Avete mai considerato il caso di una laguna che improvvisamente, nel giro di una singola notte, si trasforma in un lago? Non è perfettamente chiaro nel conciso racconto dell’epoca di fra Buenchillo, prete della parrocchia di Sala, quale fu il momento in cui egli si rese conto che nulla, sarebbe più stato lo stesso. In termini di popolazione, fiducia delle persone in Dio e addirittura, la geografia stessa di Luzon, principale terra emersa dell’arcipelago delle Filippine. Mentre si affrettava, in quella tragica sera del 28 novembre 1754, nella comunità ricoperta di ceneri e lapilli, abbandonando la falsa sicurezza della chiesa per unirsi al gremito gruppo di profughi, in fuga verso la vicina capitale Manila da uno degli eventi geologici e vulcanici più terribili della storia: la deflagrazione finale del Taal, sopraggiunta dopo circa due mesi di attività intensa, capace di rovesciare letterali tonnellate di materiale incandescente su tutti coloro che erano stati sufficientemente incauti, o disperati, da erigere le proprie mura domestiche alla diretta portata della sua furia. Si è soliti affermare, in effetti, che un cono di fuoriuscita dalle viscere incandescenti del nostro pianeta “incomba” sopra le sue potenziali vittime, con le sembianze di un massiccio del tutto paragonabile a quello di una montagna. Mentre nel caso specifico e con i suoi appena 311 metri attuali di altezza (nessuno sembrerebbe ricordare quella antecedente a un simile disastro) il secondo vulcano più attivo della sua nazione rientra nella categoria dei cosiddetti casi “complessi” ovvero formati da una pluralità di possibili punti d’eruzione, flussi di lava e lanci di rocce piroclastiche verso destinazioni ignote. Ma forse sarebbe più corretto affermare come la catastrofica deflagrazione, probabilmente di tipo freatico ovvero subacquea, risalente al XVIII secolo costituisca in effetti la maggiore tra quelle sperimentate direttamente dagli umani, laddove quella più devastante nelle pregresse vicende di un simile mostro paesaggistico possa soltanto essere quella capace di formare l’originale caldera, databile soltanto in maniera drammaticamente approssimativa tra i 140.000 e i 5.380 anni fa. Fatto sta che un simile evento, allora come nuovamente nel corso di quello che viene normalmente ricordato come il secolo della Scienza, ebbe la capacità di chiudere quel che era precedentemente aperto, costituendo il perfetto bacino anoreico per la formazione di un lago, all’esterno del quale, di nuovo e a distanza di un tempo eccezionalmente lungo, se ne sarebbe formato un altro. Il che ci porta, aggiungendo al quadro generale la piccola terra emersa nel centro della caldera interna, creatasi probabilmente con processi simili a quelli del tipico “duomo” di lava (accumulo di materiale lavico soggetto ad indurimento) al singolare record di quella che risulta essere la maggiore isola, all’interno di un’isola, all’interno di un’altra isola (quella di Luzon). Benché risulti inerentemente difficile nel momento in cui scrivo comprendere, allo stato attuale delle cose, l’effettiva continuativa esistenza di tale insolita caratteristica del paesaggio, data l’enorme nube di cenere che insistentemente sovrasta questo celebre luogo, a seguito della recente nuova sequenza eruttiva iniziata esattamente due giorni fa, il 12 gennaio del 2020. Dopo un lungo periodo di inattività durato 43 anni, benché fortunatamente le autorità locali abbiano avuto successo nel prevenire, in epoca odierna, l’insediamento in zone eccessivamente vicine alla zona calda, prevenendo le letterali migliaia di morti calcolate a seguito dell’evento precedentemente narrato così come quelle verificatosi tra allora ed oggi nel 1911, causa l’irresistibile attrattiva del fertile suolo dell’isola formata dal Taal e le pescose acque, prima marine e quindi lacustri, che fin da tempo immemore l’avevano circondato.
