Fabbrichiamo qualche punta con il vetro di ossidiana

ossidiana

Se soltanto potessi avere, come il cacciatore primitivo, un’invitante masso della pietra lavica effusiva, liscia e nera, frastagliata all’occorrenza…Ossidiana, oh si. Ne taglierei un corposo pezzettino, usando come cuneo l’ultima propaggine di un corno d’artiodattile, forse un cervo eppure non si sa. Magari un dinosauro! Lo percuoterei più volte con un piccolo sassetto, ricavandone un goccione dall’aspetto affascinante. Come l’orecchino di un gigante dignitoso. Quindi lentamente, accanendomi su quell’oggetto, lo renderei alla fine triangolare; ma con due tacche, per legarlo meglio ad un bastone. Poi lo lancerei…
I nostri antenati non erano di certo stupidi, anzi! Avevano soltanto meno mezzi ereditati dai progenitori. Anche noi, privati dei portali dell’e-Commerce di settore, dovremmo andare in giro per comprare gli strumenti della caccia. E magari senza i centri commerciali, invenzione anch’essa assai recente, finiremmo dentro a piccole botteghe di artigiani, dediti a quel campo da generazioni. O addirittura prima delle specializzazioni umane, un chiaro segno del progresso, saremmo andati in giro per i boschi, alla ricerca della pietra adatta al nostro anélito del giorno. Che avrebbe risposto, di volta in volta, ai bisogni di ciascuno: pensate a quegli ominidi Australopitechi, parecchio scimmieschi nell’aspetto, che si ritrovarono a scoprire l’uso degli attrezzi. Loro che per primi e soli, bipedi dominatori, decisero di stabilirsi in una Valle ormai Perduta. Non avevano una casa, né una valida misura d’umiltà. Ma il desiderio e soprattutto lo strumento, per trovare la ragione: l’antica pietra, palaios lithos, simbolo del Paleolitico di 2 milioni e mezzo di anni fa.
Fu probabilmente trascinante, addirittura epocale, l’attimo in cui la prima bestia cadde sotto il proiettile di una frana mai avvenuta. Bensì emulata, per mangiare, dalla mano lanciatrice di qualcuno; i cui figli, forse pronipoti (allora la tecnologia nasceva al giro di generazioni) arrivarono a capire che, si, non tutti i sassi sono uguali. Ce ne sono di pesanti, opachi, leggeri o trasparenti. E in rari casi, dotati della punta per trafiggere la dura scorza delle cose. Fossero anch’esse, metti caso, con gli zoccoli e gradevoli da consumare, sopra il fuoco di un primévo barbecue. Quindi perché non favorire l’occorrenza di una tale fortuita coincidenza? Anche se ci vuole olio di gomito ed applicazione, tanto vale trasformarle, tali pietre, verso il non-plus ultra della caccia. Era, questa in particolare, la Smith & Wesson degli antenati, un vantaggio nella vita vera. Si trovava esclusivamente nei dintorni dei vulcani. I primi strumenti fatti con un tale materiale, secondo gli studi archeologici più accreditati, risalgono soltanto a quel Neolitico di un intero milione d’anni successivo, quando già i cacciatori maggiormente coraggiosi si arrischiavano a sperimentare la fusione dei metalli. Un procedimento complesso e macchinoso. Niente a che vedere con la valida certezza, la perforazione di una freccia d’ossidiana.

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Le tegole istantanee del maestro d’ascia americano

