressione sui concittadini. Tanto che in breve tempo, in molti accorsero per potersi assicurare un simile trattamento.

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