Per molte delle sue generazioni, corrispondenti a 75 rivoluzioni del pianeta, l’antico popolo delle zone più aride del Corno d’Africa era restato relativamente tranquillo, in attesa del verificarsi delle condizioni considerate idonee. Ogni anno in fiduciosa attesa di una pioggia leggermente più battente fino alle prime settimane dell’estate, accompagnate da un clima soltanto un poco meno secco ed altrettanto favorevole, per questo, alla deposizione di una maggior quantità di uova. Talvolta seguìta, come da programma, da un assalto alle regioni fertili delle confinanti nazioni. Con il volgere arbitrario dell’annuale calendario, tuttavia, corrispondente in queste latitudini ai mesi più caldi dell’anno, si è verificato quanto in molti, per troppo tempo, avevano tentato d’ignorare: l’evento senza compromessi residui. Ne alcun tipo di rimorso… Mentre plurimi sciami da 150 milioni circa d’esemplari, e un’ampiezza di 60×40 Km in totale, si sono sollevati in volo sulla fine di questo terribile gennaio 2020. Con l’intenzione molto ferma e implicita, purtroppo reiterata, di fagocitare ogni cosa. Ortotteri: spiriti di un tempo antecedente all’uomo, quando le piante commestibili nascevano in maniera naturale, risultando insufficienti a sostenere tali assembramenti di volatili che creature. Ma che oggi, grazie ai vantaggi impliciti della modernità, possono diffondersi come le fiamme di un incendio o il virus dell’annientamento finale, lasciando dietro di se soltanto carestia e distruzione.
Segnalato per tempo dall’apposito Centro per l’Osservazione delle Locuste presso la sede della FAO di Roma, eppure non di meno, sostanzialmente inarrestabile attraverso l’intervento dell’uomo. Con ragioni di varia natura, riassumibili sostanzialmente nella coppia di espressioni: “Ce ne sono troppe” e “Coprono un’area eccessivamente ampia”. Tralasciando infatti i tentativi autogestiti da parte degli agricoltori ed abitanti kenyoti (ma già gli sciami minacciano di estendersi anche in Etiopia a settentrione) semplicemente insufficienti ad arginare l’ondata distruttiva delle piccole, spietate creature, anche l’opera di enti governativi e organizzazioni benefiche deve scontrarsi con l’impossibile ed inaccettabile necessità di spargere pesticidi in un territorio ampio un minimo di 250 campi da football, spesso posti in fila lungo terre remote, politicamente instabili e dal clima straordinariamente inospitale. Mentre ogni tentativo di sfruttare i loro nemici naturali, come uccelli, rettili, vespe parassite o larve di coleotteri, si è rivelato essenzialmente inefficace, per l’inusitata quantità di esseri costituenti il fluido e inafferrabile bersaglio di una tale strategia. Il che vale, d’altra parte, anche per un’ipotetica consumazione degli insetti da parte degli umani, iniziativa paragonabile a quella di voler bere tutta l’acqua di uno tsunami. Allo stato attuale della situazione dunque, posti di fronte al pericolo di un simile ammasso di locuste in grado di consumare l’equivalente del proprio peso unitario in cibo, gli enti preposti stanno iniziando a considerare questo inizio anno come il probabile periodo peggiore sotto questo punto di vista nell’intero secolo trascorso. Considerate, a tal proposito, come uno sciame grande quanto il Niger o il Mali possa consumare in un giorno l’equivalente in cibo della metà della popolazione dei rispettivi paesi. O come un’ipotetico squadrone capace di coprire totalmente la città di Parigi possa, ipoteticamente, fagocitare una materia vegetale equivalente a quella necessaria per il sostentamento di metà della Francia. Sarebbe assai difficile, a questo punto, sopravvalutare in qualsivoglia modo l’entità cruciale dei prossimi mesi…
disastri
Aperte per l’incendio nuove prospettive sull’architettura aborigena della Preistoria
Cessato il vento in questo tragico 2020, il fumo finalmente si disperde. L’aria torrida, eppur limpida dei mesi estivi torna a governare l’ampia terra dei koala, nella parte sud-occidentale dello stato di Victoria, una delle parti d’Australia maggiormente colpite in questo periodo di devastanti incendi stagionali. Ma è durante la perlustrazione tramite elicottero, al fine di quantificare i danni, che le personalità preposte scorgono qualcosa di assolutamente inaspettato: proprio lì, dove più di 30.000 anni fa il corso delle piogge si era incanalato, in modo naturale, per la pista non del tutto permeabile dello scivolo di lava, venuto a formarsi causa l’eruzione del possente monte Budj Bim.
