Cronache di un martedì arricchito da una coppia di scoperte interessanti: primo, che secondo uno studio condotto dal Laboratorio Ittico dell’Università di Macquarie a Sydney, Australia, gli squali apprezzano l’ascolto della musica. E secondo, il fatto che a questo mondo esista una particolare specie, il cui genere preferito risulta essere fra tutti quanti il jazz. Senza menzionare come l’aspetto dello squalo di Port Jackson (Heterodontus portusjacksoni) conseguentemente a una simile rivelazione, risulti essere più o meno come te l’aspetteresti: eclettico, profondamente singolare, aggressivamente anticonformista e un po’ nerd. La testa grande, quasi sfaccettata. Gli occhi piccoli e arretrati. Qualcuno ha detto di portare l’apparecchio ai denti? Lui, decisamente, costituisce la conferma che gli abissi non conoscono il mestiere dell’ortodonzia. Detto questo, resta chiaro che siamo di fronte a uno dei mostri carnivori meno orribilmente pericolosi del suo areale di provenienza, con una lunghezza massima di 1,65 metri e un morso quasi gentile, al punto che in un singolo caso documentato nel 2011 a Melbourne un malcapitato bagnante, azzannato alla caviglia, fu in grado di tornare a riva con ancora tutti gli arti e la confusa bestia saldamente assicurata come un pitbull dall’incerta provenienza. Un’esperienza priva di conseguenze mediche serie, eppur non propriamente da ripetere, come esemplificato dalla prima parte del nome in greco quasi-maccheronico dell’animale, riferito a quell’insolita caratteristica di possedere denti ben differenziati sulla base della posizione, ovvero piccoli e appuntiti sul davanti, piatti e larghi nella parte posteriore. Un po’ come noi, insomma, fatta eccezione per la piatta e larga zona centrale, vagamente simile alla radula di una lumaca marina, usata per raschiare sul fondale e quando sufficientemente fortunati, fare a pezzi il guscio esterno di molluschi, crostacei ed altri componenti basilari della sua dieta. Già: non propriamente il fiero predatore che saremmo prossimi ad associare al concetto di “squalo”, quanto piuttosto un tipico rappresentante degli eterodontiformi (=denti diversi) anche detti testa di toro, creature la cui attività per procacciarsi il cibo tende a consistere largamente nel giacere placidi e in attesa sul fondale, che un qualche odore, campo elettrico o lieve movimento accenda quella lampadina cui fa seguito, immancabilmente, lo scatto rapido della succitata tagliola. Un approccio possibile sfruttando la particolare conformazione delle branchie, collegate nella parte più profonda ai muscoli situati nella mascella, capaci di pompare letteralmente l’acqua ricca d’ossigeno, superando la famosa e problematica rinomata necessità di continuare a nuotare per respirare, presente in molte altre specie di squalo. Non potrà che cominciare ad apparire chiara, a questo punto, l’origine della strana forma cranica di un tale pesce, sopratutto quando lo si guarda da una prospettiva ribassata, con la pluralità di punte, escrescenze, buchi e avvallamenti, ciascuno sede di un diverso organo sensoriale. Difficilmente potremmo affermare, d’altra parte, che il nostro gradito ospite sembri meno bizzarro dalla sua inquadratura, per così dire, migliore…
abissi
Ostriche falliche con trivella, le misteriose termiti dei tronchi abissali
Nel silenzio che precorre l’arrivo di una tempesta alle prime luci dell’alba, un brontolio improvviso rimbomba nella foresta. Quindi un fulmine verticale, affilato come una freccia, colpisce dall’alto la cima di un vecchio faggio sulla riva di un torrente senza nome. Che immediatamente, prende fuoco. Le fronde annerite, i rami consumati, il tronco improvvisamente si spezza in due. Dapprima in maniera lenta e flemmatica, quindi con tutta la rapidità concessa dall’inerzia gravitazionale, svariati quintali di legno parzialmente carbonizzato s’inclinano e iniziano a scivolare lungo l’argine, fino ad inabissarsi al di sotto della superficie delle acque agitate. Sta piovendo, ormai, con tutta la furia di un acquazzone rimandato per lungo tempo, mentre il cielo elettrico lancia i suoi strali da una parte all’altra di quel mondo semi-addormentato. Tanto che il corso delle acque s’ingrossa, minacciando di fare lo sforzo ulteriore, necessario per straripare. Ma la natura, si sa, non vuole questo. In tal modo seguendo la via di minore resistenza, aumenta la velocità di quel flusso, trascinando il defunto legno verso il basso e in avanti, a un ritmo abbastanza sostenuto da discendere la collina, oltrepassare la pianura e sfociare, finalmente, in mare. Passano giorni, quindi settimane. Poiché la decomposizione del legno sott’acqua è notoriamente rapida, non avviene certo spontaneamente. Necessitando, piuttosto, l’intervento di QUALCUNO… O QUALCOSA.