Cedar Shingles 1

Cresce un albero, nel Pacific Northwest degli Stati Uniti, che ha dei meriti davvero fuori dal comune. Thuja plicata, o cedro rosso gigante, fa di nome. Appartiene alla stessa famiglia del Cedrus libanese, a noi più noto, benché il genus sia del tutto differente. Ha un aroma straordinario. E si adatta, facilmente, negli ambienti di ogni tipo: prospera dalle paludi sul livello del mare, fino alle foreste costiere dell’Oregon, rese temperate dalla vicinanza con l’Oceano sconfinato. Puoi scorgerlo fin sulle alte rupi delle Rocky Mountains, sopra i picchi delle Olympic o della porzione canadese dell’esteso Cascade Range, in contrapposizione con il ripido orizzonte; sempre spicca quel suo fiore solitario, tra una corona di foglie aghiformi, posto in alto come uno stendardo illuminato dalla luce del mattino. E il suo legno di sostentamento ricompare, come se niente fosse, anche ben oltre le propaggini remote degli agglomerati urbani, fra l’asfalto delle strade, circondato dai lampioni e dalle mura di cemento.  È un perfetto materiale per la costruzione, forse tra i migliori.
Gerald M. Chicalo, viaggiatore esperto di foresteria, titolare di un canale su YouTube e soprattutto autore rinomato per la manualistica di settore, ha approntato il suo sgabello in mezzo a una radura. Tutto intorno, come niente fosse, si può ammirare il risultato di una lunga e fruttosa avventura in mezzo al grande verde: molteplici segmenti, perfettamente levigati, ricavati dai possenti fusti del nostro Redcedar tree. C’è giusto il tempo di ammirarli per un paio di secondi. Lui ne prende uno, lo dispone in verticale, poi vi appoggia un’ascia dalla lama particolarmente longilinea. Quindi, con un piccolo e rusticissimo mazzuolo, dà un colpetto attentamente calibrato: meravigliosamente, si materializza la perfetta lamina di legno. Sarà, questo particolare oggetto, già una tegola, perfettamente pronta all’uso. Il gesto si ripete più e più volte, finché cala la materia prima. Trasformata, tanto facilmente, in un tetto intero. I rivestimenti costruiti con questo legno non richiedono particolari trattamenti. Già l’albero naturalmente, per quanto possa sembrare straordinario a dirsi, secerne un olio profumato che lo rende impervio all’acqua. Oltre a scoraggiare di pari passo, secondo l’opinione comune, l’attacco di tarli, larve di imenotteri e di tutti gli altri insetti xilofagi, inclusa la temutissima termite, vera dannazione di chi costruisce abitazioni fatte prevalentemente di materia vegetale. Come si usa fare, per l’appunto tra gli stati di Washington, dell’Oregon e dell’Alaska. Secondo l’opinione dei rivenditori locali, facilmente reperibile online, mettersi sulla propria bicocca un tale tipo d’impervia protezione sarebbe non solo consigliabile, ma la migliore scelta disponibile. Per chi riesce a procurarselo, cosa non facile con tutto l’Atlantico nel mezzo! Un tetto in Redcedar resiste anche 40 anni, senza altro tipo di manutenzione che quella, del tutto occasionale ma altamente consigliata, di rimuovere il muschio, che vi attecchisce facilmente. Facendolo a pezzi usando come punto di partenza le sue venature. Proprio per questo, il materiale è consigliato in modo particolare a chi dispone di una buona esposizione solare (ma non solo). Ha il vantaggio, inoltre, di avere un peso relativamente contenuto:  tra i 390 e i 400 kg/m3 quando asciutto, circa il 30% in meno delle sue maggiori alternative. Anche per questo, si usa spesso e volentieri in campo musicale, per fabbricare le chitarre.
Trovi un albero, lo abbatti, sorge al posto suo una casa. Nella gestualità di Chicalo, così rapida e spontanea, ancora si intravede il modus operandi del pioniere delle grandi esplorazioni. Colui che si muoveva solitario, armato di tutti gli strumenti, sia fisici che mentali, per sfruttare al meglio la natura. Uno dei metodi migliori di onorarla. Che del resto, anche qui in Italia, trova degli ottimi e diversi fautori…

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Due antennisti sopra il cielo di Chicago

Hancock Center Antenna

Ciò che si staglia, svettando come sagoma riconoscibile dallo sguardo, resta impresso tra sinapsi e intramontabili neuroni. E in ciascuna città  fondata sopra un pregno meridiano, c’è sempre un qualcosa di speciale nello skyline. Un lineamento incantevole, che caratterizzi il volto messo sulle cartoline. Sarà, questo, molto spesso un monumento. Un palazzo molto bello, oppure rilevante, eletto a simbolo di quelli che si giovano della sua ombra. Sia essa antica e misteriosa, tra volute ed archi gotici misticheggianti. Oppure tecnologica e brutale: Chicago, fin dal 1969, ha la suprema torre nera del futuro, con le corna che perforano le nubi e i limiti del mondo. Sarebbe questo il John Hancock Center, dall’altezza architettonica di 344 metri. Ma che ne guadagna facilmente un altro centinaio, se soltanto si considera la cima delle antenne. Facciamolo, per un minuto.
Il video qui presente, che si svolge tutto in prima persona, grazie all’impiego di una telecamera da casco, è stato girato dai tecnici addetti a una demolizione assai particolare: costoro stavano facendo a pezzi, molto evidentemente, il ricevitore arrugginito sulla cima dell’antenna ovest, sulla cima del palazzo, sulla cima di Chicago. L1irnwrkr, l’uploader e co-protagonista del video, racconta di come questa avesse smesso completamente di funzionare, benché l’altra, assolutamente operativa, li avesse costretti ad indossare delle tute specifiche di protezione.  Forse non saranno stati gli uomini più in alto di quel giorno (vedi l’Himalaya); né quelli ospitati sulla cima della struttura più elevata (c’è sempre il Burj Khalifa, la “Torre alta un miglio”) ma certamente erano tra i tecnici maggiormente esposti agli elementi. Un scena memorabile! Il coinvolgimento resta assoluto. Una fortunata unione tra la stabilizzazione digitale, l’alta risoluzione della telecamera, la durata della sequenza e lo splendore della vista metropolitana, genera l’effetto del trovarsi davvero lì, in prima persona. Dopo qualche minuto, quasi sudano le mani sopra la tastiera.
L’occhio umano vede qualche cosa è dice: lascio tutto, questo sarà mio! Lo fa il bambino coi balocchi dell’asilo, come l’esploratore coi recessi del possibile, da lui visti sulle carte nautiche o nell’orizzonte. E sarebbe un gran peccato, recandosi sulle sponde dell’immenso lago Michigan, non inclinare indietro il collo, per provare, con la fantasia rivolta all’edificio, il senso di vertigine assoluto. Ma è troppo facile, progettare l’esperienza in questo modo. Ci vorrebbe invero una valida testimonianza, per capire a pieno l’avventura e ciò implica sperimentarla; quella di chi, per l’appunto, là sopra ci è già stato molte volte. Per lavoro, senso del dovere e…

