Il pericoloso funzionamento dei riflettori teatrali mezzo secolo prima dell’elettricità

Le tende dell’improvvisato stanzino si aprirono d’un tratto, mentre il prestigiatore ed intrattenitore noto come Ching Lau Lauro faceva la sua trionfale uscita verso quello che avrebbe costituito, ancora una volta, il suo palcoscenico in una tarda serata d’autunno. Le ombre cominciavano a allungarsi presso l’affollato molo di Herne Bay, in Kent, mentre alla vista del suo caratteristico costume, gli entusiastici spettatori si produssero in un caloroso applauso. Tutti ormai conoscevano, in quell’ottobre del 1836, la fama eccezionale del primo showman dell’Inghilterra vittoriana a pensare di abbigliarsi come un acrobata cinese, nonché l’unico a eseguire l’eccezionale numero della levitazione umana, sedendosi tranquillamente a due metri da terra, con l’unico appoggio apparente di un bastone da passeggio stretto nella sua mano sinistra. Per poi passare a un ricco repertorio di giochi di mano, canzoni e addirittura un pezzo da ventriloquo ed imitazioni dei richiami degli uccelli. Ma una parte significativa dei presenti in quella notevole occasione, erano accorsi in modo particolare per un nuovo aspetto ampiamente pubblicizzato nei volantini del suo carrozzone itinerante: l’atteso accendersi della cosiddetta luce “koniaphostica” espressione liberamente prelevata dal greco e riferita dichiaratamente alla maniera in cui tale dispositivo avrebbe illuminato “Di una mistica luce bianca” lo spazio dell’esibizione, tale da “Non far rimpiangere neppure il più intenso sole di mezzogiorno.” Giudicando attentamente una serie di parametri, tra cui la scurezza del cielo, l’aspettativa dei presenti e il tempo rimasto nel suo spettacolo, Lauro fece quindi un cenno concordato al suo assistente di scena sopra una struttura temporanea in legno. Il quale, con espressione concentrata al massimo, girò la manovella del suo marchingegno simile a un cilindro ricoperto di tubi che aveva trasportato fin lassù, impugnando un bocchettone dall’aspetto particolarmente robusto e puntandolo in una scatola cilindra dall’aspetto specchiato. Fumo e polvere ne uscirono in quantità impressionante. Mentre il protagonista della scena d’industriava in una prova d’abilità nel maneggiare le sue uova magiche e le mele di Belzebù, il pubblico in rapito silenzio vide a questo punto l’avvenire di quanto promesso, sebbene in base a linee guida largamente inaspettate. Ma tutti coloro che si sarebbero aspettati qualcosa di simile alla diffusa luce a gas dei teatri dell’epoca, soltanto un po’ più forte, scoprirono la differenza che poteva fare nell’ambientazione corrente un potente fascio di energia fotonica, direzionato esattamente contro l’uomo fermamente intenzionato a polarizzare l’attenzione, come la manifestazione ultraterrena di un qualche tipo d’essere fatato. In quel preciso attimo, in altri e ancor più chiari termini, Ching Lau fu il primo ad essere pubblicamente investito dello stato di grazia prototipico chiamato per antonomasia in lingua inglese: to be IN the limelight. Trovarsi al centro di ogni cosa, ovvero: nella (chiara) luce di calce viva. Che non era nel caso specifico per niente una metafora, quanto una descrizione assolutamente puntuale dell’effettiva progressione degli eventi.
Lungamente indotti a considerare nostri eroi gli attori e i loro personaggi, creatori della storia, dei combattimenti e delle acrobazie previste da ciascuna comprovata pièce teatrale, ci siamo abituati a un patto finzionale che cancella dalla percezione pubblica tutto il valido contorno tecnico, nel comprensibile timore che conoscerlo approfonditamente potrebbe rovinare la magia. Eppure largamente necessaria, nonché talvolta spregiudicata, può essere chiamata l’opera di tutti coloro che si trovano dietro le quinte o in assenza di quest’ultime, ai margini del palcoscenico, incaricati di far funzionare tutte quelle macchine finalizzate a potenziare l’effetto della recitazione, con fattori esterni, funzionali o visuali di varia natura. Il che avrebbe finito per includere, fino al terzo quarto del del XIX secolo, una rudimentale torcia ad ossidrogeno capace di ardere alla temperatura di circa 2.500 gradi. Orientata verso una ragionevole approssimazione di pietra magica, senza particolari concessioni al concetto odierno di sicurezza, sia individuale che collettiva. Il principio di funzionamento di un riflettore di tipo koniaphostico risultava essere, in effetti, nient’affatto complesso…

