Soltanto perché una cosa viene fatta funzionare in un determinato modo, non significa che sia “l’unico adatto allo scopo”. In determinate circostanze, tuttavia, esso avrebbe costituito effettivamente l’approccio maggiormente idoneo alla finalità di partenza. In un momento imprecisato verso la fine degli anni ’60, le cronache del crimine riportano di una rapina molto fuori dal comune: un uomo, ad oggi senza un nome o un volto, tentò di defraudare degli incassi una stazione di servizio usando una grossa pistola rubata. Si trattava di un modello dall’aspetto particolarmente insolito, con forma squadrata, canna traforata e un peso decisamente inferiore alla media. Tuttavia l’uomo aveva avuto modo di provare l’arma in un poligono improvvisato, e l’aveva trovata soddisfacente e silenziosa, nonostante i colpi avessero una forma e un calibro assolutamente mai visti prima e tendessero talvolta a mancare il bersaglio. Al ritardo da parte del cassiere nel consegnargli il maltolto, dunque, il criminale fece la scelta scellerata di puntargli addosso l’arma a una distanza estremamente ravvicinata, al fine di sparargli non una, non due, bensì addirittura sei volte. Ebbene ora non ci è noto, esattamente, in quali parti del corpo l’implemento letale venne indotto a scatenare la sua furia, benché si trattasse di arti, corpo o perché no, la testa, il risultato fu lo stesso: ciascun singolo proiettile impattò senz’alcun tipo di conseguenza. Come se la vittima di un così efferato tentativo d’omicidio, in effetti, fosse un parente prossimo di Superman, l’uomo d’acciaio in persona. Naturalmente, non è questa la ragione. Semplicemente, a sua insaputa, l’assassino stava utilizzando un tipo d’arma che aveva parametri d’impiego totalmente nuovi. Inclusa una distanza minima, necessaria affinché il proiettile potesse sufficientemente ACCELERARE.
Il mito delle Gyrojet, massimo livello raggiunto in fase progettuale dalla compagnia appassionata di razzi dell’epoca dello sbarco lunare (e collaborazioni con la NASA) MBAssociates, è una di quelle storie tecnologiche che senza l’entusiasmo dei collezionisti e l’incrollabile passione statunitense rivolta a tutto ciò che spara all’indirizzo di una preda, un bersaglio o un nemico della Costituzione Nazionale, sarebbe andata persa nelle nebbie del tempo, come esemplificato dalla famosa citazione di un anonimo funzionario della DARPA (l’Agenzia dei Progetti di Ricerca per la Difesa) che disse “[…] Proprio come il Gyrojet. Se il bersaglio è abbastanza vicino da riuscire a colpirlo, non potrai ucciderlo. Se è abbastanza lontano da ucciderlo [e tira il vento, nda] non riuscirai a colpirlo…” Detto questo, simili pistole, carabine e fucili d’assalto furono prodotti in quantità tutt’altro che trascurabili e persino utilizzati durante la guerra del Vietnam, a causa di alcuni punti di forza estremamente rappresentativi: abbiamo già citato la loro silenziosità e la relativa semplicità e compattezza dell’arma, spesso costruita in una lega di zinco dal nome di Zamac. A tutto ciò aggiungete un’efficacia che aumentava, piuttosto che diminuire con la distanza, sfoggiando una velocità raggiunta dal proiettile in condizioni ideali di 1.250 fps (380 metri al secondo) ovvero circa il doppio di un equivalente munizione calibro .45 ACP. Ma erano proprio il raggiungimento di tali circostanze, a condizionare maggiormente l’effettiva adozione su larga scala delle armi basate sul principio del Gyrojet. Poiché come probabilmente già saprete, un razzo grande o piccolo raggiunge la velocità massima appena dopo l’esaurimento del carburante. Il che poteva effettivamente richiedere, per la versione di un tale implemento da 13 mm di diametro, ehm, volevo dire calibro, esattamente 0,12 secondi. Ovvero 45 centimetri, prima dei quali, l’energia cinetica sviluppata dal mini-razzo è totalmente trascurabile. Ovvero in linea teorica, la vittima della rapina succitata avrebbe potuto mettere la mano direttamente di fronte alla canna dell’arma del suo aguzzino, fermando il colpo con la sola forza delle sue mani. Il che costituiva un problema niente affatto trascurabile, per un’arma concepita per la difesa personale come una pistola. Non che le versioni a canna lunga dello stesso metodo, in effetti, fossero del tutto prive di limitazioni…
storia
Puerto Rico: fiorisce l’albero sacro colpito dalla furia dell’uragano Maria