Il che non vuole certo sminuire la terribile eminenza dell’evento corrente, capace di raggiungere nel giro di sole 48 ore l’elevato grado di allerta 4 del PHIVOLCS (Philippine Institute of Volcanology and Seismology) oltre ad offrire una vista di prima classe su uno dei fenomeni più straordinari e memorabili della natura…
montagne
Questa roccia vivente è più antica dell’Impero Romano
É una fondamentale realtà per ogni essere vivente, la maniera in cui, nella maggior parte delle situazioni, l’unione costituisca un sinonimo di forza. Quella tra le cellule dell’organismo, un tempo concepite dai processi naturali come monadi del tutto indipendenti, finché la necessità di sopravvivere, ed in qualche modo prosperare, non ne ha enfatizzato determinate funzioni di caso in caso, rendendole complementari. Ciò detto, esiste il caso di un sistema addirittura più efficiente: quello che si genera grazie al processo di adesione. Compatta, indivisibile corrispondenza, tra creature totalmente indipendenti in linea di principio, che del resto formano colonie, proprio perché questo basta a renderle del tutto impervie al più terribile dei loro avversari: il tempo. Pensate per esempio all’alveare, che rinasce identico al principio delle singole stagioni; oppure alla natura del corallo, scheletro rosato di una plurima e minuscola collettività; ed ancora a certi tipi di coltura batterica, con protisti o microbi perfettamente in grado di clonare se stessi ad infinitum. Ma è soltanto unendo un simile princìpio alla natura estremamente longeva del mondo vegetale, che possiamo giungere alla casistica del tipo più ESTREMO di creatura. Quello che troviamo qui rappresentato grazie all’esemplare notevolmente imponente di Yareta, o Azorella compacta che dir si voglia, che forse al momento in cui Ottaviano Augusto concentrava su di se tutti i poteri della Repubblica, giaceva perfettamente identica ma un po più piccola, nelle sabbiose distese degli alti deserti andini. A cosa ci è possibile, del resto, far corrispondere il concetto di “individuo” se non la specifica continuazione di una singola cosa, con perfetta identità di luogo, aspetto e funzionalità… Come la verde coperta che ogni cosa ricopre, crescendo alla notevole (!) velocità di 1,5 cm l’anno. Eppure, contrariamente a quanto si potrebbe tendere a pensare, la yareta non è affatto un muschio, non è un semplice licheno, bensì un’effettiva pianta legnosa capace di fiorire e far frutti in primavera ed estate, fatti giungere a maturazione nel corso di circa 15 settimane. Imparentata, alquanto sorprendentemente, alle ombrellifere (Apiacee) come il prezzemolo e la carota, in forza della tipica vastità omni-inclusiva della tassonomia vegetale. Ma le somiglianze, come potrete facilmente immaginare, sono tutt’altro che evidenti, data la natura straordinariamente estrema del suo habitat d’appartenenza: le pendici e le asperità del Sudamerica, tra Cile, Perù e Argentina, dove l’assenza di piogge regolari è superata soltanto dal soffio gelido del vento proveniente dal Pacifico, in grado di devastare qualsivoglia tentativo di sopravvivenza vegetativa.
A meno, s’intende… Che questo riesca a svilupparsi in maniera tanto densa e compatta, frutto della collaborazione collettiva, da riuscire a trattenere al tempo stesso calore ed umidità, raggiungendo uno stato d’aggregazione in grado di superare qualsiasi difficoltà. Persino il passaggio dei secoli ulteriori, superati per durata l’uno dopo l’altro, come fossero i lombrichi nel fertile suolo di un’impossibile foresta delle Ere…
I due villaggi iraniani scavati nel tufo di un antico vulcano
Vivere all’interno di una grotta presentava, per l’uomo primitivo, alcuni significativi vantaggi: protezione dalla pioggia, dal freddo ed altri tipi d’intemperie. Un luogo sicuro in cui custodire il cibo. La certezza di non essere aggredito nottetempo dai predatori e così via a seguire. Caso vuole che ancora in epoca medievale, tuttavia, ci fosse più di un’ottima ragione per scegliere un simile stile di vita; la maggiore delle quali, senza il benché minimo dubbio, era l’opportunità di soggiornare via dagli occhi e dal pericolo implicato da determinate circostanze. Vedi quella, certamente problematica, di un’intero paese appeso al filo di un trattato di pace stipulato con il vecchio Genghis Khan. Secondo lo storico Juzjani, firmato con le più ottime intenzioni dallo shah persiano Ala ad-Din Muhammad II, se non che la fame di conquiste e di saccheggi del popolo mongolo l’avrebbe inevitabilmente portato, nel 1219, in rotta di conflitto con l’impero di Khwarezmia, principale dinastia sunnita di origine mamelucca, centrata grossomodo sull’odierna provincia dell’Azerbaigian Orientale. Le cui genti di un contesto rurale, ancor prima dell’esercito e gli abitanti delle grandi città, avrebbero ben presto risentito delle circostanze di dover nutrire, loro malgrado, le sconfinate orde intente a condurre una campagna militare sulla loro stessa terra natìa. Un contesto in grado di giustificare, certamente, il gesto estremo delle genti di Hilevar, villaggio situato a circa 40 Km dalla capitale Tabriz, che alle prime avvisaglie del pericolo, demolirono ogni struttura a livello della strada, trasferendosi completamente nelle caverne sotterranee, residui geologiche di precedenti eruzioni del massiccio stratovulcano di Sahand. Ma vuole il caso che un segreto dura solo quanto la capacità collettiva di mantenerlo, così che i saccheggiatori, a un certo quanto indefinito punto della storia, avrebbero costretto i contadini a ritirarsi ancor più in alto sopra le pendici di una terra tanto impercorribile, ove i loro fidi cavalli non avrebbero mai potuto galoppare. Portandoli a riscoprire ed insediarsi in un complesso sotterraneo d’epoca preistorica, destinato a ritornare noto, dopo il termine di quel conflitto, con il nome di Kandovan.