Per quanto concerne la questione dei rari animali capaci di digerire la cellulosa, tra cui principalmente insetti, molluschi e qualche raro caso di mammifero (i.e, castori) si ama indifferentemente dire che essi: “Hanno stabilito una relazione simbiotica con batteri xilofagi presenti all’interno del proprio apparato di conversione dell’energia” il che lascia intendere come in ere preistoriche dimenticate, creature dal grado di sofisticazione maggiore abbiano in qualche modo “accolto” o scelto di “ospitare” microbi capaci di scorporare molecole lignee dall’impossibile digestione. Laddove la realtà, in effetti, può anche venire interpretata in maniera opposto: chi può realmente affermare, dal canto suo, che la suprema intelligenza che governa l’andamento dei processi di questo mondo non derivi principalmente dal molto piccolo verso il consorzio di coloro che credono, erroneamente, di avere il controllo supremo? Di certo non i molluschi bivalvi (alcuni li chiamerebbero ostriche, oppure vongole) dell’ordine Myida, che includono creature con conchiglia come la riconoscibile Pholadidae (anche detta piddock o Ali d’Angelo) o la temutissima famiglia dei Teredinidae (Vermi delle Navi) che per lunghi secoli fecero dei più possenti galeoni le loro abitazioni da trasformare, progressivamente, in segatura. Un consorzio decisamente eterogeneo, dunque, che dall’inizio di aprile potrà trovarsi arricchito di ulteriori tre categorie, grazie alla più recente ricerca portata a termine dalla biologa marina Janet Voight, curatrice del rinomato dipartimento zoologico del Chicago’s Field Museum. Un gesto di pura scienza consistente, essenzialmente, nel posizionare una serie di grossi tronchi a migliaia di metri sotto il mare (Quanti esattamente? Ecco un’altra risposta nascosta dietro il consueto paywall) in corrispondenza di specifiche coordinate a largo della California, nel Mar dei Caraibi e nell’Atlantico Meridionale. Per poi passare al recupero, mediante il poderoso sommergibile oceanografico statunitense DSC Alvin dopo un periodo di 10 o 24 mesi, allo scopo d’identificare esattamente le conseguenze possibili di un tale gesto. Immaginate dunque la sua sorpresa, per non dire vera e propria soddisfazione, quando gli oggetti in questione tornarono sotto la luce del Sole non soltanto macchiati, bensì letteralmente ricoperti da una quantità incalcolabile di brulicanti creature. Tutte assembrate, in un modo oppur l’altro concesso dai propri percorsi evolutivi, attorno all’opera delle più efficienti e specializzate tra loro. Buchi profondi e diritti, come quelli di un trapano da falegname, verso il nocciolo centrale dell’intera questione…
Il fantasma del gambero nell’astronave moribonda
La biotecnologia è quella branca delle scienze applicate, particolarmente cara al mondo della fantasia, mediante la quale cellule viventi possono trovarsi subordinate a un qualche tipo di finalità artificiale, per l’intento futuribile di una diversa (umana o extraterrestre) forma di vita. Non è ad esempio infrequente, nella letteratura di genere, che particolari razze aliene soltanto parzialmente simili a noi decidano di attraversare il cosmo all’interno di vere e proprie astronavi viventi, il cui metabolismo estremamente limitato garantisce una seppur limitata capacità di rigenerazione ed auto sostentamento. Altre volte elementi dall’aspetto organico vengono attentamente coordinati con sezioni di tubi, ingranaggi o capsule spaziali, come fatto dall’artista svizzero H.R. Giger per il famoso alieno xenomorfo, da lui ritratto e concepito con quasi totale libertà creativa, benché in nessun punto della storia venga dato ad intendere che il mostro sia il prodotto di una qualsivoglia inconoscibile tecnologia. Nel frattempo non può essere soltanto un caso, se tra le possibili ispirazioni naturali usate da costui per la creazione più famosa, venga talvolta citato il particolare tipo di plankton iperide/anfipode noto come Phronima, in realtà un membro del sub-phylum dei crostacei, il cui aspetto non soltanto rassomiglia da vicino alla creatura del film (particolarmente nella sua iterazione “regina dell’alveare”, antagonista del secondo episodio) bensì caratterizzato addirittura da abitudini che in qualche modo ne ricordano il terrificante ciclo vitale. Con una sola significativa differenza: quella di essere, se vogliamo, persino più spietato di lui.