Palese è la lieta novella, ripetuta dai giornali e televisioni locali dell’isola di Vieques, facente parte della singola nazione più duramente colpita dalla potenza della natura risvegliatosi al termine di un tragico settembre 2017. “La luce elettrica non è tornata quella di un tempo. Le strade sono ancora ostruite dai detriti. L’agricoltura è in rovina. Ma il nostro familiare gigante, dall’età di almeno 400 anni e altrettanti cerchi nel suo tronco terribilmente spinoso, vivrà!” Con i suoi i rami completamente spogli da oltre 18 mesi, l’antico albero che aveva saputo attirare, per generazioni pressoché infinite, l’attenzione indivisa di un vasto pubblico di pipistrelli, principali impollinatori della sua specie, ha infatti prodotto in questo mese di marzo i suoi fiori così lungamente attesi. Affinché nella poltiglia di fango, petali e polline generosamente sparpagliata tutto attorno alle sue impressionanti ed alte radici essi possano tornare a far festa, sotto i rami pendenti per il peso del più famoso tra tutti i baccelli imbottiti di un qualche tipo di “cotone”. Non è dunque certamente un caso, se nel suo areale che si estende tra l’America centro-meridionale e le coste d’Africa all’altro capo dei flutti, svariati esemplari di Ceiba pentandra abbiano assunto il ruolo di simboli di primaria importanza, raffigurati sulle bandiere, cantati negli inni e tratteggiati all’interno dei più svariati sigilli nazionali. A partire da quello probabilmente più famoso di tutti, attorno cui sarebbe sorta nel 1787 la città africana di Freetown. Erano in 400, i guerrieri in fuga verso quella che sarebbe diventata, un giorno ancora lontano, la Sierra Leone…
“Ecco dunque che per la prima volta da molti anni, il sole tramonta sui vasti possedimenti dell’Impero Inglese.” La ricca flora dell’Africa Occidentale circondava il gruppo di schiavi liberati giunti all’altra estremità dell’Atlantico, fino alle coste del continente in cui erano nati e cresciuti i loro genitori. Un falò illuminava la piccola radura all’ombra dell’alto kapok, mentre il distante richiamo del colobo rosso riecheggiava tra fronde distanti. Un distante cuculo smeraldo, appena visibile nel cielo crepuscolare, creava un proporzionato contrasto con l’indistinta sagoma del monte Bintumani. La grande Guerra Rivoluzionaria, ormai, soltanto un ricordo lontano, persino per loro che avevano combattuto sotto il segno dell’Union Jack. E non tanto perché credessero in quella causa, di un’America mantenuta sotto il giogo di coloro che l’avevano colonizzata. Quanto perché facendo seguito a ragioni di convenienza per lo più politica, i portatori delle giubbe rosse avevano promesso che avrebbero spezzato le loro catene. E passando temporaneamente per la provincia marittima candese di Nova Scotia, nonostante la dura sconfitta, così fu. Eppur nessuno dei cosiddetti Black Loyalist, soldati per obbligo e non per scelta, ebbe modo di sentirsi davvero a casa, finché approdata la loro nave prossima all’obsolescenza, non ebbe modo di riposarsi all’ombra del principale esempio della natura in grado di unire coste distanti, grazie alla propagazione in lungo e in largo del materiale genetico vegetale su questa Terra.
Che si scelga dunque di chiamarlo Bana, Kapok, Kekabu, Fromager o persino Kutashalmali, come si usa fare nelle terre d’India dove grazie alla mano dell’uomo, ha ormai trovato terreno fertile da parecchi anni, non lo si può certamente negare: questo è un’albero che unisce ma non divide. Che fornisce ma non chiede. E che nonostante l’elevazione di fino a 70 metri, così potenzialmente vulnerabile alla forza del vento, sopravvive… Per sempre?
Un tuffo nel baratro di Mirny, cuore diamantato della Siberia
Mir, Mirny o Мир. Erano trascorse soltanto alcune decine d’anni, eppure sembravano secoli. Dopo intere generazioni di addetti ai lavori, impegnati nella perforazione e l’ampliamento di quello che restava, ancora oggi, il secondo buco più profondo mai realizzato dall’uomo, i macchinari tacquero finalmente. Per un’ora, due, un giorno, una settimana. Finché non divenne chiaro come un simile stato apparente di quiete, per lo meno in superficie, avrebbe avuto modo d’estendersi a tempo indeterminato. Il sentiero spiraleggiante fino al fondo del baratro iniziò a ricoprirsi di ghiaccio. E fu allora che l’elicottero con cameraman a bordo, recentemente giunto dalla città di Yakutsk situata circa 1.000 Km ad est, scelse d’intraprendere una missione intrigante: mostrare al mondo, o per lo meno alla parte di esso che presentasse un seppur vago interesse, l’aspetto di un’apertura verso le viscere del mondo profonda 518 e larga 1250 metri. Con il suono regolare delle pale mascherato dal sibilo del vento, l’abile pilota diminuì la sua quota con la massima cautela, al fine di migliorare l’inquadratura. Finché all’attraversamento di un confine invisibile, non capitò qualcosa: per ragioni fisicamente poco apparenti, il rotore principale dell’apparecchio iniziò a sviluppare una quantità inferiore di portanza. E mentre perdeva bruscamente di quota, la cabina s’inclinò da una parte e dall’altra, e iniziò quel tipo di rotazione che per i vettori ad ala rotante precede, generalmente, un rovinoso contatto col suolo. Le pareti scoscese si facevano sempre più vicine!
