Pioggia sacra e volti extraterrestri sulle pietre degli spiriti della Creazione australiana

Nella lingua dei Worrora, uno dei molti gruppi culturali distinti che compongono l’etnia aborigena del Nord-Ovest australiano, l’importante termine Wandjina contiene nella sua radice la parola “jina” che vuol dire “piedi”. Un possibile riferimento all’atto sacro di camminare sulla Terra, ma anche il modo in cui coloro che in tal modo vengono identificati, sorprendentemente, erano soliti comportarsi nell’epoca del Sogno. Un tempo prima della storia e della preistoria, quando giorno e notte non riuscivano a succedersi nella maniera a noi familiare, ed esseri venerandi che erano, ed al tempo stesso non erano Dei, frequentavano gli stessi lidi dell’umanità primordiale. Creature provenienti, in base alle credenze folkloristiche di queste parti, dal cielo stesso e questo fatto non è poi così difficile da contestualizzare a posteriori. Quando si prende visione dei dipinti parietali realizzati, più di 4 millenni a questa parte, nell’intera regione di Kimberley e non solo, in cui figure antropomorfe appaiono vestite di abiti avvolgenti simili a tute di volo, e potenziali aureole che ricordano, fin troppo da vicino, dei veri e propri caschi spaziali. Antichi alieni in altri termini, per lo meno se osservati con l’attuale lente della speculazione, un’ipotesi ulteriormente resa percorribile quando si prende atto della rigida e imprecisa trasmissione di nozioni effettuata unicamente tramite le storie e le canzoni di questa gente. Per cui i Wandjina sono, ancora oggi, dei protettori del mondo e della natura, cui rivolgere i propri riti di preghiera, laddove un tempo avevano probabilmente dei significati molto più specifici ed identità distinte tra loro. Come la capacità di far piovere a comando, una dote simbolicamente raffigurata attraverso il puntinismo dell’abbigliamento di alcuni, possibilmente allusivo a gocce che provengono da nubi sovrastanti. Le stesse caratteristiche atmosferiche simboleggiate dal colore bianco e le teste fluttuanti, prive di corpo, che compaiono in determinate composizioni del canone che ci ha raggiunto ragionevolmente invariato. Il che rientra, ma non può essere del tutto dato per scontato, nel particolare ambito di riferimento, quando si considera la posizione tutt’altro che inaccessibile di questi muri e caverne, nonché l’abitudine dei Worrora, ma anche dei vicini Wunambal e Ngarinyin, a tracciare e ricalcare continuamente i disegni, al fine di mantenerli appropriatamente vividi e permettergli, secondo una credenza ancestrale, di “far figli” ovvero essere affiancati da nuove sincretistiche presenze. Ragion per cui la casta di artisti a cui è permesso di raffigurare tali spiriti può farlo solamente dopo un periodo di meditazione e apprendimento, percorso spirituale capace di durare anni se non decadi, poiché ritrarre un Wandjina significa essenzialmente crearlo e dargli nuovamente vita. Un gesto di somma e importantissima responsabilità, sia sul piano tangibile che quello immateriale…

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Il significato della guglia che sovrasta le dimore tipiche dell’isola di Sumba