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Nascita di un aeroplano virtuale

CAE simulator

Un uomo è seduto dentro a un uovo bianco dal diametro di qualche metro, in equilibrio su tre zampe, dentro a un hangar bene illuminato. Cosa sta facendo? Dove sta volando? È un 737, quello? Sembra quasi, in quest’epoca di unboxing per partito preso, che le scatole siano diventate più importanti dei loro contenuti. I giovani appassionati di tecnologia che ricevono il pacchetto dal corriere, non lo aprono semplicemente con due colpi di coltello e una sapiente sforbiciata. Niente affatto: pregustano, piuttosto, quel momento splendido dell’accensione, corroborando le meningi con l’accarezzamento del cartone. Documentando, per i posteri digitali, ogni passaggio del complesso disimballo. Le aziende di maggiore fama, ormai lo sanno. E brandizzano appropriatamente ogni lato del contenitore con pomi lucidi, sapienti monogrammi sagomati, lettere maiuscole e argentate. Fa eccezione, l’Ikea. Poiché quello che si presenta ancora da montare, non ha una confezione che sia degna di essere mostrata. Sarebbe, in fin dei conti, anche il frutto delle mani e della mente di chi lo rende infine utilizzabile, direttamente nei locali della propria residenza. Giustamente dunque si presenta, prima di allora come un parallelepipedo semplicemente marrone. Tanto maggiormente ricco di derivazioni nella vera vita vera. Il pilota è nella scatola, dunque. Che sorpresa. E che scatola! Ha un prezzo approssimativo di 16 milioni di dollari, questo sfolgorante nuovo acquisto della compagnia aerea Alaska Airlines, un simulatore full-flight dell’azienda canadese CAE, tra i leader indiscussi del settore, operativa da oltre 50 anni. Qui portato ed assemblato, nel giro di appena tre minuti, grazie all’appassionante approccio del time-lapse. Il gioiello tecnologico appartiene alla serie 7000XR, nota per l’affidabilità, il realismo e l’alto grado di mobilità degli attuatori idraulici che lo sostengono e caratterizzano. Oltre alle scene realistiche messe in mostra sul suo schermo panoramico ad avvolgimento. Atterraggi, decolli, turbolenze, tempeste, tifoni apocalittici. Tutto può succedere nel regno empirico della teoria. Eppure chi non ha sperimentato qualche cosa, avrà difficoltà a figurarsela con l’occhio della mente, nonostante le vivide descrizioni e precise procedure dei suoi testi di studio. Occorre, presto o tardi, fare pratica sul vero mezzo di trasporto. E risulta facile, nel campo dell’addestramento pratico, mettere in atto determinati scenari quotidiani: come un maturando che debba prendere la patente, un pilota può approcciarsi a quelle procedure usuali fin da subito, a patto di avere un istruttore accanto. Non serve neanche il foglio rosa. Ma le situazioni d’emergenza, pericolose per definizione, sono impossibili da sperimentare, senza un vero rischio per chi vive sotto…Proprio per questo, è tanto importante l’informatizzazione dei corsi di volo. Soltanto in questo modo, al momento di conseguire il sospirato brevetto, un pilota potrà aver già disporre di esperienze valide a salvare la sua vita. E assieme ad essa, quella dei suoi molti passeggeri.
Il primo simulatore di un velivolo risale al 1909, quando la compagnia francese Antoinette fece costruire un sistema per far comprendere agli acquirenti il funzionamento del suo nuovo monoplano. Lo strano aereo, infatti, utilizzava un particolare sistema di comando, basato su due ruote, una a destra ed una a sinistra del pilota, per controllare rispettivamente rollio e beccheggio, grazie a poderosi colpi di reni. L’oggetto, simile ad un barile, era montato sopra un perno omnidirezionale, affinché un assistente (bene informato sui fatti) potesse riorientare il tutto sulla base dei gesti messi in atto dall’aspirante, nerboruto pilota. Durante le due guerre mondiali, evoluzioni di questo pionieristico dispositivo furono messe a frutto dalle principali nazioni industrializzate. Il Link Trainer americano, dalla famosa colorazione azzurra, era fornito di sistemi automatici per la simulazione del movimento, perfettamente sincronizzate con i comandi della cabina. Oscurando i vetri della stessa, era dunque possibile mettere in scena una ragionevole approssimazione del volo notturno strumentale.  Di linee sulle mappe, e relative trasvolate, da quell’epoca ne abbiamo disegnate molte. Giungendo, infine, allo strumento della Luce Virtuale.

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