Niente più vegetazione, dunque, erba o alberi, capaci di coprire le tracce di un qualcosa che possiamo riconoscere in maniera istantaneamente chiara: per il semplice fatto che, non soltanto siamo soliti apprezzare simili caratteristiche del paesaggio; molto spesso, le costruiamo ancora. Canali, assai profondi e regolari, scavati in mezzo alla radura dagli antichi popoli di questi luoghi. Con una finalità specifica ormai chiara, da parecchi anni… Fu in effetti per primo George Augustus Robinson, costruttore e predicatore inglese, a scrivere nel 1841 a proposito di un tratto di palude nei dintorni di Mt. William scoperto durante una spedizione: “[Abbiamo qui] un enorme sezione di territorio con canali ed argini, simile all’opera dell’uomo civilizzato ma che a un’ispezione più approfondita risulta essere l’opera degli aborigeni australiani, messa in opera con l’obiettivo di catturare le anguille”. Un fine che nei fatti, risultò straordinariamente utile, nel permettere alla popolazione residente dell’etnia Gunditjmara (alias Dhauwurd Wurrung) di sopravvivere praticando uno stile di vita stanziale sin dall’epoca di 6 millenni prima di Cristo, nonostante mancassero ancora di conoscere l’agricoltura. Esatto! Non si tratta di un’esagerazione: stiamo qui parlando della chiara traccia archeologica di un popolo più antico, tra le altre cose, delle piramidi egiziane. E della loro straordinaria abilità nel catturare in maniera sostenibile, attraverso un metodo paragonabile all’allevamento sistematico, l’equivalente coévo dell’attuale popolazione locale di Anguilla australis, un pesce noto per le sue frequenti migrazioni dai laghi dell’entroterra fino al mare. Così che chiunque, motiva dalla fame, avrebbe potuto facilmente catturarne quantità copiose, con il fine di nutrire in modo soddisfacente le genti del villaggio, per una generazione o due. Ma quello che costoro furono in grado di realizzare fu molto, molto di più: come accertato attraverso le ricerche archeologiche dell’ultimo secolo, non ultima quella iniziata poche settimane fa in funzione della nuova sezione scoperta in seguito all’incendio, il loro sistema di canali scavati nel basalto (perché è di questo che si tratta) aveva specifiche diramazioni, fornite di dighe e sbarramenti, capaci d’instradare l’acqua con il proprio contenuto ittico all’interno di pozze artificiali, dove le anguille restavano confinate fino al momento in cui se ne rendeva necessaria la consumazione. Mentre la cattura propriamente detta, possibile nel corso dell’intero anno, avveniva tramite speciali trappole costruite con canne e lunghi fili d’erba intrecciati, simili a un cilindro con due aperture, una grande e l’altra più piccola. Così che, secondo quanto ritenuto probabile, il pesce serpentino entrava da una parte per poi restare incastrato con la testa che sporgeva dall’altra; frangente in cui, in maniera repentina ed esperta, l’aborigeno poteva moderne la nuca, uccidendolo istantaneamente. L’intero territorio culturale del Budj Bim, disseminato di resti evidentemente appartenuti a insediamenti umani come capanne di pietra e luoghi di sepoltura, è stato quindi iscritto nel corso del 2018 nell’elenco dell’UNESCO, acquisendo la tutela su scala internazionale come importante patrimonio storico dell’umanità, mantenuto notevolmente integro grazie alle attenzioni della popolazione locale. Benché, come spesso capiti a margine di simili siti, tale situazione ideale non abbia avuto di concretizzarsi fino all’acquisizione della moderna coscienza della Storia…
La storia dell’isola che minaccia l’isola delle Filippine
