Gli eterogenei tesori cinesi nella fortezza meridionale del Buddha d’Oro

L’idea che la maggioranza delle metropoli d’Asia presentino un volto tradizionalista, improntato sull’architettura nazionale e identitaria che permette di distinguerle istantaneamente dalle loro controparti occidentali cessa progressivamente di mostrare una particolare rilevanza, nel momento in cui si prende atto della loro vastità e lo spazio riservato all’utilizzo pratico degli spazi. Luoghi come Pechino, Shanghai, Chongqing, pur essendo estremamente ricchi di palazzi e strutture storiche, nel momento in cui si lasciano i quartieri maggiormente documentati sulle guide turistiche rivelano la loro pura e più contemporanea essenza, fatta d’infrastrutture tecnologiche, svettanti grattacieli e isolati ben più avveniristici del classico concetto di hutong. Un contrasto mai più netto di quello direttamente osservabile nella città meridionale di Yulin, non troppo lontano dalla penisola vietnamita e l’isola di Hainan, eppure più simile per la sua impostazione urbanistica alla Cina corrente che al Sud-Est asiatico di cui dovrebbe, almeno geograficamente, essere tutta una parte. Per cui l’esposizione visuale dei molteplici reperti ed opere d’arte, qui fatte confluire attraverso i secoli in qualità d’importante centro d’interscambi commerciali ed amministrazione burocratica del Celeste Impero, sembrerebbe aver preso nei tempi moderni una piega senz’altro caratteristica, per non dire essenzialmente unica al mondo: la costruzione di un gigantesco palazzo, più simile a un castello nella propria configurazione, che costituisce anche per estensione la maggior struttura di siffatta natura dell’intero paese. Primato effettivamente strappato, nell’anno 1998 del suo completamento alla svettante costruzione tibetana del Potala, residenza del Dalai Lama tra il 1694 e il 1959, quando scelse di riparare all’estero per l’arrivo delle truppe d’invasione cinesi. Un gigante di “appena” 130.000 mq contro i circa 140.000 del Yuntian gong (云天宫 – Palazzo del Cielo) con la sua altezza di 108 metri e 21 piani, le torri laterali digradanti a circondare ed abbracciare un padiglione dal tetto a pagoda, nel quale si trova custodito il più grande Buddha d’Oro al chiuso del mondo, una formula impiegata in campo artistico per classificare tale tipologia di opere scultoree assemblate da una lega bronzea di color giallo intenso. Per un totale di 600 tonnellate, pari al peso di un enorme camion per il trasporto dei materiali grezzi nel campo delle miniere. Laddove nulla, nella complessiva concezione di questa struttura, lascia intendere uno spazio preponderante riservato a cognizioni di natura pratica o ingegneristica, con l’intento primario evidente di creare un’attrazione memorabile per lo sguardo dei visitatori, ma anche un simbolo capace di raggiungere la propria fama imperitura al di là dei semplici confini cinesi. Una vera e propria meraviglia scenografica, in altri termini, non del tutto scevra della dote di crearsi un imprescindibile alone di mistero…

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Un pregno viaggio alle radici della bambola dei desideri giapponesi