Fama meritata o immeritata che sia, c’è indubbiamente qualcosa d’inquietante nel concetto di una letterale Scilla (o forse si trattava di Cariddi?) delle vaste distese di permafrost dell’Eurasia, capace per un qualche tipo di fenomenologia mitologica d’attrarre, e addirittura fagocitare i più incauti viandanti del cielo tagliato a fette dal rombante motore. A partire da una situazione, almeno fisicamente, in realtà piuttosto chiara: l’aria più calda che sale dal fondo dell’angusta e profonda voragine, generando pericolosi vortici al contatto con gli strati gelidi soprastanti. Con questo effetto sugli aeromobili, secondo svariati resoconti più o meno diretti, potenzialmente letale. Eppure sarebbe decisamente difficile, anche a fronte di una simile conoscenza ed esattamente come nel caso dello stretto citato da Omero, pensare di resistere al richiamo palese di un tale luogo, un tempo fonte irrefutabile di un terzo abbondante di tutti i diamanti introdotti nel mercato globale. Già, una miniera… E per essere più precisi, del tipo a cielo aperto, scavata con le ruspe, la dinamite e talvolta, attrezzatura di tipo manuale appartenente a distanti contesti storici, mentre il flusso pressoché continuo di motori a jet veniva impiegato per sciogliere i ghiacci eterni, permettendo ai minatori di un simile luogo di raggiungere le posizioni preposte alla loro operatività professionale.
Ma la storia della vasta miniera di Mirny, importante punto di riferimento e fondamentale risorsa economica per l’intera quanto remota repubblica di Jacuzia, persino a partire dalla chiusura nel 2004 del suo fossato principale, può trovare una genesi ancor più remota…
Leonardo da Vinci e l’uovo di struzzo che conteneva il mondo
Ci sono nomi, attraverso il corso della storiografia, la cui semplice menzione ai margini di un artefatto, un luogo, una situazione o un evento, tendono a surclassare ogni tipo di considerazione precedente, causando una valutazione del tutto diversa dei fattori effettivamente in gioco. Uno di questi, per lo studio del Rinascimento italiano, può essere senz’altro individuato nella figura dell’uomo d’ingegno universale Leonardo da Vinci, altrettanto importante per la sua arte, quanto riuscì ad esserlo nello studio e l’applicazione di numerose branche embrionali della scienza. Così è piuttosto difficile biasimare l’attribuzione incerta, nonché suggestiva, del curioso artefatto creato a partire da due gusci d’uovo di struzzo incollati assieme, ritrovato in una fiera delle mappe a Londra nel 2012 dal collezionista austriaco Stefaan Missinne, il quale si sarebbe trovato soltanto pochi anni dopo al centro di un letterale vortice d’ipotesi, suggerimenti più o meno accademici ed anche un libro, intitolato, forse per analogia con uno dei romanzi thriller più popolari dell’ultimi vent’anni, The Da Vinci Globe. E tutto ciò per la mera presenza, nel bel mezzo dell’Oceano Indiano per come fu rappresentato dall’incerto autore nel suo piccolo mappamondo, di una piccola barca molto simile alla caracca di un dipinto attribuito a Cristoforo de Predis, che ospitò con la sua famiglia il grande uomo nel 1482, esattamente dieci anni prima della scoperta dell’America ad opera di Cristoforo Colombo.
È importante notare, d’altra parte, come l’uovo in questione non potesse avere origine di sicuro in quel particolare periodo in quanto, e ciò è davvero molto, molto significativo, agli antipodi della suddetta imbarcazione figurava su di esso qualcosa di potenzialmente ancor più inaspettato: un continente triangolare identificato con la dicitura Mundus Novus, corrispondente grossomodo all’America meridionale, sovrastato soltanto da una piccola isola che potrebbe anche ipoteticamente essere la Groenlandia. Il che basterebbe a farne, con la datazione stabilita attorno all’anno 1504, il singolo più antico mappamondo il cui autore si fosse preoccupato di rappresentare uno dei continenti a ridosso dell’Oceano Pacifico, nella parte per così dire occidentale del mondo. Ancor prima, tra l’altro, della fondamentale mappa di Waldseemüller o Universalis Cosmographia, prima rappresentazione bidimensionale della stessa, ritrovata o rinnovata, cognizione da parte dei popoli Europei. In conseguenza di questo, ci misero decisamente poco le testate internazionali e gli altri articoli generalisti a far passare il messaggio che tale monumentale oggetto dovesse essere in qualche modo l’opera delle mani che, in quello stesso anno, avevano dipinto la Gioconda. Il può anche essere plausibile, se non probabile, benché il principale mistero del globo d’origine aviaria sia in effetti di tutt’altro tipo e relativo all’esistenza corrente, presso la Biblioteca di New York, di un altro mappamondo in rame noto fin dal remoto 1855, in cui ogni singolo dettaglio incluse le diciture testuali in bassorilievo ricalca perfettamente quelli che caratterizzano il soggetto di tante parole spese dai sedicenti studiosi dei nostri giorni…