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Le complesse implicazioni abitative di un forte di mare gallese

Si può capire molto del carattere di una persona, dai rumori di fondo del suo appartamento ideale. Onde marine sugli scogli, il sibilo del vento ed il richiamo dei gabbiani? L’eco storico di un susseguirsi roboante di colpi di cannone? Chiaramente, ci troviamo di fronte a un lontano erede filosofico di Thomas Cromwell, primo ministro del talvolta controverso sovrano d’Inghilterra Enrico VIII, che fu strumentale nella creazione di un piano valido utile a sposare la seconda delle sue molte mogli, Anna Bolena. E che proprio per aver tentato di riformare in parte la nuova chiesa capace di sancire divorzi senza l’approvazione del potere papale, sarebbe diventato inviso al sovrano e l’avrebbe seguita a quattro anni di distanza sul patibolo delle esecuzioni reali. Ma non prima di proporre al re un sofisticato piano, nel 1539, per proteggere le coste del paese da un possibile assalto di potenze straniere, tra cui la Francia particolarmente invisa alla dinastia dei Tudor, mediante la costruzione di una serie di potenti forti navali. Uno dei più importanti dei quali avrebbe dovuto trovare posto sopra un’isolotto nell’insenatura di Milford Haven, distintiva caratteristica geografica a metà tra un fiordo e l’estuario del fiume Pembroke, dove l’omonima cittadina faceva ormai da mezzo secolo le funzioni di un importante cantiere navale. Valore strategico, dunque, una posizione chiave ed ottimi presupposti, data la limitata ampiezza dello sbocco disponibile sul mare, a interdire completamente l’accesso ai vascelli di provenienza incerta o indesiderata. Peccato che l’assenza temporanea di fiordi, il disinteresse da parte di chi avrebbe dovuto prendere la decisione ma soprattutto la caduta in disgrazia di colui che aveva postulato l’idea, avrebbero portato ad uno spostamento dell’idea tra i progetti di minore priorità esecutiva. Al punto che ci sarebbero voluti 3 secoli e 11 anni perché qualcuno, finalmente, giungesse a porre la prima pietra su quella minuta striscia di terra, realizzando finalmente il sogno del primo conte dell’Essex.
Assoluta unità di scogli, terra emersa e solide mura alte tre piani, l’ultimo dei quali costellato di efficienti feritoie, soluzione da cui avrebbe conseguito il nome informale di Stack Fort. Ospitante all’inizio un gran totale di quattro potenti cannoni, di cui tre della classe e portata identificata come 32-pounder (del peso di circa una tonnellata e mezzo) ed un 12 pounder (544 Kg) per l’autodifesa delle mura. Il tutto gestito da una guarnigione di 30 uomini ed un singolo ufficiale, secondo i piani attentamente stilati dalla Commissione Reale per la Difesa del Regno Unito, creata per volere di Henry Temple, terzo Visconte di Palmerston, in un’epoca di pace con Napoleone III, che nessuno sospettava potesse durare particolarmente a lungo. Così sorse, finalmente, il piccolo castello assieme a diversi altri forti costieri nella regione ed una grande caserma difendibile nei pressi della cittadina di Milford Haven. E non ci volle molto perché, appena una decina d’anni dopo, le bocche di fuoco fossero aumentate a sedici, sebbene questa particolare zona del Galles non fosse destinata ad ospitare battaglie negli anni a seguire, neppure durante il grande conflitto che oggi conosciamo come prima guerra mondiale. Così che il fortino sarebbe andato progressivamente dimenticato nel corso delle successive generazioni, tanto da trovarsi associato alla definizione di forgotten island, costituendo un polo d’attrazione irresistibile per tre tipi fondamentali di creature: gli uccelli marini in cerca di un luogo sicuro per costruire il proprio nido; gli YouTuber appassionati di urbex e altre discipline finalizzate all’esplorazione dei luoghi abbandonati; ed alquanto inaspettatamente, gli agenti immobiliari…

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Le notevoli avventure di un onesto cercatore dei folletti d’Inghilterra