Avete mai considerato il caso di una laguna che improvvisamente, nel giro di una singola notte, si trasforma in un lago? Non è perfettamente chiaro nel conciso racconto dell’epoca di fra Buenchillo, prete della parrocchia di Sala, quale fu il momento in cui egli si rese conto che nulla, sarebbe più stato lo stesso. In termini di popolazione, fiducia delle persone in Dio e addirittura, la geografia stessa di Luzon, principale terra emersa dell’arcipelago delle Filippine. Mentre si affrettava, in quella tragica sera del 28 novembre 1754, nella comunità ricoperta di ceneri e lapilli, abbandonando la falsa sicurezza della chiesa per unirsi al gremito gruppo di profughi, in fuga verso la vicina capitale Manila da uno degli eventi geologici e vulcanici più terribili della storia: la deflagrazione finale del Taal, sopraggiunta dopo circa due mesi di attività intensa, capace di rovesciare letterali tonnellate di materiale incandescente su tutti coloro che erano stati sufficientemente incauti, o disperati, da erigere le proprie mura domestiche alla diretta portata della sua furia. Si è soliti affermare, in effetti, che un cono di fuoriuscita dalle viscere incandescenti del nostro pianeta “incomba” sopra le sue potenziali vittime, con le sembianze di un massiccio del tutto paragonabile a quello di una montagna. Mentre nel caso specifico e con i suoi appena 311 metri attuali di altezza (nessuno sembrerebbe ricordare quella antecedente a un simile disastro) il secondo vulcano più attivo della sua nazione rientra nella categoria dei cosiddetti casi “complessi” ovvero formati da una pluralità di possibili punti d’eruzione, flussi di lava e lanci di rocce piroclastiche verso destinazioni ignote. Ma forse sarebbe più corretto affermare come la catastrofica deflagrazione, probabilmente di tipo freatico ovvero subacquea, risalente al XVIII secolo costituisca in effetti la maggiore tra quelle sperimentate direttamente dagli umani, laddove quella più devastante nelle pregresse vicende di un simile mostro paesaggistico possa soltanto essere quella capace di formare l’originale caldera, databile soltanto in maniera drammaticamente approssimativa tra i 140.000 e i 5.380 anni fa. Fatto sta che un simile evento, allora come nuovamente nel corso di quello che viene normalmente ricordato come il secolo della Scienza, ebbe la capacità di chiudere quel che era precedentemente aperto, costituendo il perfetto bacino anoreico per la formazione di un lago, all’esterno del quale, di nuovo e a distanza di un tempo eccezionalmente lungo, se ne sarebbe formato un altro. Il che ci porta, aggiungendo al quadro generale la piccola terra emersa nel centro della caldera interna, creatasi probabilmente con processi simili a quelli del tipico “duomo” di lava (accumulo di materiale lavico soggetto ad indurimento) al singolare record di quella che risulta essere la maggiore isola, all’interno di un’isola, all’interno di un’altra isola (quella di Luzon). Benché risulti inerentemente difficile nel momento in cui scrivo comprendere, allo stato attuale delle cose, l’effettiva continuativa esistenza di tale insolita caratteristica del paesaggio, data l’enorme nube di cenere che insistentemente sovrasta questo celebre luogo, a seguito della recente nuova sequenza eruttiva iniziata esattamente due giorni fa, il 12 gennaio del 2020. Dopo un lungo periodo di inattività durato 43 anni, benché fortunatamente le autorità locali abbiano avuto successo nel prevenire, in epoca odierna, l’insediamento in zone eccessivamente vicine alla zona calda, prevenendo le letterali migliaia di morti calcolate a seguito dell’evento precedentemente narrato così come quelle verificatosi tra allora ed oggi nel 1911, causa l’irresistibile attrattiva del fertile suolo dell’isola formata dal Taal e le pescose acque, prima marine e quindi lacustri, che fin da tempo immemore l’avevano circondato.