Se impiegando il dono dell’ultraterrena osservazione, come foste diventati temporaneamente membri della stirpe sovrannaturale degli yokai (dove il pluri-occhiuto e l’incorporeo vanno spesso a braccetto) poteste spiare il ripiano più alto della libreria di ogni singolo studente iscritto all’ultimo anno dell’Università di Tokyo, scorgereste nella maggior parte dei casi la forma di un ovoide di colore vermiglio, privo di arti ma col volto caratterizzato da un gran paio di baffi, il naso stilizzato e due folte sopracciglia, sotto cui, in maniera singolare, campeggia il piccolo cerchio nero di un occhio soltanto. Ma se successivamente alla festa della loro cerimonia di laurea, ancora una volta decideste di evocare il vostro potere, tutti questi soprammobili apparirebbero diversi in un singolo, significativo dettaglio: la comparsa del secondo punto scrutatore, del tutto simile all’organo di caccia di un bizzarro gufo di cartapesta. Come ricompensa per l’aiuto offerto ai suoi devoti proprietari. Egli era, costituisce ad oggi e sarà per sempre Daruma (だるま / 達磨) alias Bodhidarma, alias Bìyǎnhú, anche detto il più santo ed importante di tutti i membri del clero buddhista che abbiano calcato le strade dell’Estremo Oriente. Anzi in effetti a dire il vero, anche il primo, essendogli attestata l’impresa niente affatto semplice di trasportarne l’insegnamento dalla remota India di partenza, lungo le steppe sconosciute dell’Asia centrale e fino ai quattro confini del Celeste Impero Cinese. Tra il quinto e il sesto secolo, probabilmente, molto prima che le ragioni del marketing ed il coinvolgimento religioso di ampie fasce di popolazione portassero all’iniziativa di rappresentarlo come un uovo, forma proto-antropomorfa meritevole di un significativo approfondimento. Questo poiché si narra, tra le molte storie che accompagnano questa figura importantissima, di come una volta giunto nella parte centrale della Cina, la sua venuta venne infine accolta con l’ostilità di strutture clericali pre-esistenti. E quando gli venne negato l’accesso al divino tempio di Shaolin dedicato al perfezionamento delle arti marziali (più simile in effetti a una fortezza, come ben sappiamo) egli decise di fermarsi a meditare all’interno di un’oscura caverna tra le montagne. Per un periodo approssimativo di nove anni, senza mai distogliere lo sguardo dalla sdrucciolevole parete di pietra che sarebbe diventata tutto il suo mondo. Fatta eccezione per quella singola volta, attorno al settimo volteggio del calendario, quando si addormentò accidentalmente per un attimo, decidendo al suo risveglio che l’unica soluzione possibile era tagliarsi via le palpebre. Del tutto. Spirito di abnegazione niente meno che supremo, ricompensato dalla karmica legge d’equivalenza con la nascita istantanea della prima pianta di Tè in quel mistico recesso. Eppure, strano a dirsi, il peggio doveva ancora venire: quando al termine del proprio corso di riflessione e preghiera in stato pressoché assoluto d’immobilità, il supremo asceta scoprì che le proprie gambe e braccia si erano atrofizzate ormai da tempo, ed invero si erano staccate dal busto centrale del suo corpo a digiuno. Così ricevendo al termine del proprio viaggio la benedizione più elevata che fosse possibile pretendere dall’universo e colui che ne conosce il più profondo dei significati, scomparve dalla storia, avendo assai probabilmente ottenuto il Nirvana. E chi l’avrebbe detto che oltre dieci secoli dopo, in un particolare tempio giapponese, ai membri del suo culto millenario sarebbe venuto in mente di raffigurare questa storia nel modo più semplice, diretto e a dire il vero non del tutto privo di un’eclettica dose d’umorismo? Creando i presupposti per far scendere di nuovo Bodhidarma giù dalla montagna. Come un’ovoide sfera di sapienza infusa del più assoluto controllo sul mondo e la natura. Oltre al compito importante, per qualsiasi tipo di cultura, di riuscire in qualche modo a facilitare la vita delle persone…

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La silenziosa torre meccanica dell’eterno riposo edochiano

Non è soltanto una questione di nutrire gli stereotipi, benché qualcuno proverà soddisfazione nel trovarli perpetrati in questo genere di soluzione: la società del Giappone contemporaneo, costituita da un popolo che ama coniugare tecnologia e tradizione, che vive in terre anguste, traendo il massimo dall’integrazione degli spazi e soluzioni abitative. Che riesce a individuare il lato positivo dalle situazioni spiacevoli, finendo sempre per costruire qualcosa di nuovo, funzionale ed altrettanto utile allo scopo di partenza. Come quando nell’ottobre del 2017, il grande terremoto del Giappone Orientale non distrusse parzialmente l’antica struttura lignea del tempio di Shinkyoji a Kuramae, distretto periferico della colossale megalopoli di Tokyo, nota come Edo all’epoca dei samurai. Occasione presto colta dal clero Buddhista incaricato di custodirlo, evidentemente non privo di risorse pecuniarie o validi presupposti di finanziamento, per costruire nello stesso sito un imponente condominio multi-piano, quasi totalmente privo di finestre fatta eccezione per quelle della scala principale. Ciò in funzione dello scopo principale a cui aveva il destino di essere adibito: custodire, proteggere e rendere raggiungibile la più alta quantità di ceneri dei defunti, intesi come venerande spoglie mortali nell’intero contesto interreligioso del Sol Levante. Non che chicchessia abbia mai pensato di esprimere dubbi, sul fatto che la dottrina fondata sugli insegnamenti di Siddhārtha Gautama sia da sempre la più valida in Estremo Oriente, nel presentare un approccio nel relazionarsi coi propri cari defunti grazie all’ampia serie di rituali, discipline e ricorrenze dedicate alla loro celebrazione imperitura. Non ultimo il più semplice ed universali tra i passaggi, di recarsi a visitare il sepolcro regolarmente, un dovere che comunemente viene attribuito al figlio maggiore di ciascuna generazione, benché ciò tenda a costituire un’impossibilità nell’incedere complesso del moderno stile di vita urbano. Ed è proprio per rispondere a tale contraddizione, che entra in gioco l’ingegnosa nuova concezione iper-tecnologica dello Shinkyoji, istituzione già famosa per il proprio cimitero tradizionale, ormai sovraffollato da tempo. Grazie al suono roboante che riecheggia nell’interno delle sue pareti, la diretta risultanza di un articolato braccio meccanico, guidato da un sistema informatizzato paragonabile a quello di un centro di smistamento postale. Una similitudine che non vuole certo sminuirne la sacralità, quanto piuttosto introdurre il discorso di COSA e COME diventa oggi realizzabile, grazie al superamento di determinati stereotipi o gravosi preconcetti ereditati.
Così la signora Masayo Isurugi, protagonista del servizio che accompagna l’internazionale trattazione giornalistica di tale luogo, saluta la reception per recarsi all’ascensore, tramite cui raggiungerà il piano deputato. Quindi percorrendo un lungo corridoio, farà il suo ingresso nella stanza con il lettore automatico di QR Code: finché una voce registrata “Prego scansionare la tessera” (prima d’iniziare a ricordare) sarà il segno chiaro d’iniziare l’intrigante e innovativa procedura. A seguito della quale, il grande mostro meccanico che vive nell’ossario provvederà a recuperare l’urna contenente le ceneri di suo marito. Per posizionarla convenientemente dietro la tradizionale lapide in pietra di Ōya, del tutto indistinguibile da quelle di un cimitero. Immagini del caro estinto appariranno sullo schermo apposito. Mentre l’incenso, fornito in automatico dal tempio, provvederà ad avvolgerla nel fine aroma della preghiera. Davvero molto conveniente…

