Airone azzurro ovvero il killer silenzioso

Airone azzurro

Nei panni della vittima, mettetevi per una volta al posto del dannato roditore. Cibo dei serpenti, trastullo dei felini, giocattolo per gli zelanti cani del genere terrier. Che non ha colpa se vi ruba il cibo e porta malattie, se recide i cavi della luce o si trasforma in tappo per grondaie, dopo improvvide, ingiuriose morti per soffocamento: in fondo, lui, è soltanto un topo. O se siete negli Stati Uniti, qualche volta, un gopher dalle tasche, ottimo scavatore di profonde gallerie. Comprendente il dilemma di questo abitatore abusivo dei vostri giardini, dico, per quest’oggi almeno, grazie allo strumento dell’analisi comparativa. Perché se anche noi umani siamo perennemente in cerca, dalla nascita fino alla fine, di creature belle, nobili, eleganti, spesso è solo una questione di carote o di patate o di altri frutti della terra. Che le piccole palle di pelo rubano, giorno dopo giorno, per nutrire la copiosa prole senza colpe. La vita è piena d’ingiustizie. Poi ci sono i casi strani.
Jessie Garza stava riprendendo, verso la mattina dello scorso 5 agosto, una scena che non vedi tutti i giorni: l’incedere maestoso dell’uccello Ardea herodias, comunemente detto airone azzurro maggiore, mentre graziava la radura erbosa dietro casa sua. Un metro in altezza di volatile, con il collo flessibile, il piumaggio variopinto e zampe lunghe da cicogna. La cui presenza fa insorgere, naturalmente, una domanda: “Cosa starà mai cercando, questo uccello pescatore, nel bel mezzo della terra ferma? Vermi giganti?” Questo non è certo un passero, che possa accontentarsi di una piccola merenda, qualche briciola, insignificanti rimasugli. Sopra la grande distesa dell’Oceano azzurro, piuttosto, trangugia persici, spinarelli o percimormi in grande quantità. Ma è talmente spinto dall’istinto della caccia solitaria, che talvolta si avventura ben al di là della risacca. Fino a prati verdi, sotto cui si annidano dei pesci molto differenti. Quadrupedi pelosi, graziosi, addirittura deliziosi. Del tutto inermi contro la voracità del grosso becco giallo.

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Fabbrichiamo qualche punta con il vetro di ossidiana

ossidiana

Se soltanto potessi avere, come il cacciatore primitivo, un’invitante masso della pietra lavica effusiva, liscia e nera, frastagliata all’occorrenza…Ossidiana, oh si. Ne taglierei un corposo pezzettino, usando come cuneo l’ultima propaggine di un corno d’artiodattile, forse un cervo eppure non si sa. Magari un dinosauro! Lo percuoterei più volte con un piccolo sassetto, ricavandone un goccione dall’aspetto affascinante. Come l’orecchino di un gigante dignitoso. Quindi lentamente, accanendomi su quell’oggetto, lo renderei alla fine triangolare; ma con due tacche, per legarlo meglio ad un bastone. Poi lo lancerei…
I nostri antenati non erano di certo stupidi, anzi! Avevano soltanto meno mezzi ereditati dai progenitori. Anche noi, privati dei portali dell’e-Commerce di settore, dovremmo andare in giro per comprare gli strumenti della caccia. E magari senza i centri commerciali, invenzione anch’essa assai recente, finiremmo dentro a piccole botteghe di artigiani, dediti a quel campo da generazioni. O addirittura prima delle specializzazioni umane, un chiaro segno del progresso, saremmo andati in giro per i boschi, alla ricerca della pietra adatta al nostro anélito del giorno. Che avrebbe risposto, di volta in volta, ai bisogni di ciascuno: pensate a quegli ominidi Australopitechi, parecchio scimmieschi nell’aspetto, che si ritrovarono a scoprire l’uso degli attrezzi. Loro che per primi e soli, bipedi dominatori, decisero di stabilirsi in una Valle ormai Perduta. Non avevano una casa, né una valida misura d’umiltà. Ma il desiderio e soprattutto lo strumento, per trovare la ragione: l’antica pietra, palaios lithos, simbolo del Paleolitico di 2 milioni e mezzo di anni fa.
Fu probabilmente trascinante, addirittura epocale, l’attimo in cui la prima bestia cadde sotto il proiettile di una frana mai avvenuta. Bensì emulata, per mangiare, dalla mano lanciatrice di qualcuno; i cui figli, forse pronipoti (allora la tecnologia nasceva al giro di generazioni) arrivarono a capire che, si, non tutti i sassi sono uguali. Ce ne sono di pesanti, opachi, leggeri o trasparenti. E in rari casi, dotati della punta per trafiggere la dura scorza delle cose. Fossero anch’esse, metti caso, con gli zoccoli e gradevoli da consumare, sopra il fuoco di un primévo barbecue. Quindi perché non favorire l’occorrenza di una tale fortuita coincidenza? Anche se ci vuole olio di gomito ed applicazione, tanto vale trasformarle, tali pietre, verso il non-plus ultra della caccia. Era, questa in particolare, la Smith & Wesson degli antenati, un vantaggio nella vita vera. Si trovava esclusivamente nei dintorni dei vulcani. I primi strumenti fatti con un tale materiale, secondo gli studi archeologici più accreditati, risalgono soltanto a quel Neolitico di un intero milione d’anni successivo, quando già i cacciatori maggiormente coraggiosi si arrischiavano a sperimentare la fusione dei metalli. Un procedimento complesso e macchinoso. Niente a che vedere con la valida certezza, la perforazione di una freccia d’ossidiana.

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