Nel Giappone dell’epoca pre-moderna, non sempre per essere rispettati bastava possedere la qualifica di samurai. Uno dei più famosi tradimenti della storia, quello commesso dal generale di Oda Nobunaga, Akechi Mitsuhide e che avrebbe cambiato sostanzialmente il corso della storia, fu motivato secondo alcuni storiografi ed almeno un autore di romanzi (Eiji Yoshikawa) proprio dai ripetuti maltrattamenti in situazioni pubbliche subìti dal militare ad opera del suo signore. Poiché al potere assoluto non sempre sia accompagnava un profondo senso d’empatia, sebbene raramente la posta in gioco arrivasse ad essere tanto elevata. Un altro famoso esempio letterario di questo problema può essere tratto dal racconto breve degli anni ’20 del Novecento dalle profonde implicazioni psicoanalitiche di Ryūnosuke Akutagawa, intitolato imogayu (芋粥 – un termine spesso tradotto con “puré di patate”) in cui il protagonista Goi, assolutamente ghiotto di tale pietanza, è un portatore di spada delle tipiche corti dei signori della guerra medievali, tuttavia spesso deriso a causa dei suoi modi timidi, la povertà materiale, i lineamenti poco avvenenti ed il grosso naso perennemente arrossato. La cui quotidiana sofferenza ad opera dei suoi pari avrebbe portato, un giorno, alla ricompensa karmica di essere invitato dal ricco Ministro delle Finanze Toshihito presso la sua residenza privata, dove a suo dire “Avrebbe potuto mangiare imogayu fino alla fine dei suoi giorni. Promessa destinata ad essere assolutamente sincera, come l’eroe avrebbe scoperto conoscendo la moglie del suo nuovo amico, nient’altro che una volpe magica trasformata in forma umana, capace di tornare giù dalle montagne con quantità letteralmente spropositate di patate dolci igname anche dette yam (ヤム) perfette per la preparazione del piatto tanto amato. Ma che cos’era, esattamente, l’imogayu e perché una persona di bassa levatura economica avrebbe dovuto restare colpita dal suo sapore? Dopo tutto, non ci vogliono grandi mezzi a coltivare o procacciarsi tale classe di tuberi, anche potendo contare solamente sul terreno di una piccola fattoria. La vera ragione della stravaganza associato a una pietanza simile, d’altra parte, va rintracciata nelle sue specifiche modalità di condimento, particolarmente quella finalizzata a valorizzare al massimo la sua inerente dolcezza, sapore che potremmo considerare diametralmente all’opposto rispetto all’umami (旨み – gusto di glutammato) cardine fondamentale della cucina giapponese. Ora non tutti sono pienamente coscienti di quanto straordinariamente complessa possa risultare, in una società pre-industriale, la raffinazione chimica dello zucchero, senza considerare la difficile reperibilità delle piante necessarie disponibile al di fuori di alcuni ambienti geografici chiaramente definiti. Così benché scoperta per la prima volta in India ben 2.500 anni fa, tale sostanza avrebbe impiegato fino al XIII secolo d.C. a giungere fino in Europa ed una tempistica potenzialmente ancor più lunga verso il remoto arcipelago più ad Est di tutta l’Asia. Così tutto ciò che i giapponesi possedevano per allietare in tal senso le proprie papille gustative prima del contatto con l’Occidente, in aggiunta ovviamente al miele, era un misterioso dolcificante, chiamato dalle fonti contemporanee amazura (甘葛 – letteralmente: “edera dolce”). Il che purtroppo ci dice ben poco sulla sua effettiva preparazione, vista l’assenza di una singola pianta identificata localmente con tale appellativo. Senza neppure entrare nel merito di quale fosse l’effettiva ricetta utilizzata per la preparazione di questo fluido semi-denso dal gusto prossimo al divino, soprattutto quando confrontato con la ben più diffusa, salatissima e saporita shoyu (醤油) o salsa di soia. Non c’è quindi alcunché da sorprendersi se l’effettiva preparazione dell’amazura è rimasta, attraverso i secoli, una dei misteri maggiormente agognati dai molti gastronomi sperimentali di quel paese di buongustai.