Ora Kandovan significa, in lingua farsi, “alveare” e non certo difficile capire la scelta di una simile metafora. Dato l’aspetto assolutamente unico di questo centro abitato, oggi un’attrazione turistica di peso per la regione di Osku, concettualmente non dissimile dalla terra mistica di una qualche comunità d’elfi o nani dei racconti fantastici contemporanei: con letterali centinaia di persone (alcune guide affermano siano più di 600) ormai da molte generazioni abituate a vivere all’interno delle naturali strutture rocciose frutto, in egual misura, di eruzioni laviche e l’implacabile processo scultoreo degli elementi. Chiamate, per l’appunto, camini delle fate o per antonomasia Hodoo…
Il ponte di pietra tra i due templi più elevati della Cina
Una costante di molte religioni della Terra è il concetto di una suddivisione verticale in base ai meriti, soprattutto nelle fasi dell’esistenza verso cui transitano le nostre anime o coscienze, una volta che il copro fisico ha esalato il suo ultimo respiro. E sebbene non esista una cognizione universale del bene sopra ed il male sotto, appare implicito nel nostro modo di ragionare che il cielo sia in qualche modo collegato alle gesta degli uomini nobili, mentre il sottosuolo sia dove hanno sede, in una forma o nell’altra, gli aldilà punitivi nei confronti di chi ha violato i princìpi del Karma, non si è adeguatamente Pentito, etc. Ed ecco perché, forse, in tutta l’area rurale del vasto entroterra cinese, i luoghi di culto appartenenti alle tre principali discipline spirituali del paese (Confucianesimo, Taoismo e Buddhismo) trovarono una costante collocazione sugli alti picchi ed in mezzo alle nubi, come raffigurato su innumerevoli rotoli dipinti, paraventi, ventagli ed altre immagini ormai entrate a pieno titolo nel nostro sentire globalizzato. Edifici o altre strutture votive che appaiono, in alternanza con gli alberi dalle conturbanti ramificazioni, sopra le linee curve ininterrotte capace di suggerire all’osservatore l’idea di evanescenti catene montuose sospese tra le nubi, in un mondo alternativo difficile da afferrare persino per la nostra poliedrica fantasia interpretativa. Luoghi come la regione del Guizhou, particolarmente celebre per aver ispirato, col suo paesaggio inusitato, il colossal cine-informatizzato di James Cameron del 2009, Avatar.
Ciò che distingue in modo particolare, tuttavia, il complesso di Faning o Fanjingshan (梵净山, unione di caratteri che si richiama in forma abbreviata al Monte del Signore dei Cieli Brahma) è la particolare configurazione dei suoi edifici, con il tempio propriamente detto, utilizzato per la prima volta durante la dinastia dei Song Meridionali (1127-1279) dai monaci appartenenti alla setta del Loto Bianco coadiuvato dalla surreale presenza di una coppia di santuari collocati su uno sperone roccioso soprastante, nei fatti punto più elevato del massiccio montuoso con la sua altezza di 2493 metri, definito talvolta “Un’isola di roccia metamorfica in un mare di formazioni calcaree”. Ma verso il quale ancor più spesso, troviamo attribuito il nome di Vecchia Cima Dorata, in funzione del ruolo fondamentale che essa riveste nell’articolata graduatoria dei toponimi buddhisti, subito sotto le Cinque Grandi Montagne e con una funzione per il mondo materiale che potrebbe risultare, sotto un particolare punto di vista, persino la più importante: ospitare il corpo fisico di Maitreya, reincarnazione futura del Buddha storico Sakyamuni, che dovrà far ritorno sul nostro pianeta in un’Epoca ancora indeterminata, per condurre coloro che sapranno accogliere il suo insegnamento verso l’estasi senza fine del Nirvana. Sorpassando, con un rapido balzo interdimensionale, i lunghi anni che persino i migliori tra noi dovrebbero trascorrere in Paradiso, poco sopra le nubi di un così irraggiungibile luogo, prima di poter raggiungere lo stato ancor più desiderabile del totale annullamento dell’Io. Perché già, a chi non piacciono le scorciatoie? Vedi, tanto per venire finalmente a noi, quella del sottile ponte di pietra che unisce i due piccoli templi, situati oltre il punto in cui la Vecchia Cima subisce una sorta di biforcazione, affinché gli 8.000 scalini necessari per raggiungerla non debbano trasformarsi, per i pellegrini maggiormente devoti, nella cifra ancor più impressionante di 16.000 (andata E ritorno!)