L’architetto surrealista delle case da tè volanti

Nel 2006 alla Biennale di Architettura di Venezia, nella zona dedicata al Giappone, si presentò sotto gli occhi del pubblico qualcosa di inaspettato. Ad opera di un autore mai visto né sentito prima in Occidente, un’elaborazione sul tema de “la città” con modellini di palazzi ricoperti di tarassaco e piante di porro, mentre una capanna a forma di cupola, intessuta in fibra di riso, invitava i visitatori ad entrare, rigorosamente non prima di aver lasciato rigorosamente da parte le proprie le scarpe. All’interno, disposte lungo la singola parete circolare, una serie di fotografie scattate per lo più a Tokyo, rappresentanti svariati soggetti dal variabile grado d’importanza: qui un piccolo edificio in stile occidentale, apparentemente fuori luogo tra un tempio buddhista e la macchia di ciliegi piantati a scopo rituale, lì l’impronta lasciata da un albero sopra un muro, crescendo nella totale indifferenza dell’attività umana. In una mostra-nella-mostra, intitolata alla sua pluri-decennale ROJO, ovvero secondo l’acronimo giapponese, la “Società dei detective architettonici”. Eppure a quell’epoca, Terunobu Fujimori era già un autore affermato nel suo paese, con svariati libri pubblicati sul tema degli spazi abitativi attraverso le epoche, molti anni d’insegnamento presso l’Istituto di Scienze Industriali di Tokyo e frequenti ospitate televisive, per spiegare particolari sfaccettature d’importanti scenografie urbane. Per non parlare della sua tardiva carriera di vero e proprio architetto, iniziata a 46 anni mediante il rinnovamento del Museo Storico del Jinchokan a Chino, prefettura di Nagano. Una prima opera a partire dalla quale, gradualmente, era diventato famoso per uno stile estremamente particolare e riconoscibile, fondato su valori estetici e materiali per lo più primitivi. Tanto che lui ama affermare, durante le interviste, che molti dei suoi edifici potrebbero anche risalire all’epoca dell’Età del Bronzo, senza sostanziali differenze nei materiali, metodi ed effetto complessivo del prodotto finito.
E fu forse quello, il preciso momento in cui l’eclettico ingegnere ed artista timbrando il biglietto della sua visibilità internazionale, iniziò ad elaborare una sua tematica espressiva, potenzialmente mirata ad esportare i valori di una particolare estetica nipponica verso le nazioni che si dimostravano maggiormente aperte all’idea, sfruttando un tipo di struttura che può essere definita, sotto qualsiasi punto di vista, come puro appannaggio del paese del Sol Levante: la casa adibita a bere l’infuso di Camellia sinensis. Che non è soltanto un luogo, presso cui radunarsi con gli amici magari per trascorrere qualche ora in lieta conversazione, ma un vero istituto sacrale e quasi liturgico, creato a partire dalle idee del monaco Zen Eichū, che aveva riportato questa sostanza nel IX secolo, considerata propedeutica alla meditazione, direttamente dal vasto Paese di Mezzo, ovvero la Cina. Un piccolo edificio noto anche come “la stanza da Tè” (茶室 – Chashitsu) che Terunobu ha imparato, attraverso gli anni, a rielaborare nella maniera più selvaggia e sorprendente, spesso mostrando un’insolita propensione a posizionarla lontano dal suolo, mediante metodi di sua speciale concezione. Il più lampante e conosciuto esempio potremmo trovarlo presso la sua proprietà a Chino, identificato da un appellativo che è già tutto un programma: Takasugi-an “La casa da tè costruita troppo in alto”, nient’altro che una stanza larga esattamente quattro tatami e mezzo (2,7 metri) ricavata nel 2003 da un cubo di bambù e intonaco, situato apparentemente in bilico sopra due contorti alberi di castagno, trapiantati qui a partire da una vicina montagna ed almeno apparentemente del tutto privi di fronde. L’aspetto vagamente sghimbescio dell’improbabile edificio, sormontato da un lucernario con l’interno rivestito in foglia d’oro, fa da contrappunto al suo ambiente per lo più scarno, fatta eccezione per il piccolo focolare adibito alla preparazione della sacra bevanda. A poca distanza da un simile edificio, qualcos’altro attira lo sguardo: una sorta di oggetto ellissoidale sospeso con dei cavi a quelli che sembrerebbero a tutti gli effetti essere dei semplici pali della luce. Ma che in effetti, gli donano un carattere ulteriore: poiché siamo di fronte a niente meno che la “Barca di Fango”, un altro luogo di raccoglimento spirituale che viene anche presentato come l’unico esempio in tutto il mondo di struttura sospesa in cui i cavi passano sotto il pavimento, piuttosto che all’altezza del soffitto. Nient’altro che l’ennesima, personalissima innovazione di questo autore, che spesso deve rinunciare all’aiuto di operai professionisti in forza delle sue soluzioni mai viste prima, preferendo rivolgersi direttamente ai suoi amici e studenti, per implementare metodologie semplici e in linea con il suo categorico rifiuto della modernità. Il che, del resto, non gli ha precluso l’opportunità di porre la propria firma su edifici più utili alla comunità, vasti e adibiti a specifiche funzioni…