Almeno fino alla recenti e reiterate ricerche in materia operate, tra gli altri, dal professore dell’Università Ritsumeikan di Kyoto, Yukihiro Komatsu, che a partire dall’inizio dell’anno e perseguendo la moderna strada del crowd funding digitalizzato si è procurato gli strumenti finanziari per perseguire un nuovo e complesso progetto, consistente nella declinazione di oltre 20 varietà di piante attraverso una serie di diversi processi culinari, nell’auspicabile speranza di riuscire a ritrovare il “gusto perduto” di un così dolce, ed almeno in apparenza irrisolvibile mistero…
nettare
Stretta è la foglia che impiega il Sole per irretire la sua preda
Le prime ad accorgersene furono le zanzare. Creature ematofaghe che pur non provando alcun tipo di desiderio nei confronti di nettare o sostanze affini, all’improvviso cessarono di essere minacciate, all’interno dell’appartamento, dall’occasionale dittero asilide, ragno salticida o piccolo insetto appartenente all’ordine degli odonati. Come un vampiro, che pur non potendo apprezzare il gusto del buon vino, ringrazia l’apertura della nuova locanda nel suo quartiere, per l’alta quantità di potenziali vittime ubriache che ne invadono improvvisamente le strade. Ronzando con enfasi, dunque, esse perlustrarono attentamente ogni recesso di quel mondo artificiale, ove grossi animali soggiornavano ponderosi concedendo mansueti il vermiglio fluido che da la vita, alla ricerca della nuova monade, possibile oggetto fuori del contesto, capace di alterare gli equilibri micro-ecologici vigenti tra quelle invalicabili mura. Finché i due possibili responsabili furono individuati, a guisa di spareggio finale, nella minacciosa riproduzione in gomma dell’alieno xenomorfo alta 35 cm, lì trasportata dall’inconsapevole padrone di casa, oppure il bizzarro oggetto situato alla sua sinistra, all’interno di un piccolo vaso di terracotta. “Bzz-bz!” esclamò l’esploratrice, rivolgendosi a una collega nuova del settore, incaricata a questo compito nuovo dal consiglio segreto delle succhiasangue. La quale rispose, dopo aver considerato con serietà ogni aspetto della vigente situazione: “Bzzz-bz-bzz!” La pianta era alta quanto il soprammobile a lato, ramificata come gli alberi visibili dalle finestre prive di zanzariere e rossa, rossa quanto il fuoco dell’alba nel giorno del Ragnarok profetizzato dai cantastorie. Un termine di paragone tutt’altro che scelto affrettatamente, concordarono le vere padrone di casa, quando notarono il modo in cui la luce battente attraverso i vetri colpiva quelle preminenze oblunghe, facendole baluginare alla maniera di un lago pieno di larve in attesa di scaturirne verso il principio della successiva generazione. “Bzzz-bz.” Affermò a questo punto la prima, con palese desiderio nei piccoli suoi occhi sfaccettati, iniziando a svolazzare convinta verso il mirabolante orpello così apparso nel territorio di caccia dell’orda notturna, desiderosa soltanto di poter condurre una vita pacifica e tranquilla. “Bzzz-Bzzz…” Tentò di fermarla la sua compagna, ma a quel punto a quanto sembrava, era ormai troppo tardi. E tutto ciò che poté fare la seconda zanzara, secondo i dettami del suo codice comportamentale piuttosto semplicistico, fu seguire l’amica, poggiando anch’ella i sei arti sull’accogliente serie di escrescenze pilifere dell’arboscello. “Do-dolce?” Fece allora all’indirizzo dell’amica, apparentemente immobile come fosse stata colta da un sentimento d’orrore ed autocommiserazione. La quale, ormai delirante per una sorta d’evidente attacco di panico, pareva muoversi a scatti, scuotendo violentemente il suo piccolo corpo ed agitando l’inutile coppia d’ali. Come se il mondo si stesse muovendo al rallentatore, quindi, la capa esploratrice provò a sollevare la sua zampa anteriore sinistra; con un senso di sorpresa piuttosto blando, constato a questo punto come fosse già irrimediabilmente diventata tutt’uno con l’appiccicoso strato di mucillagine vegetale. Con sguardo clinico quasi disinteressato all’ora della sua dipartita, la zanzara guardò quindi la punta di quella foglia: “Possibile, o forse è soltanto una mia sensazione causata dalla fine di ogni speranza, che la trappola abbia iniziato a chiudersi, molto, molto lentamente?”
