Esiste a questo mondo, forse, una creatura dal destino più infelice del baco? Nato al fine d’inseguire, ricercando il nutrimento, la possibile promessa di annientare la sua essenza, nella gabbia del suo bozzolo, auspicando la trasformazione alata che costituisce l’anticamera della riproduzione. Ma invece raccolto da mani sconosciute in mezzo ai verdeggianti campi di gelso, per essere bollito nel suo involucro. Ed ucciso, senza nessun tipo di rimorso, prima di poter forare quel tessuto che l’evoluzione gli ha insegnato ad intrecciare. Strade alternative, d’altra parte, non esistono ed è una forma d’oro, quello che produce, utile a creare un’ampia serie d’indumenti mantenuti in alta considerazione presso tutte le culture che hanno avuto la fortuna d’indossarli, ammirarli, metterli sul piedistallo della moda. Persiste d’altra parte, sempre e in ogni caso, quel sentiero alternativo d’altre stoffe, potenzialmente altrettanto valide per assolvere allo scopo di creare un guardaroba valido in ogni occasione; si, ma quali? Il lino è ruvido al confronto. Il cotone, morbido ma privo di sostanza. La lana spessa ed inadatta ai climi caldi… Ciò che resta, come nel mestiere di chi cerca verità nascoste, è soltanto l’impossibile, che diventa praticabile mediante il giusto tipo di esperienze. Vedi quella imprenditoriale, produttiva e commerciale di Phan Thi Thuan, la donna vietnamita con oltre 60 anni di esperienza nel campo tessile che ha creato un nuovo tipo d’impresa nel territorio periferico della città di Hanoi. Fondata sul rimorso e il senso di fastidio nati dall’osservazione di una pratica assai diffusa. In questa terra umida, dove il corso del fiume rallenta in modo sufficiente alla creazione di acquitrini, presso i quali ampie fasce agricole della popolazione hanno da sempre ricercato la coltivazione intensiva della pianta Nelumbo nucifera, normalmente nota con il nome di loto sacro. Ampiamente utilizzata nella cucina e nei rituali buddhisti dell’intero Sud-Est Asiatico nel quale numerose ricette esistono per le sue foglie, i rizomi, i semi e naturalmente i petali rosa del grande fiore, tanto decorativo quanto utile ad infondere un sapore ricco a particolari varietà di tè coreani. Ciò che Phan Thi aveva tuttavia avuto modo di notare, fin dalla giovane età, era il modo in cui i gambi della pianta venivano sistematicamente accantonati, venendo lasciati a marcire a lato della strada senza nessun tipo di rispetto nei confronti della natura. Il che ebbe modo di aprire, la sua fervida mente, ad una possibilità letteralmente mai studiata nel suo paese: “E se spezzassimo quel corpo vegetale, per estrarne il contenuto segreto, per poi farlo filare dentro l’arcolaio e infine lavorarlo tramite il telaio a pedali?”
