Amore per la Terra e tutto ciò che vi abita, le innumerevoli creature striscianti, volanti e che nuotano nelle acque dei profondi oceani tra i continenti. Nonché i plurimi cespugli, l’erba e gli alberi, della metà vegetativa della biosfera, intesa come strato verde o variopinto ogni qual volta inizia la stagione della fioritura. E se invero ci sovrasta un grande Essere, al tempo stesso demiurgo e sorvegliante di quest’universo, non sarebbe forse giusto offrirgli un piedistallo costruito nella “Miglior guisa possibile nel mondo materiale” come scrisse chiaramente tra gli altri ʻAbdu’l-Bahá, il figlio e successore del profeta iraniano Baháʼu’lláh (1817-1892) supremo fondatore della religione dei tempi moderni che prende il nome di Fede Baháʼí. I cui molteplici edifici sacri in giro per il mondo riflettono l’idea fondamentale di apertura verso le visioni di ogni provenienza filosofica e culturale, presentando l’iconica forma a nove lati con nove aperture oltre all’assenza di un pulpito definito, permettendo e addirittura incoraggiando la lettura in ciascun angolo di qualsivoglia testo sacro esistente. Da cui una serie di precetti e accorgimenti che, a partire da periodo della guida spirituale di ʻAbdu’l-Bahá, avrebbe costituito il fondamento di opere architettoniche di chiara distinzione tra cui d’altronde, nessuna appare destinata a rimanere parte del patrimonio estetico globalizzato più del Kamal Mandir (“Tempio del Loto”) a Nuova Delhi, capace di rientrare tra i più complessi e distintivi punti di riferimento costruiti tramite uso estensivo del cemento armato.
Un tempio circolare nella capitale indiana dal diametro di 70 metri e l’altezza di 34, sovrastato da un tetto composito formato da 27 petali parzialmente sovrapposti, la cui funzionalità primaria è quella di riuscire ad evocare l’idea del genere acquatico Nelumbo, pianta galleggiante le cui infiorescenze rosa vengono considerate sacre dal canone religioso di molti paesi dell’Asia. Creazione concepita a partire dal 1976 dall’architetto di origini iraniane, oggi residente in California, Fariborz Sahba che prima di presentare il suo progetto ai committenti, si dice avesse viaggiato in lungo e in largo per l’intero subcontinente al fine di acquisire le linee guida estetiche destinate a dominare la sua eccezionale idea. Approdando per lo meno in modo metaforico anche nei distanti territori australiani, se è vero che il suo indiscutibile capolavoro presenta più di un singolo punto di contatto con il Teatro dell’Opera di Sydney inaugurato soltanto tre anni prima, il cui profilo esterno mostra soluzioni tecnologiche non così distanti dal progetto indiano…
architettura
Tubo rosa: la strana meraviglia architettonica ove correvano le navi berlinesi
Un punto chiave nella comprensione del post-modernismo è che tale corrente non deriva dalla forzatura di alcun tipo di maniera implicita di dar forma alle cose. Piuttosto che il sovvertimento di un modello, il suo superamento, ovvero l’adozione di un sistema per dare risposta alle necessità di un mondo sottoposto a velocissimi cambiamenti. Così nel 1900, il kaiser Guglielmo II di Germania e Prussia si trovò di fronte ad un progetto per la costruzione di un Istituto di ricerca per l’ingegneria idraulica e la costruzione navale, da posizionare in corrispondenza della piazza dei cavalli imperiali. Ma negando il suo permesso, famosamente, disse: “No. Il mio maneggio rimane.” Tre anni dopo, molto più appropriatamente, esso trovò posto comunque, lungo il canale Landwehr sulla Müller-Breslau-Straße. Qui, tra una serie di laboratori di mattoni con piscine artificiali interne, gli addetti alla progettazione cominciarono a impiegare il metodo sperimentale prima di approvare