Nelle circostanze cittadine contemporanee, l’espressione più elevata di prestigio è il grattacielo. Edificio funzionale alla dimostrazione che niente può costituire un limite, quando l’ambizione irriducibile dell’uomo entra in contatto con il punto di vista razionale dell’ingegneria. Una visione di cosa sia davvero importante in campo architettonico che, da un particolare punto di vista, emerge oltre gli alberi delle fitte foreste indonesiane, presso l’eponima terra emersa nell’arcipelago dell’arcipelago, l’agognata e lungamente incontaminata isola di Sumba. Patria di un gruppo etnico, ed il relativo sistema culturale e religioso, capace di sopravvivere alle influenze delle principali religioni monoteiste nonostante le pressioni governative di vecchia data, che considerano l’antica disciplina e le dinamiche del cosiddetto Marapu come una precipua “mancanza” di alcun tipo di devozione. Il che al di là dell’astrazione formale, non potrebbe essere più lontano dalla verità quando si considera la stretta integrazione di questo ancestrale culto degli antenati con stile di vita e soprattutto la progettazione dei luoghi abitabili da parte di queste genti indissolubili da un’importante prassi tradizionale. Il cui nome nella lingua locale, uma mbatangu significa in effetti: “casa appuntita” con diretto riferimento al colmo dalla solida struttura lignea e un’impermeabile copertura di paglia, capace di raggiungere e superare agevolmente i 10 metri d’altezza. Una visione indubbiamente singolare, quando si considera l’estensione di queste dimore simili a imponenti capanne, costituite da un quadrato di non più largo di 15 metri e la maniera in cui un intero villaggio, composto da dozzine di queste strutture, possa presentare un letterale skyline ribassato, eppur vagamente riconducibile a quello di città come New York, Tokyo o Dubai. Per una sorta d’inevitabile competizione in termini di prestigio, da parte di ciascun gruppo familiare allargato responsabile della costruzione degli edifici, ma anche una sincera necessità psicologica relativa all’accoglienza di energie mistiche, responsabili di offrire protezione ai loro devoti e tutti coloro che continuano ad eseguire i rituali appropriati. Importante filo conduttore della religione Marapu è che i nostri predecessori continuino idealmente a sopravvivere. Necessitando di uno spazio degno, ed adeguatamente sopraelevato, che possa competergli nella perpetua prosecuzione dei giorni…

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L’enigma incendiario dei popoli che fondevano la pietra delle antiche dimore

Attraverso secoli e millenni inverecondi, sotto l’egida di Dei vendicativi e nel trionfo delle basiche pulsioni animalesche, non è mai cambiato il metodo fondamentale usato dagli umani per imporre le proprie verità nel mondo. Forza d’intenti e convinzioni, quell’identità possente ed immutabile di chi è convinto. Ma soprattutto ed al di là di ogni possibile punto di vista, la forza inarrestabile delle armi. Strumenti antichi come quelli che governano l’istituzione stessa della civiltà, spesso identificati in qualità di metodi per elevarsi e controllare la natura. Primo tra tutti, il fuoco. E i segni bellici del suo utilizzo, l’energica possenza concentrata ove un qualcosa che era stato necessario, ora sognava di essere distrutto. Come cicatrici senza tempo, cumuli di pietre parzialmente annerite si presentano in alcuni luoghi dell’Europa settentrionale. Ma soprattutto in Scozia, con gli esempi più famosi a Dun Mac Sniachan (Argyll), Benderloch (Oban), Craig Phadraig (Inverness). La cui caratteristica fondamentale, a ben vedere, è la collocazione paesaggistica sulla cima di elevate colline, in quanto pratici residui di fortezze utilizzate dai remoti predecessori della collettività presente. Nulla spiega, tuttavia, l’esatta ragione e soprattutto il metodo dell’implicita modalità impiegata in questo tipo di trasformazione edile. Giacché ad un’analisi più approfondita, come praticata per la prima volta nel 1777 dall’archeologo John Williams, queste rovine risalenti all’epoca della Preistoria presentano profonde alterazioni che vanno ben oltre tale cromatismo delle rocce dioritiche soggette al trascorrere di incalcolabili generazioni umane. Con parti fuse al punto di apparire lucide, simili a smalti polverosi, che fluiscono in forme organiche del tutto degne di figure e ambientazioni del fantastico contemporaneo. Il che significa, in termini di tipo più conciso, che sono stati sottoposti ad un processo antropogenico di vitrificazione.
Qualcosa di difficile ed inevitabilmente complesso da implementare, soprattutto sulla scala degli svariati centinaia di metri coinvolti nel caso di talune cinte murarie; considerate, a tal proposito le temperature necessarie alla fusione dei graniti, agevolmente superiori al migliaio di gradi. Non così difficili, nell’Età del Ferro, da raggiungere all’interno di un forno per la ceramica. Ma tutt’altra cosa è farlo sulla scala di elementi architettonici di proporzioni tanto significative. Il che si affrettò ad aprire, già nella tarda epoca dei Lumi, la questione tanto che in un celebre studio sperimentale di Childe e Thorneycrof presentato alla Royal Society nel 1937, si esordisce con la locuzione: “A tal punto la questione dei forti vitrificati ha occupato le sessioni precedenti di questa prestigiosa istituzione, da non portarci a ritenere necessarie ulteriori spiegazioni di cosa siano. Ecco, dunque, ciò che abbiamo scoperto…”

