In un momento imprecisato degli anni 60 dello scorso secolo, un pastore si avvicinò distrattamente alle pendici di un declivio montuoso nei pressi della sua città d’origine. Mera collina erbosa nonostante l’appellativo altisonante di Yanar Dağ ovvero “la Montagna che Brucia” dalla provenienza incerta ma forse riconducibile al vago odore di zolfo che da sempre era stato percepito aleggiare nei dintorni. Mentre meditava approfonditamente sulla cosa l’uomo scelse di accendersi una sigaretta, per gettare quindi il fiammifero ancora un poco incandescente verso il tronco contorto di una piccola siepe. “Che cosa potrebbe mai succedere?” Pensò forse beffardamente, ricordando le parole degli anziani venerabili del villaggio, in merito al ritorno delle antiche usanze dinnanzi all’innegabile possenza della natura. Un lieve fruscìo dagli alberi distanti. Il grido di un gabbiano sperduto nell’entroterra. Giusto mentre una fiammata alta all’incirca un paio di metri, eruttando improvvisamente dal profondo, si protese verso l’alto come un tentacolo fermamente intenzionato a stringergli una, o se possibile, entrambe le mani scurite dal Sole: “…Mi pento, mi pento! Sia lode!”
Si estende come un arco di plasma verso il grande azzurro del Mar Caspio, la penisola di Absheran, parte fondamentale di quello che viene talvolta definito: Odlar Yurdu, il Paese [protettore] del Fuoco, anche detto Atropatene, toponimo la cui pronuncia è stata trasformata in Āturpātākān, Ādharbāyagān ed infine, Azerbaijan. Pregno compito non tanto riferito all’elemento che ogni cosa consuma e può distruggere, quando le condizioni sono avverse, bensì la natura stessa e il nesso primordiale, che alberga nel cuore stesso nelle persone, come marchio del creatore Zoroastriano, Ahura Mazda venerato sin dai tempi degli imperatori di Persia. Eppure cosa estremamente rilevante, neanche il primo di questi elementi manca visto e considerato come oltre i confini rilevanti, trovi posto uno dei più vasti, e ancora in parte integri, ricettacoli di gas naturale al mondo. Fonte d’idrocarburi provenienti da foreste preistoriche d’inusitata vastità, rimaste sepolte sotto i ponderosi strati geologici degli eoni, quando la deriva climatica di questo pianeta gli ha impedito di ricreare se stesse oltre le sabbie del Tempo. Il che ha reso, con l’arrivo molto successivo degli umani, un’occorrenza particolarmente rappresentativa la specifica contingenza geologica che trova la definizione internazionale di vulcano di fango, particolarmente nell’intera zona della riserva naturale di Gobustan, situata circa 60 Km a sud-ovest della capitale peninsulare da oltre 3 milioni di abitanti, Baku. Mentre è proprio con l’avvicinarsi verso un così importante centro nevralgico e commerciale del Vicino Oriente, che il calore verso le rivelazioni profetiche del grande Zarathustra, così come quella manifestazione magnifica della sua munificenza, che il “calore” sembra intensificarsi in modo estremamente significativo. Come esemplificato dai tre svettanti e contorti grattacieli da 190 metri noti come Flame Towers, fatti assomigliare dopo il tramonto ad altrettante emanazioni pilota di un fornello da cucina, grazie al sapiente impiego di 10.000 lampade LED dalla colorazione vermiglia. Ma di fuochi tangibili ancorché caldi, oltre che menzionati nelle antiche cronache, alla loro ombra ne campeggiano ulteriori due. Forse non altrettanto alti, ma…
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L’occhio di Buddha sull’aeroporto più pericoloso al mondo