Arti nuove nascono dalla necessità di perseguire un mezzo di sostentamento continuativo nel tempo. E qualche volta, antichi metodi vengono scoperti nuovamente, nell’acquisizione di una strada alternativa per l’acquisizione del benessere all’interno dell’intera società in paziente attesa. Ciò detto, non è propriamente semplice sostituire in essere, mediante il frutto della fioritura vegetale, il complesso metodo del baco per creare laboriosamente la sua seta…
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La strana vita del cappellaio matto all’epoca della rivoluzione industriale
Figure alte, gigantesche, rese ancor più imponenti dal nobile ed impressionante copricapo. Capace di agire, per i malintenzionati di una sera a teatro, come il bersaglio della propria infausta e sventurata pistola. La sera del 24 aprile del 1865, il soldato unionista Boston Corbett si trovò a far parte del reggimento incaricato d’inseguire e catturare John Wilkes Booth l’uomo che aveva sparato e ucciso Abraham Lincoln presso il Ford’s Theatre di Washington, chiudendo anticipatamente una delle presidenze più influenti nell’intera storia degli Stati Uniti. Dopo una breve ricerca l’assassino venne quindi individuato presso il granaio di una piantagione di tabacco in Virginia, dove si era rifugiato assieme a un suo complice, David Herold. I due erano circondati, senza nessuna possibile via di fuga: venne quindi dato l’ordine tassativo di non sparare. Ma Boston Corbett, avvistato Booth attraverso una crepa nell’edificio, prese la mira con la sua carabina e lo colpì fatalmente sul retro della testa, nello stesso identico punto della sua insigne vittima di pochi giorni prima. La storiografia americana, quindi, si dilunga sulle atroci sofferenze patite dal malfattore prima della dipartita, paragonate secondo le testimonianze coeve a una divina punizione della Provvidenza stessa, citata da Corbett come guida del suo gesto impulsivo e sconsiderato. Ma pochi parlano di quello che sarebbe successo, di li a poco, a costui. Portato a Washington D.C. e sottoposto alla corte marziale per insubordinazione, fu dimesso dall’esercito ma nondimeno considerato un eroe dal pubblico e dalla stampa. Il che gli avrebbe permesso, due anni dopo, di trovare un impiego come assistente usciere presso l’ufficio legislativo dello stato del Kansas, a Topeka. Ma l’ex-soldato sarebbe stato associato, negli anni a venire, ad una serie di episodi psicotici e discorsi pubblici senza senso, spesso culminanti con l’esibizione minacciosa di armi da fuoco, che l’avrebbero portato nel giro di pochi mesi in manicomio. Soltanto molti anni dopo, quindi, ne sarebbe stata scoperta la ragione. Fin da giovane e ancor prima del suo arruolamento, Corbett aveva praticato saltuariamente il mestiere di famiglia: la fabbricazione di capelli.
“Prendi più tè.” Disse il Cappellaio “Non ne ho ancora preso niente, non posso prenderne di più.” Rispose Alice, “Vuoi dire non puoi prenderne di meno. È facile prendere più di niente.” Dissociazione cognitiva, personalità multiple, illusioni di grandezza; molte sarebbero le possibili diagnosi, non mutualmente esclusive, che un moderno psicologo potrebbe attribuire ad una delle più memorabili figure del celebre romanzo di Lewis Carroll, strettamente associata nella cultura moderna all’interpretazione che ne diede la Disney, basata sulle illustrazioni del tempo. Secondo l’opinione degli storici, nel frattempo, tale personaggio fu basato su una figura effettivamente vissuta, quella dell’antiquario e fabbricante di orologi Theophilus Carter (1824-1904) di cui Carrol realizzò la sua parodia letteraria come piccola vendetta dopo che ritenne di aver pagato troppo per dei mobili acquistati presso il suo negozio. Non può essere di certo un caso, tuttavia, se il mestiere scelto per il bizzarro ospite della bambina trasportata all’altro mondo fosse quello del fabbricante di tube, rinomata origine del modo di dire anglosassone “Mad as a hatter” ovvero in altri termini, “Matto come un cappellaio”. La strana e in precedenza incomprensibile associazione tra questi due particolari moduli della condizione umana fu infatti osservata ufficialmente per la prima volta nel 1829 a San Pietroburgo, in Russia, con ulteriori focolai individuati presto negli Stati Uniti, Inghilterra, Francia e più tardi in anche in Toscana, dove all’inizio del XX secolo esisteva una fiorente industria del settore. Ma in quel frangente finalmente, grazie all’applicazione del metodo scientifico, fu possibile intuirne presto la ragione…
L’eccezionale origine della tinta color indaco giapponese
Avete mai avuto la sensazione, vestendovi prima di un importante colloquio di lavoro, di essere dei guerrieri che si preparano alla battaglia? Si tratta di un’associazione di pensieri tutt’altro che rara, quando si considera il ricco repertorio dell’immaginario fantastico contemporaneo. Attraverso cui, la camicia può diventare una sorta di cotta di maglia, mentre la giacca è la corazza in piastre d’acciaio che protegge i valorosi nel caos della mischia. La borsa con il curriculum, facente funzioni di scudo durante uno stringente duello ed infine la cravatta… Avrete di certo notato quella forma suggestivo, in grado di riprendere ed enfatizzare la linea di una spada appartenente al Medioevo europeo. Personalmente, non credo affatto si tratti di un caso. Ma le sfide della vita non iniziano e finiscono con questa specifica circostanza. Poiché prima di allora, ciascuno di noi ha dovuto affrontare l’ambiente scolastico e universitario, dove l’abito formale era facoltativo, eppure vigeva un altro tipo di standard autoimposto nell’abbigliamento dei giovani. Valido estate e inverno, con la pioggia e con il sole. Essenzialmente unisex, benché i due generi spesso finiscano per preferire un taglio specifico che si adatti alle forme del loro corpo. Sto parlando di loro: i blue jeans, il capo di vestiario inventato nel 1871 da Jacob Davis, per poi essere brevettato due anni dopo assieme all’imprenditore statunitense Levi Strauss.
