In un primo momento, capisci che qualcosa non va dallo sguardo dei passanti che si fermano in mezzo alla strada, di fronte all’impianto montano di risalita. Gli occhi spalancati, alcuni parlano sottovoce. I più giovani puntano il dito e sorridono perplessi, mentre qualcuno sembra, addirittura, spaventato. Un bambino, sulla distanza, tira fuori la lingua e solleva la mano con il gesto apotropaico delle corna dei metallari. Fermandoti d’un tratto, provi per un attimo l’istinto di chiederlo con tono stizzito, rivolgendoti all’ineducata collettività: “Che succede, gente, ho qualcosa sul viso?” Ma è proprio mentre gli occhi volgono per qualche attimo verso il suolo asfaltato, che una presunta dichiarazione d’innocenza nello stile di un racconto di Agatha Christie sembra assumere la priorità nella mansione comunicativa dei momenti; poiché rosse, sono le tue mani e ancor più rossi i pantaloni. Davvero, come hai fatto a non accorgerti di tutto questo? “…Possibile che sia ferito?” Ti chiedi a quel punto un po’ perplesso, ripensando alla piccola caduta subìta nell’ultimo momento della tua discesa, poco prima di smontare lo snowboard e metterlo sotto il braccio sinistro. Già, la tua tavola di scivolamento… Ed assassinio, o almeno così sembra in quel preciso momento della giornata. Mentre ettolitri di liquido ematico, dalla provenienza totalmente incerta, grondano da essa come sangue di una testa d’ascia al termine di una battaglia medievale. Improvvisamente immobile, esclami: “Oh, angeli del Cielo. Cosa ho fatto per meritarmi un tale marchio d’infamia tra i viventi?”
Risposta, personalmente: nulla. Dal punto di vista esistenziale riferito alla tua intera specie d’appartenenza, le sue emissioni frutto dell’industria, l’inquinamento dei trasporti su scala globale: neanche. Poiché non v’è (ancora) una correlazione chiara, tra la progressiva diffusione e il conseguente florilegio delle misteriose alghe ricche di carotenoidi, riconducibili principalmente alle immediate vicinanze tassonomiche della specie cosmopolita Chlamydomonas nivalis. Che si trovano alla base del fenomeno alternativamente chiamato “neve al cocomero”, “alla fragola”, “lampone” o “massacro degli innocenti.” Intesi come gli sfortunati cumuli, che appaiono a partire da quel punto ricoperti di un terrificante pigmento tendente alla tonalità vermiglia, tale da farlo sembrare la scena plateale di una serie d’omicidi irrisolti. E non soltanto da un punto di vista metaforico, visto come lo strato candido di antichi ghiacciai e zone limitrofe, in conseguenza di un tale fenomeno, tenda a diventare progressivamente più sottile fino alla futura probabile, ed irrimediabile scomparsa. Un dramma che possiamo rintracciare nel valore otticamente inderogabile dell’albedo, ovvero la capacità innata di quella sostanza di riflettere l’intero spettro dei raggi solari, per l’effetto naturale del color più candido di questo intero Universo. Ma comincia tu per caso, oh demiurgo degli alti picchi, a ricoprire quella massa farinosa di vermigli eritociti (o per meglio dire, questa loro vegetale equivalenza) e non potrai che aspettarti conseguentemente una maggiore propensione a liquefarsi, per l’effetto di raggi solari che piuttosto di essere rispediti al mittente, subiscono il processo di essere assorbiti nel profondo di quel manto. Ed iniziano ad eroderlo dall’INTERNO!
Naturalmente, non c’è alcun intento malevolo in questi particolari appartenenti del phylum dei cloroplasti o “alghe verdi”, come vengono chiamate per antonomasia, dalla natura unicellulare e l’assoluta propensione a formare delle vaste colonie, replicando se stesse fino alla più grande quantità che gli è possibile in funzione delle condizioni ambientali vigenti. Il che parrebbe corrispondere negli ultimi dieci anni a questa parte, in determinati luoghi come le Alpi francesi ed italiane, le Montagne Rocciose, la Groenlandia e persino determinate regioni dell’Antartide, a veri e propri florilegi spropositati, tali da incrementare una possibile narrazione apocalittica sulla fine dei Tempi. Incipiente ora della dannazione, accetta il mio solenne gesto di venerazione! Oh Principe del tenebroso Regno degli sciatori…
rosso
Rossa, grossa: fate spazio alla lumaca più infuocata della Malesia