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Volto da troll, occhi da granchio: la civiltà fluviale delle statue di bronzo del Sichuan

Assoluta unità d’intenti, parametri culturali e caratteristiche inerenti: questa è l’immagine fondamentale della Cina arcaica, per come viene tradizionalmente integrata nel sistema cronologico delle dinastie successive. Ma mentre nella valle del Fiume Giallo regnavano le prime dinastie di Xia, Shang e Zhou, a migliaia di chilometri nell’entroterra di uno dei paesi più grandi del mondo, l’iconografia del sovrano sembrava possedere tratti somatici del tutto distintivi e profondamente diversi. Una testa squadrata con larghe orecchie a punta. Il naso camuso con le froge spiraleggianti. Ed un singolare paio di peduncoli oculari dalla forma sporgente. Accantonando dunque le tipiche elucubrazioni sugli antichi alieni, chi era esattamente il personaggio che figura nei soggetti delle statue bronzee della cultura di Sanxingdui o del “Tumulo delle Tre Stelle”? Ritrovato, assieme ad innumerevoli altre figure umane dalla forma flessuosa e sottilmente inumana, in pose che vanno da atteggiamenti rilassati a imperiosi gesti di dominio, per non parlare delle innumerevoli chimere fantastiche, giade votive e maschere mostruose facenti parte di quel sito archeologico, inizialmente scoperto nel 1927 ed in seguito connesso alla collocazione della capitale di una nazione precedentemente ignota, con mura poligonali della lunghezza di oltre 2.000 metri per lato. Principalmente per l’assoluta quanto inspiegabile assenza di frammenti scritti, diversamente da quei regni dinastici settentrionali, di cui sappiamo molto grazie ai loro annali, le ossa oracolari di tartaruga, le iscrizioni funebri sui monumenti sepolti. Benché almeno un appiglio storico possa essere desunto, per inferenza, dalla corrispondenza geografica all’area del regno semi-mitico di Shu, che sappiamo aver costituito un partner commerciale per i primi Imperatori, con il proprio centro economico ed amministrativo in corrispondenza delle pianure dell’odierna Chengdu. A partire dal passaggio tra il terzo e secondo millennio a.C, grosso modo, sebbene molti dei manufatti più caratteristici ritrovati a Sanxingdui risalgano alla tarda Età del Bronzo (decimo/undicesimo secolo) ovvero la quarta fase nella lunga storia d’utilizzo di quest’area, quando i suoi abitanti disponevano di risorse e conoscenze relative alla lavorazione metallurgica prossime allo stato dell’arte. Oltre ad una predisposizione creativa notevolmente sviluppata, se si osserva la quantità di dettagli presenti nei pezzi più grandi, che includono la prima statua in bronzo della storia di una figura a grandezza naturale, di un sacerdote, con gli stessi occhi bulbosi e orecchie da elefante, intento a stringere un oggetto oblungo andato ormai da lungo tempo perduto. Uno degli oggetti forse più memorabili del sito, ma certamente non l’unico degno di essere citato esplicitamente…

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