Potrebbe perciò stupirvi come, assai prima dell’invenzione del color indaco moderno, usato per tingere il tessuto denim a partire da un simile momento di svolta della moda contemporanea, quel particolare colore fosse stato associato proprio ad una celebre casta di guerrieri: niente meno che i samurai giapponesi, cultori di un’ideale di vita e una particolare visione del mondo secondo cui persino la morte era accettabile, prima del disonore. La triste dipartita, ma non lo stato di malattia o sofferenza, che avrebbero impedito al guerriero di assecondare adeguatamente il volere del suo signore, partecipando alle successive campagne militari. Ragione per cui, sotto le protezioni in metallo, stoffa e legno di bambù dell’armatura tradizionale, era l’usanza del tempo indossare un capo color indaco, la cui particolare tintura si riteneva potesse difendere il corpo dalle infezioni delle eventuali ferite inferte dal proprio nemico. Si trattava di un potere magico in qualche modo razionalizzato, derivante dal prestigio di una lunga e costosa lavorazione, alla base di una tonalità che non tutti potevano permettersi, benché fosse intrinsecamente legata all’artigianato del territorio. Quello che non tutti sanno infatti è che la tintura dell’indaco, ancor prima dell’odierna combinazione chimica tra benzene, formaldeide e acido cianidrico (tutte sostanze non proprio benefiche per la salute umana) derivava effettivamente da una serie di piante nella fattispecie appartenenti, per l’appunto, al genere delle Indigofere. Originarie in massima parte dell’India, alcune regioni dell’Africa e del Sud-Est Asiatico e di cui si fece un commercio assai redditizio per l’intera epoca rinascimentale. Verso molti paesi ma non il Giappone, che già possedeva una valida alternativa: la Polygonum tinctorium o persicaria tinctoria, importata sull’arcipelago probabilmente già dai tempi della dinastia cinese degli Zhou (1045-771 a. C.) e coltivata soprattutto, con invidiabile successo, sull’isola meridionale dello Shikoku, nell’area della prefettura di Tokushima. Questa pianta, nota localmente col termine di sukumo, fu alla base di una tradizione artigianale che si estende per molti secoli, in grado di raggiungere il suo apice verso l’ultima parte del XV secolo, quando nel corso delle sanguinose guerre civili da cui emerse la lunga pace degli shogun Tokugawa, iniziò ad essere piuttosto frequente la vista dei samurai sul campo di battaglia vestiti in parte, o completamente di colori tendenti al blu. Pensate ad esempio alle figure storiche di Date Masamune, con il suo elmo recante l’astro lunare, e l’armatura di un azzurro intenso. O all’armatura cornuta di un indaco lucido di Uesugi Kenshin, il signore della guerra ribelle che fu la nemesi prima del grande Takeda, poi di Oda Nobunaga in persona, che secondo alcuni avrebbe sconfitto, se non fosse stato per la malattia che l’avrebbe condotto alla morte. Le piante, si sa, non possono curare tutti i malanni. Ma a seguito di un’adeguata lavorazione, possono far molto per migliorare la qualità della vita degli umani…
Tecnica d’artista: tombini per stampare le t-shirt
La pesantezza è un’importante caratteristica dei coperti metallici usati per i condotti di accesso al sottosuolo urbano, ma non sempre porta dei risultati positivi. Nel 1990, durante una gara del Gruppo C a Montreal presso il circuito cittadino di Gilles Villeneuve, una Courage C24 è passata casualmente sopra un tombino: è stato allora che l’effetto del vuoto creato dalle sue avanzate componenti aerodinamiche l’ha risucchiato verso l’alto, scaraventandolo come il macigno di una catapulta all’indirizzo della macchina che stava per sorpassarla. La sfortunata Porsche 962 in