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Quel ramo del lago di Kaohsiung, che volge il Drago e la sua Tigre al Dio della Montagna

Cosa è sacro, cosa è profano? Nel più visitato lago artificiale dell’intera isola di Taiwan, nonché uno dei pochi, visto come la parte abitata di una tale terra emersa superi di poco le dimensioni del Lazio e della Toscana, tutto è ogni cosa, proprio come ci si aspetterebbe in merito alla situazione culturale e religiosa di un popolo che crede nell’integrazione delle discipline filosofiche all’interno di una scintillante gestalt, non così dissimile da talune regioni stellate del cielo notturno. In una galassia tiepida e bagnata, costituita dalle acque di un solenne recipiente, che prende o da’ il suo nome al popoloso centro urbano di Kaohsiung (蓮池潭 – Lago delle Ninfee) situato nell’estrema parte meridionale di quella che gli esploratori portoghesi avevano chiamato Formosa. Un sito celebre per il suo mercato e la vita notturna, perciò tutt’altro che tranquillo in ogni genere di circostanza, sebbene assai lontano dalla grande densità del centro urbano di Taipei, particolarmente quando ci si sposta verso il luoghi periferici. Di quello che potremmo definire, sotto i più importanti aspetti, come il cuore spirituale di un’intera, piccola nazione. Con più di 20 templi nello spazio di appena 500 metri quadri situati tutto attorno alle sue rive, ed in diversi casi significativi anche in bilico sopra le acque stesse di una simile risorsa paesaggistica ed operativa. Come altrettanti mistici pianeti, ciascuno significativamente caratterizzato dallo stile architettonico e visuale frutto di un particolare rapporto con gli Dei, la bellezza e il modo di riuscire a interpretare la natura. E non solo: come descrivere, altrimenti, le due svettanti pagode gemelle del Drago e della Tigre (龍虎塔 – Lónghǔ Tǎ) alte ben sette piani e risalenti al 1976, collegate alla sponda lacustre mediante l’impiego di una surreale passerella zigzagante che conduce fino alle due bocche spalancate delle eponime creature, costruite con sinuoso (in un caso) e quadrupede (nell’altro) fisico in solida fibra di vetro, straordinariamente variopinta alla riconoscibile maniera di un appariscente ornamento da luna park… Poiché non c’è modo migliore in tutto l’Estremo Oriente, di commemorare e rendere omaggio alle creature mitologiche che renderle tangibili ed interagire con la loro transitoria personificazione, come avviene anche durante il capodanno grazie alle tradizionali danze del cane leonino. Che di norma appare sempre con il suo collega identico per fare la guardia ai templi (石獅 – shíshī) in modo assai diverso da una coppia di tanto selvaggi e diversificati esseri, significativamente più imponenti dei quanto sarebbe lecito aspettarsi per questa tipologia di statue nella maggior parte dei contesti formali. Il cui ruolo è riassumibile piuttosto in quello di fagocitare, in modo particolarmente semplice, la forma personale dei singoli visitatori umani, grazie all’atipica commistione architettonica di fauci e porte, benché sia consigliabile procedere sempre in un’ordine ben preciso. Questo perché il drago, in base all’ideale taoista, rappresenta il principio positivo e luminoso dello Yang, mentre la tigre è oscura e allineata con lo Yin. Ragion per cui sarebbe assurdo non “entrare” cominciando dal primo e “uscire” dalla seconda, superando in questo modo il rischio di vanificare i presupposti apotropaici di un simile gesto, mentre si transita tra raffigurazioni tridimensionali degli inferni e paradisi d’Oriente. Piccoli accorgimenti operativi, capaci di fare la differenza tra una semplice visita turistica, ed un vero e proprio pellegrinaggio spirituale non pianificato, la via d’accesso ad un livello superiore di serenità fino alla transizione inevitabile dell’umana Esistenza…

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