Immaginate dunque l’esistenza di una piccola creatura, piccolissima (stiamo parlando di pochi centimetri al massimo) costretta a sopravvivere a molte centinaia di metri sotto il mare e con sostanze nutritive a sua disposizione particolarmente ridotte. Nel terrore pressoché costante del passaggio di sproporzionate mostruosità pinnute, in grado di risucchiarla in un singolo boccone. Una vita grama che, a voler essere ragionevoli, potrebbe ampiamente giustificare ogni possibile tipologia d’efferatezza. Persino l’abitudine saldamente iscritta nel suo codice genetico a cercare, mediante l’uso di occhi relativamente sofisticati e rivolti verso l’alto per ricevere adeguate quantità di luce anche dove ne giunge pochissima, a cercare un qualche gelatinoso e a lei proporzionato esponente dei phylum Cnidaria (meduse) o Chordata (tunicati) per iniziare a torturarli in modo sistematico con le due aguzze chele. Affinché l’animale preda, svuotato di ogni organo ma ancora orribilmente vivo, possa diventare casa, guscio e carrozzina dei suoi piccoli e crudeli eredi. Ciò costituisce un’esistenza certamente grottesca. Eppure, innegabilmente funzionale…
Bagliori nelle tenebre: l’incubo marino del drago nero
Avete mai sentito della condizione nota come paralisi ipnagogica? Totale stasi tra il sonno e la veglia, in uno stato d’immobilità terrificante. Bianca ceramica, come candide sono le nocche delle dita, così saldamente abbarbicate al bordo della vasca giusto mentre il contraccolpo di un tremore impercettibile, con un tonfo clamoroso, fa cadere la bottiglia di sapone esattamente in mezzo ai piedi, nello spazio di gran lunga troppo definito. Ed avviene allora d’improvviso, innanzi ai nostri occhi eternamente spalancati, che l’oggetto fuori posto inizi a scomparire, come risucchiato verso il nulla dell’antimateria. Mentre le luci del bagno tremano, quindi si spengono del tutto e un vortice si forma tra le increspature della… Superficie? Impossibile: la pressione si fa dura ed opprimente mentre l’acqua ci sovrasta, permettendoci una stima approssimativa di 1.500, 2000 metri di profondità (almeno). Una nota sibilante ci accompagna in quei momenti che non sembrano finire mai, mentre l’unica speranza, almeno all’apparenza, è quella luce dondolante che compare vagamente all’orizzonte. Destra, sinistra, come un metronomo perfettamente calibrato. Destra, sinistra. La mano che si estende, lentamente, per toccare l’angelo del focolare. Quindi l’accendersi improvviso di due linee in contrapposizione, sulla forma assai sinuosa di quella che può soltanto essere una sorta di creatura tubolare. Grazie ai fotoni che rimbalzano contro di noi ed un grugno che diventa orribilmente chiaro! Occhi chiari come il latte, denti acuminati. Il lungo tentacolo con l’esca sotto il mento che si mette, molto lentamente, a lato. Mentre le due fauci contrapposte della più terribile condanna, lentamente, molto lentamente si aprono per darci il benvenuto…
Tanto strettamente ha finito per essere associato il termine “idrofobia” alla malattia diffusa tra determinate specie animali causata dal lyssavirus, la rabbia, da aver fatto largamente dimenticare il suo significato etimologico ai più: dalle parole greche ὑδρο, acqua e ϕοβία, paura e sottolineo terrore, una profonda e indicibile avversione, ovvero l’assoluta incapacità di trovarsi alla presenza di anche soltanto poche gocce di quel fluido trasparente che normalmente ci da la vita. Ora immaginate solamente per un attimo, purché non sia eccessivamente orribile, l’esperienza personale di un qualcuno che si trovi in questo stato non a causa della contrazione di uno stato alterato di salute, bensì per l’effettiva e duratura disfunzione dei propri più intimi processi neuronali. Una condizione, in altri termini, comunemente fatta oggetto di studio da parte della psichiatria. La quale avrebbe, proprio in funzione di ciò, la propensione imprescindibile a tentare di risolvere il problema assai diffuso della crisi di panico. Che quando arriva, arriva, persino in un momento all’apparenza salubre come una sessione d’abluzioni mattutine. Ma chi l’avrebbe mai detto che in effetti il pesce vipera, anche detto Drago Nero del Pacifico, non soltanto esista veramente, ma sia almeno tanto terribile, quanto effettivamente appare…