questione, quindi, prese fuoco e la gara dovette essere interrotta. Da allora, simili implementi dell’arredo urbano vengono attentamente sigillati o cementati prima di qualsiasi gara automobilistica. Ovunque tranne che a Parigi, dove grazie all’apporto di un attrezzo speciale, vengono fatti ruotare di 45° e si bloccano, letteralmente, in corrispondenza del manto stradale. Certo: 60-90 Kg di ghisa o ferro non devono “elevarsi”, non possono “raggiungere vette ulteriori” poiché se stanno per esulare dall’impiego per cui erano stati creati, può significare solamente una di due cose: 1 – Sono stati rubati; 2 – Sta per capitare un incidente. Purtroppo questa è la natura del problema, da qualsiasi lato si decida di analizzarlo. Il che non significa, del resto, che non se ne possa effettuare una copia da portare sempre assieme a se. Nel distante Giappone, dove i tombini municipali costituiscono una vera e propria forma d’arte pubblica (vedi precedente articolo) ed ogni branca dello scibile sembra dimostrarsi in grado di generare la sua specifica fandom, un particolare tipo di otaku (eclettico appassionato) occupa le sue giornate andando in cerca di modelli rari o del tutto nuovi, da traferire su carta grazie all’impiego del cartoncino. E qualcosa di simile, dopo tutto, è quanto realizzato dall’artista nata in Francia e residente in Germania Emma-France Raff. La quale nel 2006, mentre viveva ancora in Portogallo con il padre pittore Johannes Kohlrusch, restò colpita dal design di un tombino visto per la strada verso Lisbona. E da una discussione con il genitore, riuscì ad elaborare una versione decisamente più internazionale di quanto fin qui descritto: essa consisteva, essenzialmente, nel pulire il tondeggiante oggetto, ricoprirlo di una vernice nera a presa rapida ed imprimervi sopra una semplice maglietta bianca, tenuta rigida grazie a un pezzo di cartone. Una serie di gesti che, a patto di condurli con manualità e precisione adeguata, permette di ottenere una trasposizione pressoché perfetta del design metallurgico sopra la stoffa, pronto da indossare a lampante dimostrazione di un senso dello stile fuori dagli schemi e divertente nella sua originalità.
Trasformata quindi l’iniziativa in un tour nazionale dal nome estampatampa con esposizione ultima nella città di Sines (provincia portoghese di Setubal) nel 2006 il duo padre-figlia l’ha archiviata per qualche tempo, mentre lei finiva di diplomarsi in disegno tessile presso la Modatex School of Textile and Fashion di Porto, per iniziare quindi a crearsi un pubblico di settore tramite lavori di tipo più convenzionale, come pattern o disegni stampati per la stoffa, oltre ad un particolare cappello di sua concezione, il Muse, creato con materiali di recupero di vario tipo. Finché all’incirca un paio di anni fa, almeno a giudicare dai video pubblicati sul suo canale di YouTube, alla creativa non è venuta l’idea di sfruttare questo grande flusso delle informazioni post-moderne, l’agglomerato dei moderni siti social e il Web 3.0, per tentare di raggiungere il maggior numero di persone possibili attraverso l’interessante idea. Il risultato, attraverso questi ultimi mesi ed anni, non ha fatto altro che crescere in maniera esponenziale, diventando incidentalmente anche un sistema di guadagno veramente niente male. E c’è qualcuno che si sorprende? Indossare letteralmente un pezzo di città costituisce forse il modo più affascinante di portarsi dietro un souvenir, come esemplificato dal sito dell’artista, che vende le magliette in questione a somme che si aggirano sui 40-50 euro cadauna. Già è possibile vedere, tra i recessi multiformi di YouTube, diversi venditori ambulanti che sembrano avergli copiato l’idea.