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Nel monastero sospeso oltre il baratro della montagna

I grandi eroi definiscono l’ideale cavalleresco all’interno di un epoca, ciò che un popolo considera meritorio sopra ogni altra caratteristica, nei personaggi capaci di lasciare un segno nella storia. Queste persone infuse di un potere ulteriore, spesso sovrannaturale, che può permettergli di compiere imprese del tutto al di fuori della nostra portata. Gente come il monaco Liao Ran, che secondo una leggenda del popolo dei Tuoba, avrebbe costruito completamente da solo il “Monastero sospeso nel grande vuoto” (Xuánkōng Sì) edificio incluso più volte nell’elenco dei 10 più precari, oppure pericolosi edifici del nostro intero pianeta. Strana definizione, per un qualcosa che resta perfettamente stabile da un periodo di oltre 1500 anni, grazie all’incredibile scienza posseduta dal suo costruttore. Non poi così strana, quando si prende atto di dove sia stato eretto, e la natura delle sue stesse fondamenta. Se così vogliamo scegliere di chiamarle. La residenza monacale in questione, ormai da tempo trasformata in un tempio oggetto di lunghi pellegrinaggi, sorge in effetti su un’ampia serie di sottilissime palafitte lignee, conficcate nel fianco stesso del picco di Heng nella provincia dello Shanxi, una delle cinque montagne sacre della Cina, ad un’altezza di 75 metri dal suolo. E per quanto ci si tenti di ragionare sopra, o si scelga d’attribuire realmente l’assistenza del Buddha Sakyamuni all’ineccepibile architetto della situazione, sarebbe impossibile arrivare alla conclusione che esse riescano a sostenere il peso di queste 40 stanze, con 80 sculture di Dei, demoni e sovrani aggiunti nel tempo, appartenenti a ben tre dottrine religiose differenti. Lo Xuánkōng è in effetti l’unico sito al mondo ad essere dedicato egualmente al Taoismo, Confucianesimo e Buddhismo, quest’ultimo la più grande innovazione culturale, importata attraverso il commercio durante la dinastia dei Wei Settentrionali (386-534 d.C.) ritenuta l’epoca della sua prima edificazione. Ma non c’è niente di proveniente da fuori, nella tecnica alla base della surreale disposizione di queste sale; si potrebbe anzi affermare, senza alcun timore di stare esagerando, che il metodo impiego sia la quintessenza stessa del sapere tecnologico del popolo sinizzato dei Tuoba, ed attraverso un dominio militare destinato ad estendersi a tutto il territorio della Cina (Tuoba Gui sarebbe passato alla storia come il primo imperatore degli Wei, Daowu).
Questo perché si trattava, in maniera forse non del tutto evidente, di una soluzione dall’impiego per lo più militare. Avete presente la Grande Muraglia del 215 a.C? Osservando la Storia, coloro che avevano testimoniato l’efficacia di una tale opera monumentale nel tenere lontane le orde dei barbari settentrionali, avevano da lungo tempo compreso il nesso cruciale del suo segreto: non tanto l’essere invalicabile, o impossibile da scavalcare, quanto la capacità di offrire una strada sicura, lunghissima e perfettamente livellata, per l’invio delle truppe attraverso le enormi distanze di questa futura nazione cinese. Attraverso valli, pianure, fiumi… Montagne. Ma poiché non tutti potevano disporre della manodopera virtualmente illimitata del primo grande Imperatore, la figura al tempo stesso riverita e temuta di Qin Shi Huang, ben presto si iniziò ad adottare soluzioni di un tipo differente. Una di esse era la cosiddetta strada del cielo, un approccio consistente nello scavare fessure nel fianco dei massicci montuosi, ed infiggere al loro interno delle possenti travi. Sulle quali, a loro volta, trovavano posto delle passerelle in legno, sufficientemente ampie e solide da sostenere un’intera schiera di uomini in marcia. Ancora oggi, il segno della passata esistenza di simili strutture è visibile in molte delle zone più montuose della Cina, tra cui le province dello Shanxi, dello Hunan e dello Shandong, grazie ai tasselli residui innaturalmente quadrati o rettangolari faticosamente scavati da orde di manovali esperti, tramite l’impiego di nient’altro che mazza e cesello. In alcuni casi moderni, gli antichi viali sono stati sostituiti con passerelle per attirare i turisti, vedi le numerose “camminate trasparenti” che spesso attirano l’attenzione del vasto popolo di YouTube. Ma l’interpretazione, per molti versi, più estrema dell’intera faccenda è probabilmente questa dell’unico monastero pluri-sincretista, una struttura edificata con più di una singola finalità.

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