la possibile funzionale delle diverse imbarcazioni imperiali. Sessantaquattro anni dopo, con l’ampliamento del canale, il sito si trovò sopraelevato entro gli angusti confini di un’isola artificiale. Tanto che fu deciso, in tale occasione, di coinvolgere l’ingegnere Christian de Boes, che previde a tal proposito l’installazione di un cosiddetto tubo di circolazione, imponente elemento grazie al quale fosse possibile simulare lo scorrimento di grandi masse d’acqua e la conseguente generazione di un moto ondoso. L’estetica esterna, per ovvie ragioni, non era al centro delle sue preoccupazioni e fu per questo che, ancora una volta, le autorità al comando mancarono di nuovo di approvarlo, decidendo piuttosto d’indire il concorso del 1968 per il coinvolgimento di architetti di fama. O quanto meno, in grado di tirare fuori soluzioni che potessero definirsi visualmente appaganti. A questa seconda categoria apparteneva dunque Ludwig Leo, attivo nel settore fin dal termine della seconda guerra mondiale ma che, forse in funzione delle sue idee d’avanguardia, aveva avuto fino a quel momento l’occasione di portare termine una quantità limitata d’edifici. Tutti grosso modo rispondenti ad un approccio assai raro per l’epoca, di anteporre la funzione al rispetto dei modelli, creando al tempo stesso dei nuovi metodi coerenti per erigere e determinare gli spazi abitativi o dotati d’altre funzioni. Mai tanto insolite, né così determinanti; le ragioni per cui, probabilmente, l’Umlauftank 2 (“Serbatoio di Scorrimento”) viene ad oggi considerato il suo capolavoro assieme alla vicina Scuola di salvataggio in mare (DLRG) con il suo iconico ascensore inclinato per immagazzinare le scialuppe in inverno. Laddove campeggiava in questo caso una svettante scatola blu cielo, per lo meno al momento della sua inaugurazione, circondata da un contorto serpente del colore di un bouquet a San Valentino, degno d’ispirare intere generazioni di pittori surrealisti metropolitani…
L’incerta epoca e funzione di duecento torri che sovrastano i tragitti tibetani
L’imprescindibile tendenza a diversificare, che deriva dalla fantasia fattiva degli umani, non può prescindere da certi crismi ripetuti che compaiono immutati anche tra contesti culturali particolarmente distanti. Così la necessità di certi popoli di far emergere, se stessi, la propria famiglia e percezioni, al di sopra delle prospettive di chi ascende o trasferisca i propri avere da un ciglio montano all’altro, ha in più momenti e situazioni ricreato la presenza di quel tipo d’edificio preminente ma compatto, sostanziale equivalenza abitativa di un albero o antica colonna. Vedi le fortezze georgiane dei clan dei Vainachi, come anche le torri circolari costruite dagli Irlandesi. Eppure ciò in tanti sembrano voler dimenticare, nei trascorsi secoli come l’epoca corrente, è che anche in prossimità del tetto del mondo, l’elevato e tormentato Tibet, sia vissuta una categoria di grandi costruttori. Che nel tentativo di proteggere il proprio territorio avito, ma anche o soprattutto primeggiare tra i propri vicini, scelsero di mettere una pietra sopra l’altra. E poi uno strato successivo, ancora e ripetutamente raggiungendo varie volte l’altezza massima di 60 metri. Finché i propri interessi ed i domini territoriali non fossero salvaguardati, per quanto possibile, da una delle forme primordiali del concetto di fortezza. Senza l’uso d’ingombranti mura, barbacani o fossati, poiché dopotutto siamo in luoghi dove la conformazione stessa del terreno risultava successivamente accidentata da ostacolare un’armata. Ma di chi fosse quest’ultima, ai tempi della prima costruzione, possiamo unicamente tentare ipotesi del tutto prive di riferimenti adeguati.
