Fin da tempo immemore, similitudini e metafore ci aiutano a trovare un nome per le creature di questa Terra: grillo [come una] talpa, topo cavalletta, rana leopardo, foca elefante, ragno cammello e così via dicendo.
È tuttavia piuttosto raro, persino una volta considerata la fervida capacità associativa degli umani, che un particolare tipo di costrutto architettonico, inerentemente associato ai luoghi di culto dell’Estremo Oriente ricorra nell’appellativo universale di una larva d’insetto molto comune e diffusa in tutti i continenti escluso l’Antartide. Dopo tutto, quante persone in Ecuador, Sud America o Madagascar, sono abituati a fare continuo ricorso nella propria immaginazione al concetto di pagoda? L’edificio spesso simile a una torre, caratterizzato da una serie di tetti sovrapposti, ciascuno rappresentante uno stato di elevazione verso il raggiungimento buddhista dell’Illuminazione. Eppur sembra proprio che la somiglianza, tra un tale concetto e l’imitazione miniaturizzata che ne produce il tipico bruco appartenente alla vasta famiglia degli Psichidi (nome internazionale: bagworms) fosse semplicemente troppo attraente per poterne fare a meno, nell’iter linguistico para-scientifico mirato a trovare un codice d’identificazione che fosse al tempo stesso immediato, nonché sufficientemente descrittivo.
Soprattutto per quanto concerne il primo e secondo stadio della loro esistenza, quando ancora non più lunghi di qualche insignificante millimetro, i vermetti in questione atterrano trasportati dal vento e i lunghi filamenti di seta che producono sulla pianta che dovrà ospitare la loro neonata colonia, iniziando a fare incetta di tutto ciò che gli riesce di trovare nelle categorie altamente desiderabili di: foglie secche, rametti, scorie biologiche, pezzettini di corteccia… Tutto prontamente raccolto e saldato con la propria formidabile saliva appiccicosa, con lo stesso obiettivo del paguro che s’appropria della conchiglia (o nel mondo moderno, lattina) finalizzata a proteggerlo dall’incrollabile fame dei predatori oceanici o marini. Un piccolo cumulo di rifiuti in grado di trasformarsi in vero e proprio tesoro, spiccando anche per la dimensione sproporzionata rispetto al proprietario/occupante nella preminenza di una sagoma frastagliata ed irregolare, capace quasi di fare tenerezza per l’ingenuità apparente di colui che vorrebbe usarla, evidentemente, allo scopo di passare inosservato. Se non che, attraverso le fasi successive della propria vita larvale raggiunte verso la fine dell’estate dopo una serie di mute, le suddette “borse” o “teche” si mostrano cresciute di conseguenza, con un aspetto complessivamente non dissimile da un cono legnoso di gimnosperma, quell’oggetto altamente riconoscibile che siamo convenzionalmente inclini a chiamare pigna. E come noi gli uccelli, i pipistrelli, i roditori onnivori e tutte quelle altre creature naturalmente capaci d’apprezzare un rapido pasto a base di vermi. Finché l’acquisizione di una quantità sufficiente di sostanze nutritive e materiale vegetale sottratto alla pianta ospite non sarà giudicato abbastanza per iniziare la propria trasformazione in crisalide, dopo essersi appesi perpendicolarmente a un ramo ed aver chiuso l’apertura anteriore dell’edificio protettivo di scarti. Non che la vita di una simile quanto ingegnosa creatura, a partire da quel momento, sia destinata a diventare più semplice. Anzi!