Per quanto i desideri ed il rapporto con la realtà dei popoli possa tendere ad assomigliarsi, vi sono delle differenze molto significative che vengono dettate, nella maggior parte dei casi, dai dogmi assunti delle rispettive religioni. Per chi crede nel destino umano di un continuativo ciclo di reincarnazioni fino al raggiungimento dell’auspicabile non-esistenza, ad esempio, non esiste nulla che possa ricondursi al concetto cristiano di divina Provvidenza. Il che significa, in altri termini, che il destino di ciascuno è la conseguenza esclusiva delle proprie azioni, secondo la legge universale e ineluttabile del karma. Ed è proprio questo che dovrebbe idealmente ricordare, ai piloti impegnati nel difficile atterraggio presso l’aeroporto nepalese Tenzing–Hillary del villaggio di Lukla, il piccolo tempio buddhista che si trova in cima alla singola pista d’atterraggio lunga poco più di 500 metri, caratterizzata da una pendenza in salita che sarebbe sufficiente a correre mediante l’utilizzo di un longboard. Non che qualcuno, chiunque, potrebbe mai pensare di affrontarla in tal modo, vista la presenza, ad un’estremità della stessa, di un baratro profondo svariate centinaia di metri. Mentre all’altro lato campeggia un muro alto e scosceso, senza nessun tipo di protezione a vantaggio dell’aeroplano che dovesse essere tanto sfortunato, o sconsiderato, da non riuscire a frenare in tempo. Ecco perché, prima di essere certificati per effettuare l’impresa, ai piloti della più prototipica nazione d’alta quota vengono richieste almeno 100 missioni nazionali di tipo STOL (Short take-off and landing) e 10 atterraggi proprio in questo luogo con istruttore al seguito, con uno standard di requisiti così eccezionalmente elevato da riuscire ricordare, fatte le dovute proporzioni, quello di una moderna portaerei da guerra. Il che permette di poter contare su una quantità d’incidenti effettivamente piuttosto bassa, vista la complessità dei fattori in gioco. Per un totale di sette a partire dal 1973, di cui soltanto tre fatali (ed uno costato la vita a 18 persone nel 2008) nonostante l’alta quantità di passeggeri, nei fatti superiori ai 100.000 annui, che da multiple generazioni scelgono attualmente di posare piede su questa pista, asfaltata soltanto a partire dal 2001. Al che sarebbe lecito chiedersi che cosa, esattamente, conduca tante persone ad abbandonare ogni scampolo residuo di prudenza, accettando rischi tanto espliciti soltanto al fine di recarsi presso un paesino tanto remoto e per quanto ricco di fascino, visitabile nel giro di una mezza mattinata. Un quesito, questo, la cui risposta può essere acquisita soltanto guardando verso l’alto: Lukla stessa ha sempre costituito nei fatti, sin dall’inizio del secolo scorso, la sola ed unica “porta” civilizzata verso il più importante pellegrinaggio di un qualsiasi alpinista rispettoso del proprio nome. Il remoto e semi-leggendario tetto del mondo, altrimenti chiamato dai nativi Chomolungma (Madre dell’Universo) o Sagaramāthā (Dio del Cielo) ma che voi probabilmente assocerete al termine d’uso internazionale, attribuito dal governatore inglese dell’India nel 1865, monte Everest. Un aspetto, quest’ultimo, che si riflette chiaramente nel nome e nella storia del suo improbabile aeroporto…
La metropoli di pietra scavata dall’escursione termica siberiana
“Montagne? Assomigliano di più a torri, castelli, cattedrali, minareti case…. E voi vorreste chiamarla una scogliera? In verità, si tratta di un branco di cavalli volanti, rinoceronti, ippopotami…” Così scriveva il poeta Anatoly Olkhon attorno alla metà dello scorso secolo, dopo un’avventurosa visita del parco più famoso della Repubblica Autonoma di Sacha in Yakutia, nella parte estremo-orientale del paese più vasto al mondo. Un luogo all’epoca incontaminato, privo persino dell’odierno piccolo centro visitatori, la stretta strada asfaltata ed il percorso da trekking culminante in qualche centinaio di scalini, per salire fin sopra a quello che, rispetto ad un paesaggio pianeggiante per migliaia di chilometri in qualsiasi direzione, potrebbe anche venire definito il tetto del Mondo. Col che non voglio certo affermare che i dintorni dei cosiddetti Pilastri di Lena siano del tutto privi d’interesse, quando si considera l’ampiezza e la chiarezza dell’omonimo fiume, che al termine di un percorso di 4.400 chilometri finisce per sfociare, con tutto il carico delle esperienze fatte, nelle gelide acque del Mar Artico settentrionale (ed in effetti pare qualche volta strano, quando si osserva una mappa, che i fiumi possano anche scorrere in direzione nord).