Ciò perché le torri himalayane, in quantità complessiva pari a circa 250, per quanto diffuse nelle regioni oggi cinesi di Kham, Qiang, Kongpo e Danba, appaiono essere state dimenticate per lungo tempo dagli stessi discendenti di coloro che le hanno create, in assenza di fonti scritte in grado di fornire un chiarimento sul come, cosa e perché di tali ponderose installazioni ancestrali. Per la poca affinità di questi popoli con la parola scritta, ma anche un possibile e potenziale progetto di sovrascrittura culturale, iniziato nel XVIII secolo a seguito delle dispendiose campagne di espansione territoriale messe in atto dall’imperatore Qianlong (r. 1735-1796). Durante cui oltre 600.000 uomini furono fatti avanzare fino al cuore dell’antico regno montano di Gyalrong alias “Valle della Regina” ove si diceva che fin dai tempi remoti governassero esclusivamente le donne. Ma non prima di aver fatto costruire, poco fuori Pechino, delle repliche fedeli delle torri virtualmente inespugnabili che i suoi soldati si sarebbero trovati ad espugnare…
42 caratteri d’artista: la trasformazione delle vecchie macchine “da disegno”
A distanza ormai di quasi mezza decade dall’inizio degli anni del Covid, è possibile gettare indietro uno sguardo obiettivo, scorgendo assieme ai molti aspetti negativi alcuni risvolti inaspettati, che hanno aperto porte inaspettatamente positive ai processi umani. Nuovi sistemi, nuovi metodi, sentieri verso l’introspezione personale. E nel caso di talune figure creative, un cambio di carriera necessario a illuminare agli occhi della collettività i meriti notevoli della loro arte. Tra le schiere di costoro può naturalmente figurare il millennial James Cook, all’epoca studente di architettura, che ormai da tempo aveva individuato come origine della propria passione non tanto progettare gli edifici, quanto trasferirli tramite un approccio assai particolare su carta. Un tipo di prassi figurativa, il suo, ma ben diverso da quello di Hans Vredeman de Vries, Dirck van Delen o Giambattista Piranesi. Giacché semplicemente disegnare linee rette ed ombreggiarle a dovere avrebbe fatto ben poco per distinguerlo dagli utilizzatori odierni dello strumento informatico e gli approcci fin troppo pratici della digitalizzazione. No, piuttosto qui l’artista guarda indietro e sceglie di farlo tramite l’approccio maggiormente asettico ed impersonale, tra tutti quelli disponibili a partire dalla fine del XIX secolo. Avete mai pensato, a tal proposito, di disegnare usando una sferragliante, metallica, razionalistica macchina da scrivere? Il tipo di strumento che usavano i nostri nonni, per semplificare la scrittura in un mondo in cui ancora gli errori non potevano essere cancellati senza conseguenze, ed il cambio del rullo d’inchiostro era un compito rischioso riservato all’ultimo arrivato dei contesti d’ufficio. Forse non il più pratico degli approcci a disposizione, giungendo a richiedere un minimo di cinque giorni per il completamento di un foglio A4. Ma infuso di un fascino che viene dal più puro e incontrovertibile eclettismo.
Così avreste potuto scorgerlo a partire da quei giorni, in una città di Londra recentemente riaperta e ancora priva delle moltitudini che adesso affollano di nuovo quei quartieri, mentre seduto presso un punto panoramico o all’incrocio di due strade batteva concentrato su quei tasti di bachelite. Più e più volte lo stesso tasto, con l’approccio collaudato d’impiegarne alcuni con finalità specifiche: la “@” per ombreggiare spazi, vista la superiore quantità d’inchiostro nero che contiene; la E maiuscola per fare le finestre; la “O”, sormontata da una “o” più piccola e sostenuta da una “I” strategica, per rendere l’idea di figure umane innanzi ai più celebri palazzi e monumenti. Essi stessi una sapiente commistione di linee, trattini, punteggiatura e anche veri e propri brani testuali…