Che uno sforzo ecologista relativo alla conservazione animale possa concentrarsi, tra le alternative possibili, su una versione regionale del più comune e anonimo dei molluschi, appare poco probabile a dir poco. É quindi una fortuna sotto mentite spoglie, da un determinato punto di vista, il fatto che la specie terrestre Platymma tweediei appaia al tempo stesso come l’interpretazione di una lumaca offerta dal conte Dracula, un progettista di auto sportive degli anni ’90 e il diavolo in persona, dotato di corna portate con piglio elegante nella forma ad “Y” del gesto della vittoria. Un trionfo dell’evoluzione, a suo modo, nel più perfetto adattamento a uno specifico nonché raro ambiente d’appartenenza, quello della foresta pluviale d’alta quota della regione di Cameron, nello stato malese peninsulare di Pahang dove riesce a raggiungere tranquillamente i 15-20 cm di lunghezza, facendone la lumaca più grande della sua nazione. E una di quelle creature che, se non fosse per il tam-tam di Internet, sarebbe conosciuta unicamente da un gruppo di studiosi all’interno di alte torri d’avorio, perché dopo tutto, è sempre e solo una lumaca… Giusto? Cosa può esserci da dire sull’argomento? Il bello di far parte della civiltà delle immagini, tuttavia, è che un qualcosa di magnifico ed appariscente può arricchirsi di una storia, semplicemente per il fatto di far parte del vasto catalogo di forme di vita integrate nella biosfera terrestre. Così volendo utilizzare il nome comune internazionale di questa creatura dall’appariscente piede di colore rosso e la tonalità nero cupo del periostraco che ricopre il suo guscio, caratteristiche che hanno condotto senza esitazioni il consenso online verso l’appellativo Fire Snail (Lumaca di fuoco) potremmo essere indotti a rilevare un’apparente attribuzione di pericolosità, forse allusiva a una qualità velenosa e/o urticante che in realtà, data l’acclarata appartenenza della specie alla generalmente innocua famiglia delle Ariophantidae, possiamo istantaneamente accantonare. Il che ci lascia al cospetto di un animale tanto distante dal concetto di mimetismo da non poter fare affidamento su altro, nella propria strategia d’autodifesa, che un evidente tentativo d’aposematismo, ovvero l’apparenza in qualche modo sgargiante o fuori dal comune, che idealmente induce nel nemico un senso istintivo, per quanto immotivato, di diffidenza.
Per quanto concerne l’ecologia, nella nostra progressione investigativa, possiamo dunque facilmente presumere una preferenza per la materia vegetale ancora viva, o in alternativa putrescente, benché simili lumache, data la loro inerente rarità e collocazione paesaggistica remota, non costituiranno tanto presto un problema per alcun tipo di giardino costruito dagli umani. La Platymma t. piuttosto, dato il bisogno del clima estremamente particolare della regione di Cameron, con formazione di nubi tra gli arbusti data un’umidità quasi mai inferiore al 85% e una temperatura relativamente fredda che oscilla tra i 15 e i 25 gradi, è il prototipo di un abitante elettivo che non ha capacità di sopravvivere al di fuori del suo ambiente di provenienza, dal quale non potrebbe ad ogni modo allontanarsi causa il suo essere, per l’appunto, una lumaca. Il che lascerebbe intendere una vita serena e indisturbata dal caotico tram tram della vita urbana moderna & contemporanea, giusto? Sbagliato perché come spesso capita, nel momento in cui tutto sembra andare per il meglio, sono i guai stessi, in una maniera oppur l’altra, che si avviano sulla strada nel tentativo di raggiungerti e influenzare la progressione della tua storia…
Il dolce profumo di un villaggio dell’incenso vietnamita
Molto probabilmente l’impressione viene dal cappello: lo stereotipato copricapo conico, da sempre visto in Occidente come parte dell’abbigliamento degli agricoltori tra i confini delle vaste terre all’altro capo dell’Asia. Detto ciò, è innegabile che questa immagine possa creare un senso di entusiastica perplessità: “Rosso? Non sapevo che lo fosse! Ma si tratta di una pianta? Piccoli cespugli? Che genere d’incenso è questo?” Quel tipo di domande sul tema dell’ovvietà per rispondere alle quali tanto spesso Internet risulta sorprendentemente inefficace. Poiché nessuno appare pronto, o in qualsivoglia incline, a dissolvere il carattere di una leggenda. Come quella, riassunta in poche inquadrature, del villaggio Quang Phu Cau nei dintorni meridionali di Hanoi, forse le capitali mondiali del tipo di essenza utilizzata in molte religioni, come ausilio al gesto estremamente umano della preghiera. Quell’incenso cui in Europa normalmente siamo inclini ad associare, più di ogni altra possibile cosa, la resina sottoposta a lavorazione dell’albero del genere Boswellia, chiamato fin dai tempi antichi olibanum, comunemente detto franchincenso. Laddove vuole il caso, e l’evidenza, che nei molti secoli di storia e soprattutto all’altro capo del mondo, molti siano gli estratti ed i sistemi usati per raggiungere lo stesso fine, soprattutto tra quelli considerati fondamentali dall’omni-pervasiva medicina cinese: legno di sandalo, aloe, rabarbaro officinale, linfa dell’albero della gomma Styrax, ambra fossile e Syzygium aromatico, albero sempreverde dell’Indonesia. Molti dei quali pronti a convergere, grazie a una rete commerciale antica quanto la penisola dei draghi, presso questo luogo antistante alla sua capitale. Ove il sistema produttivo utilizzato, semplice quanto efficiente, vede la riduzione in polvere ed il successivo impasto degli ingredienti profumati e pronti da bruciare, successivamente plasmati nella forma di specifici elementi: cubi, piccole piramidi o coni arrotolati, ma soprattutto quella maggiormente pratica per le abitudini buddhiste, il bastoncino ligneo per la preghiera. Ed ecco così svelato, l’arcano. La fabbricante dell’immagine mostrata in apertura, chinata e all’opera nel mezzo di tanti surreali piccoli “cespugli” è in realtà intenta a rassettare, e catalogare attentamente, un vasto numero di asticelle di bambù, colorate tradizionalmente di rosso prima di essere disposte in tale modo affinché i raggi del sole possano raggiungerle tutte assieme, favorendone la seccatura e il conseguente completamento del processo di fabbricazione. Per occasioni particolari, come la celebrazione del capodanno lunare o specifiche feste di primavera, ma anche durante il resto dell’anno, a valido supporto di uno dei materiali considerati irrinunciabili per qualsivoglia attività votiva locale di svariate provenienze religiose, inclusa la preghiera o celebrazione degli antenati, divinità locali ed ovviamente il Buddha stesso, non tanto per l’ottenimento di favori mistici quanto al fine di riuscire a favorire quello stato d’animo che ci dovrebbe far sentire più vicino a lui. Ed appare del resto innegabile come la realizzazione di un compito tanto elevato, per quanto semplice e ripetitivo, non possa che finire per conformarsi nettamente verso quell’ideale di armonia e precisione che tanto spesso, idealmente, dovrebbe condurre verso il singolo momento d’illuminazione tanto ricercato dai filosofi delle discipline Zen. Verso cui persino una semplice foto, talvolta, può riuscire a far da chiave dell’alto portone…
Settembre a Sumatra, stagione dei monsoni e del cielo di sangue
Fummo cauti, da principio. Attenti a quella linea in grado di dividere la ragionevolezza dal pericolo e dall’imprudenza delle idee. Finché un poco alla volta, la nuova normalità finì per prendere il sopravvento. Il che significò, semplicemente, pretendere qualcosa in più. Qualche metro, un paio di chilometri ed infine lo spazio maggiore di un’intera isola ragionevolmente inadatta all’agricoltura. Finché una mattina ci svegliammo, in un mondo diverso: l’alba era diversa, la vita era diversa, addirittura il cielo era di un altro tipo. Rosso, come il fuoco eppure tenebroso, al tempo stesso. A guisa ragionevole di quello che la scienza non avrebbe mai potuto definire, per sua predisposizione, inferno sulla Terra. Benché linee di contatto, a conti fatti, ve ne fossero diverse. Il caldo umido e opprimente, accompagnato da problemi respiratori. L’irritazione degli occhi e della pelle, giunte direttamente a contatto con un “diverso” tipo di smog. Non il prodotto del semplice inquinamento, stavolta, bensì un effetto collaterale di quello che potremmo facilmente identificare come un metodo indiretto, e molto lento, per distruggere la vita di molti innocenti. L’ultimo e potenzialmente risolutivo metodo per il suicidio collettivo dell’umanità.
Come primo impatto, una notizia “curiosa” del tipo che riesce facilmente a rimbalzare sulla piazza del moderno Web, specialmente se accompagnata da immagini capaci di colpire l’immaginazione: quelle riprese da comuni abitanti della regione di Jambi, nella parte orientale della terza isola più grande d’Indonesia, sin dall’epoca del Rinascimento centro di tutti i commerci condotti nei dintorni dello stretto della Malacca. All’interno delle quali è possibile ammirare, se così vogliamo dire, le inusitate condizioni climatiche vissute in questi giorni dagli abitanti. Ma c’è davvero molto poco da stare allegri dinnanzi allo spettacolo di un luogo trasformatasi improvvisamente in provincia distaccata del pianeta Marte, come si evince in maniera evidente dal post su Twitter dell’utente Zuni Shofi Yatun Nisa, il primo a diventare virale online su scala internazionale: “É giorno e non notte. É la Terra, non è lo spazio. Gli umani respirano coi polmoni, non le branchie. Abbiamo bisogno di aria pulita, non ci serve il fumo!”
A chi potrebbe rivolgersi, dunque, un simile grido di allarme, se non ai grandi agricoltori e all’industria dello sfruttamento del territorio, che come ogni anno verso il sopraggiungere dell’autunno ormai da parecchie generazioni, mette in atto un piano particolarmente subdolo e spregiudicato, causa della situazione iterativa del South Asian haze (foschia asiatica meridionale). Che dovrebbe ricordarci in maniera piuttosto diretta l’attuale ed assai più pubblicizzata situazione che vige in Brasile, coi fuochi dell’Amazzonia che ardono da molti mesi, causa stessa implementazione della tecnica di disboscamento comunemente chiamata slash & burn. Con una sola, fondamentale differenza: l’apertura dell’Occhio di Sauron sull’Indonesia e il diffuso colore vermiglio dell’atmosfera risultante, in grado di far porre una lunga serie di domande a chiunque risulti direttamente coinvolto, tra un colpo di tosse e l’altro. Non ultima delle quali, il “perché” di un fenomeno tanto apparentemente assurdo…