Possibile, persino probabile, se stiamo parlando della Drosera capensis. In realtà la più facile, e quindi diffusa come decorazione domestica, tra tutte le appartenenti alla sua famiglia cosmopolita, presente in ogni continente eccetto l’Antartide. Benché tutto ciò possa essere riconducibile, senza particolari dubbi, all’opera di propagazione effettuata, inevitabilmente, per la cupidigia ed il senso di curiosità degli umani…
L’astuto mimetismo del chimerico ragno formica della Malesia
Fondamentale nella classificazione di un animale risulta essere, in qualsiasi circostanza, il conteggio delle sue zampe ed altre parti anatomiche della sua dotazione complessiva. Quadrupede o bipede, mammifero ed uccello (generalmente) insetto ed aracnide (rispettivamente, 6 ed 8) per concludere con il decapode (si tratta normalmente di un crostaceo). Ecco, dunque, un enigma degno di essere affrontato: possiedo dodici zampe, 8 occhi e due teste. Cosa sono? Potremmo aggiungere ulteriori elementi alla descrizione, come la forma allungata dell’addome, le tonalità variopinte della mia livrea metallizzata o la maniera improvvisa con cui effettuo i miei balzi verso i margini della momentanea foglia di residenza. Ma tutto ciò non è realmente ed a tutti gli effetti necessario, per definire a scanso d’equivoci il surreale Orsima ichneumon, particolare specie di ragno salticida non più lungo di 5-8 mm e diffuso principalmente in Malesia, il cui aspetto fortemente distintivo anticipa alcune caratteristiche insolite del suo comportamento e stile di vita. Membro meno conosciuto della stessa famiglia del cosiddetto ragno pavone (Maratus Volans) dalle variopinte estensioni dell’opistosoma vagamente simili alla coda dell’uccello in questione, utilizzate durante un elaborato rituale d’accoppiamento, questa surreale creatura è infatti membra di un diverso genus composto esclusivamente di tre varietà, con le altre due diffuse, rispettivamente, in Indonesia ed Africa orientale. Altrettanto capaci, sebbene in maniera meno pronunciata, di sfruttare nella vita di tutti i giorni la propria somiglianza a particolari specie di imenotteri, generalmente varie tipologie di vespe e formiche, con prospettive mimetiche valide a scoraggiare varie tipologie di predatori. Ma soprattutto capaci di favorire la convivenza con membre di quest’ultimo, aggressivo raggruppamento d’insetti, le cui abitudini sociali non lasciano normalmente spazio alla convivenza con appartenenti a un diverso strato della foresta. Eppure eccolo, il nostro sgargiante ragno-vespa o ragno-formica che dir si voglia, sopra le foglie di piante o alberi ai margini della macchia boschiva, dove la luce del sole riesce a penetrare garantendogli una migliore visibilità diurna, mentre si aggira danzando nel territorio dell’uno o l’altro formicaio riuscendo a mantenere un monopolio delle foglie contenenti ghiandole nettarifere extra-floreali di bassi arbusti come il Clerodendrum, mediante l’approccio sistematico del suo aggressivo stile per procacciarsi il cibo. Già perché, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, tutte le specie di Orsima dotate dell’intrigante sistema mimetico sono erbivore in caso di necessità, avendo imparato attraverso i secoli a nutrirsi di nettare ogni qualvolta le prede viventi scarseggiano, per la potenziale presenza di altri più organizzati, aggressivi e feroci predatori. Il che conduce all’inevitabile domanda del perché, in considerazione di questo, il ragno non scelga di spostarsi su un’altra pianta mediante l’impiego della capacità di spiccare balzi grazie alla pressione dell’emolinfa contenuta nelle articolazioni, piuttosto che rimanere nell’area oggetto di tale competizione continua e pressione ecologica del formicaio. Almeno finché non si prende atto del suo particolare nonché risolutivo approccio al problema…
Battaglia in mezzo ai fiori per l’amore di una scarabea
Ci sono 30.000 specie al mondo eppur nessuna, neanche con l’aiuto di un fotoritocco digitale, può considerarsi bella quanto lei. Leggiadra volatrice che si posa sulla grossa margherita, le zampe posteriori lievemente sollevate, già immergendo le setole e le antenne dentro il nettare fragrante. Ciò che amo particolarmente è il suo colore: marrone chiaro sulle elitre, con una striscia d’oro dove inizia quel pronoto dolcemente affusolato, molto spesso ricoperto da svariati grammi di polline giallastro. Invece dell’azzurro tozzo di noi maschi degli Scelophysa trimeni detti qualche volta scarabei scimmia, per il modo in cui scaliamo steli nel Sudafrica, aggrappandoci ai preziosi petali del caso. Quando è… Il momento. Di nutrirsi, oppure l’altro tipo di momento. Quello per sfruttare l’occasione di un incontro, andando finalmente a meta (riprodursi) nel trionfo imposto dalle norme della biologia. Il corteggiamento, per questa tipologia d’insetti, non è particolarmente complicato: esso consiste, essenzialmente, nell’avvicinarsi con l’opportuno grado di scioltezza, farsi avanti e… Ciò che invece può costituire un piccolo problema, spesse volte, è invece il palesarsi di un rivale. Poiché sembra, come spesso avviene, che la monogamia non basti per riempire quello spazio che gli è stato offerto generosamente dall’ecologia. Costringendo lui, lei e l’altro a fare a botte, solamente per dirimere l’ardua questione.