Bello e ancor più bello, terribili zanzare permettendo, quel che si riflette per un lungo tratto del suo sinuoso tragitto, situato circa 180 Km a nord della capitale regionale Yakutsk: la più incredibile testimonianza di un mondo ormai trascorso, non per niente eletta a patrimonio naturale dell’UNESCO, frutto dell’evaporazione di quello che qualche centinaio di milioni d’anni fa era stato un vasto mare. Quei Lenskiye Stolby, o in lingua Yakut Ölüöne Turūk Khayalara, che costituiscono nei fatti un esempio da manuale dei depositi creati al ritirarsi delle acque, di un copioso deposito di minerali a base di calcare, dolomite, marna e ardesia, in grado di creare quel tipo di muraglia stolida che emerge in solitudine nel paesaggio. Stolida e immanente, s’intende, tranne che per quello che comporta l’erosione degli elementi, da sempre il più importante fattore contributivo ai processi di evoluzione carsica del territorio. “La natura è il più grande tra gli architetti” si usa dire nelle più opportune circostanze, il che non tiene conto d’altra parte, del modo in cui possa facilmente costituire anche un più che dignitoso artista. Benché agisca, come sua massima prerogativa, senza un’assoluta manifestazione d’intenti. E che dire della scala? 150, 300 metri di altezza per le torri più alte, ripetute lungo la riva del fiume lungo un percorso di 180 Km, abbastanza da giustificare, secondo molti, il viaggio in aereo di un giorno intero partendo da Mosca, praticamente equivalente in termini di distanza al tragitto necessario per raggiungere la città di New York. Ma non c’è fondamentalmente niente in grado di sorpassare lo straordinario splendore e l’inusitata grazia di una città di roccia siberiana, nella sua pallida copia umana, rumorosa ed affollata, in grado di vantare soltanto un secolo o due d’esistenza…
L’eroica vicenda della più grande statua di uccello al mondo
Enorme creatura del tutto immobile, gli artigli rivolti in direzione dell’azzurro cielo fino all’altezza vertiginosa di un palazzo di 5 piani. Un’ala distesa a terra, l’altra misteriosamente terminante in un moncone a 46 metri di distanza, mentre la coda allargata perpendicolarmente agisce come una sorta di scalinata, permettendo ai minuscoli turisti di salire sul ventre della spaventosa creatura, per conoscere più da vicino la sua espressione di rabbia feroce e immancabilmente, scattarsi una foto con lei. Davvero si tratta, come potrebbe sembrare, di un monumento appartenuto all’epoca del Treta Yuga, quando gli antichi re sconvolgevano i loro confini in drammatiche guerre, mentre creature immense osservavano dai cieli distanti? E per quale ragione l’immenso volatile viene venerato nel suo stato ferito e morente, piuttosto che all’apice della sua gloria pennuta? Chi l’ha costruito, perché?
Assai più semplice è la vita di colui che conosce il significato della benevolenza, poiché nel più duro nucleo delle sue avversità, potrà sempre contare sull’assistenza e il sostegno di amici, per aiutarlo a raggiungere l’altra sponda di quell’impetuoso mare in tempesta. Personaggi o figure storiche ricche d’insegnamenti, come la più importante reincarnazione del divino Visnù indiano, che dopo aver sperimentato l’onniscenza e il potere supremo attraverso infiniti millenni come componente della somma Trimurti, scelse di trasferire parte della sua essenza sulla Terra, all’interno dell’avatar che nacque principe, crebbe guerriero e diventò il difensore degli umani contro il più grande male che avesse mai calcato il palcoscenico della storia. Giusto dopo essere stato scacciato in esilio, così narra il racconto, per via della crudeltà della sua matrigna, per andare a vivere nella foresta di Dandaka assieme all’amata moglie Sita e il fratello Lakshmana. Dove, nel momento in cui gli uomini si trovavano a caccia di un cervo dorato, un mendicante all’apparenza innocuo si avvicinò alla donna, distraendola con il apparente bisogno di aiuto. Soltanto per rivelare, in un fatale momento, la sua reale identità: nient’altro che Ravana in persona, gran demone e sommo sovrano del Siam! Con una missione malefica: rapirla e riportarla nel suo distante palazzo, per costringerla a sposarlo su un’altare di fiamma e tremendi rimpianti. Ora, in condizioni normali, c’era ben poco che un infame bandito potesse fare per contrastare la rapidità e la probità in battaglia di Rama, armato del temibile Narayanastra, l’arco magico in grado di scagliare dardi esplosivi all’indirizzo dei suoi nemici. Se non che anche il malefico individuo destinato a diventare il suo principale antagonista nelle storie future possedeva un manufatto sovrannaturale: il carro alato Pushpaka Vimana, capace di sollevarlo in cielo assieme all’impotente fanciulla, per scomparire con fulminea rapidità in mezzo alle nubi distanti. Così avendo scelto attentamente il momento in cui marito e cognato erano assenti, il maligno era certo che non sarebbe stato scoperto. Se non che alle grida disperate di Sita, sulla sommità degli alberi della foresta si risvegliò qualcuno che di sua spontanea iniziativa, per pura e assoluta ammirazione, aveva giurato fedeltà a Rama: nient’altro che Jatayu figlio di Aruna, il “Bagliore del rosso Sole nascente” la cui forma fisica si presentava come quella di un poderoso e antico avvoltoio. L’uccello decollò quindi ad intercettare Ravana, combattendo fieramente con lui per molte ore. Ma le sue piume ormai anziane, non avendo più la forza di un tempo, non gli permisero di mantenere il passo con il terribile potere del demone, finché a un certo punto, con un colpo rapido della sua spada, egli riuscì a recidergli un’ala, costringendolo a precipitare verso il distante suolo. Dove assai lentamente, morì. Ma non prima di aver visto di nuovo, ancora una volta, il suo signore con il fratello, ai quali ebbe il tempo di spiegare chi fosse stato, esattamente, a rapire la bella Sita, ed in che direzione avesse orientato la parte anteriore del suo mezzo volante dorato. Dando inizio alla guerra più terribile che l’umanità avesse mai conosciuto…