Il che non vuole certo sminuire la terribile eminenza dell’evento corrente, capace di raggiungere nel giro di sole 48 ore l’elevato grado di allerta 4 del PHIVOLCS (Philippine Institute of Volcanology and Seismology) oltre ad offrire una vista di prima classe su uno dei fenomeni più straordinari e memorabili della natura…
Lasciare l’edificio in fiamme sulle ali di un fiore d’argento
Immaginate di trovarvi nel seguente caso: siete in bilico sul davanzale, al 58° piano di un palazzo in fiamme. Le vostre scarpe appoggiate, una di fianco all’altra, sulla morbida moquette dell’ufficio, mentre con le braccia vi reggete alla cornice della finestra inoperabile, dal vetro fatto a pezzi grazie all’uso di una sedia girevole, ora gettata al suolo accanto a voi. I vostri occhi spalancati che scrutano innanzi, verso la porta che si apre in corridoio, da cui proviene un minaccioso fumo nero. Mentre percepite il peso di un oggetto di circa 25 Kg, situato come zaino sulla vostra schiena, che minaccia di tirarvi fuori da un momento all’altro, trascinandovi verso l’abisso dell’ultima non-vita. Ed è allora che contando fino a quattro, siete voi ad anticiparlo, tirando al massimo il lungo pezzo di spago (che in realtà sembra, possibile? Un guinzaglio allungabile per cani) il quale libera l’energia contenuta in un solenoide, riempiendo di gas espandibile la forma rannicchiata dentro a quel contenitore a spalla. D’un tratto, sentite l’effetto di una forza impressionante che vi chiama in Paradiso. E prima ancora che possiate esalare un singolo respiro, andate via…
La questione da considerare in merito al corpo umano è che può anche risultare fragile, ma non poi tanto Fragile! Ragion per cui diverse situazioni, all’apparenza irrisolvibili, possono anche andare incontro ad un epilogo felice. A patto di disporre di un mezzo appropriato che possa essere capace di tirarvi fuori dai guai. Contingenze dal pericolo gravoso, come quelle di un alto edificio che, a causa di un disastro oppur l’intento distruttivo di qualcuno, si è trovato all’improvviso avvolto dall’effetto ed i bagliori della distruzione termica di tutto quello che contieneva. Cosa fare, dunque, quando ci si trova sopra il tratto divisorio tra la vita e la morte? In molti, ahimé, conoscono l’orribile risposta. Poiché hanno conosciuto, in un momento o l’altro della copertura mediatica di tali eventi, il gesto estremo di chi ha innanzi l’impossibile finale decisione, tra morire lentamente soffocati ed ustionati oppure farlo in modo rapido e (si spera) meno doloroso, con il privilegio aggiunto di restare gli unici padroni del proprio destino, fino al tonfo dell’impatto subito seguito dall’oscurità del nulla. Ma se ora vi dicessi che, in futuro, un simile gesto potrebbe anche essere fatto con criterio e la certezza di svegliarsi per vedere l’alba successiva, nonostante sia passata l’ora del disastro fatale? Già, proprio grazie ad uno di quegli specifici sistemi, definiti “soluzioni di salvataggio”, che diverse compagnie hanno avuto modo di proporre, successivamente all’ora tragica delle due Torri, con variabile successo commerciale ed un servizio o due nelle rubriche dei telegiornali. Tecnologa in questo caso russa benché l’attenzione alla sicurezza individuale, generalmente, non trovi collocazione nello stereotipo pubblico di quel paese. Ed in effetti nulla, nel presente caso, parrebbe il prodotto di una sessione di brainstorming alimentata con vodka e musica trance… Escluso forse il rendering pubblicitario, tendente a far apparire l’oggetto di tale promozione ancor più assurdo di quanto non sia in realtà, nonostante il fatto che il funzionamento dello stesso sia una chiara conseguenza dell’Era Spaziale. Capace di traghettare un’ipotetica astronave sul suolo di Marte, oppure voi medesimi oltre il fuoco purificatore, presso questo marciapiede del livello strada che è sinonimo di un altro giorno da trascorrere, serenamente, sulla Terra.