Come una feroce danza. Si tratta di una scena spesso ripetuta, in queste terre, senza essere per questo meno spettacolare. Come appara assai evidente in una delle rinomate serie della BBC, con il commento della voce fuori campo di Sir Attenborough, il naturalista più famoso della Tv inglese e assai probabilmente, il mondo intero. Il quale lui soltanto, può rendere giustizia a tutto questo, narrando il susseguirsi degli eventi un poco alla volta, proprio come se si fosse trovato magicamente sospeso a pochi centimetri da una tale combattiva margherita. Il campo di battaglia, oppure un ring, a partire da quel singolo momento in cui vi giunge, emergendo dal terreno stesso, il terzo ospite color del mare, che pesantemente tocca il petalo, avvicinandosi da dietro al suo nemico, riuscendo ad afferrarlo dalla parte posteriore. Ed è allora, come al suono di un minuscolo gong, che inizia il capitolo degli spintoni, mentre l’uno tenta di ribaltare l’altro, possibilmente fuori dalla spazio dell’Osteospermum di partenza, parte della famiglia di fiori che potreste anche conoscere come “margherita africana”. A un certo punto il primo maschio sembra stare per avere la peggio, rimanendo saldamente aggrappato alla zampa del suo rivale con il resto del corpo oltre il baratro della formidabile caduta, di una dozzina di centimetri almeno. Mentre, idealmente, la bellissima siede da parte, giudicando il duro scontro tra i suoi due aspiranti cavalieri. Se non che, questa è un’occasione “particolare” come altrettanto, gravemente “particolare” risulta essere l’esito della tenzone. In effetti dopo che sono passati un trentina di secondi circa, per lo meno nel tempo soggettivo del montaggio del documentario, avviene l’impossibile/inaudito: i maschi che combattono colpiscono, accidentalmente, l’esemplare oggetto di un simile focoso desiderio. Scaraventando la povera femmina, impreparata, oltre il bordo dell’infiorescenza e da lì giù, sopra il terreno friabile e fangoso. Crudele è il triste gioco del destino. Umiliata e affranta, l’orgogliosa dama si rigira con l’agilità di una sprezzante tartaruga. E mentre getta un ultimo sguardo in controluce, verso i maschi che continuano imperterriti la loro lotta, ha già deciso. Con sibilo nel vento, apre le sue ali e vola via.
Ma il mondo è pieno di piante, frutti ed altri spazi deputati a questo antico sforzo. E un vero lottatore non potrà fermarsi, di sicuro, al primo fallimento. Così completato il duro scontro, senza un chiaro vincitore, i due scarabei sconfitti se ne vanno per la propria rispettiva strada, alla ricerca di un’occasione altrettanto valida di dare un seguito alla propria essenza. Ed è allora, sul finire dello spezzone offerto a noi spettatori dell’online, che l’azione sembra spostarsi sopra i petali di un’altra tipologia di pianta: la Carpobrotus edulis o fico acido, una vista altrettanto comune dalla parte meridionale dell’Africa quanto in Marocco, Algeria e Libia, benché qualche esemplare non disdegni di fare la sua comparsa in terra di Sicilia, dove striscia e popola gli spazi vuoti nei giardini delle case. Un’apprezzabile invasione, senz’altro…