Il senso di scoperta, la curiosità, l’intraprendenza. Ma soprattutto, la comprovata capacità di non uscire MAI dal personaggio, essendo il primo a prendere sul serio, ancor più dei propri spettatori, l’improbabile serie di scoperte ed incontri che tendono a verificarsi, senza falla, sul finire dei suoi brevi resoconti video all’interno di alcune delle più notevoli foreste d’Inghilterra. Perché ci sono già fin troppe creazioni artistiche diffuse a mezzo web, che sostanzialmente non sono altro che una trasposizione digitale di modalità espressive già esistenti: persone che dipingono, scolpiscono, costruiscono costumi sotto l’obiettivo della videocamera, mentre schiere di commentatori danno il proprio contributo enfatizzando i meriti dell’uno o l’altro creativo. Mentre quasi nessuno, nel vasto e variegato universo di Internet, si preoccupa di trasportare chi ha intenzione di seguirlo all’interno del proprio stesso mondo, nella maniera in cui riesce notevolmente a fare Erwin Saunders, misterioso personaggio comparso su YouTube all’incirca tre anni fa, per poi scomparire nel primo terzo del 2020 (non è difficile immaginarne la ragione) per ricomparire all’improvviso la scorsa primavera, ancor più laborioso, consapevole e competente di prima. Un personaggio totalmente fuori dal comune, questo signore di mezza età con lunga barba e cappello d’esploratore nonché un contegno eccezionalmente inglese, nell’accento, il modo di fare e il senso dello humour, che racconta di aver dedicato gli ultimi 20 anni ad una singolare, quanto importante missione: catturare sullo schermo quello che l’intero mondo sembrerebbe aver dimenticato. Folletti, ovviamente, gnomi ed altri esseri fatati. Creature uscite dalle fiabe oppure che all’interno di esse sono penetrate, come tutti i vampiri o fantasmi di leggende ben più oscure, a seguito d’occasionali avvistamenti sperimentati dagli abitatori delle circostanze più opportune. Con una significativa differenza, tuttavia, rispetto ai suoi predecessori: il piccolo dettaglio di riuscire EFFETTIVAMENTE a trovarli.
E se doveste aspettarvi, a tal proposito, la solita ripresa mossa e sfocata di forme indistinti visibili sulla distanza, che potrebbero o meno corrispondere a cespugli vagamente antropomorfi, vi consiglio di scorrere rapidamente il ricco repertorio di quest’uomo, in cui non soltanto i principali soggetti delle sue ricerche compaiono regolarmente al centro della telecamera, ma lo fanno in piena luce, condizioni di messa a fuoco (più o meno) ideali ed occasionalmente interagiscono col proprio cercatore, non sempre in maniera del tutto amichevole se non addirittura ostile. Una visione che sembrerebbe essere stata considerata almeno in determinati circoli con il beneficio del dubbio, per molte settimane e mesi, tanto da giustificare innumerevoli trattazioni di consumati debunkers ed altre testate di contro-informazione, al fine di contrastare la dilagante convinzione che il popolo fatato stesse per tornare alla ribalta in mezzo agli uomini, in aggiunta alla pletora di ulteriori problemi di questi ultimi anni di travagliate vicende globali. Un approccio forse ingenuo alla faccenda, che trova tuttavia parziale giustificazione negli straordinari meriti di questo artista. Che inizia ogni suo video, della durata variabile tra i 5 e i 15 minuti, nella maniera più naturale e spontanea possibile, proprio come un anziano gentleman convinto dal suo amico o vicino “Tom” a caricare i risultati delle proprie ricerche online, affinché la gente possa finalmente conoscere una delle principali “verità nascoste” della nostra epoca. Finché nel corso di ciascuna passeggiata, mentre illustra approfonditamente le caratteristiche ed il comportamento degli gnomi, molto spesso finisce per scorgerne qualcuno sulla distanza, puntando con la massima attenzione il teleobiettivo per mostrarcelo, come se fosse la cosa più naturale del mondo. La sua recitazione è perfetta, mentre si mostra competente ma opportunamente sorpreso, alla maniera in cui un ricercatore potrebbe reagire all’avvistamento di un animale ritenuto estinto. Ed è qui che l’arma segreta del suo canale appare in tutta la sua ineccepibile efficacia procedurale: poiché l’essere in questione fa la sua immancabile comparsa in un contesto credibile e con l’esatto aspetto che ci si potrebbe aspettare, perfettamente animato fin nei minimi dettagli, tanto da sembrare in apparenza qualsiasi cosa, tranne che un mero artificio realizzato tramite l’impiego della grafica 3D informatizzata. Ed in fondo, chi può dire veramente cosa abiti tutt’ora i boschi più profondi ed ombrosi recessi di foreste millenarie, ultimi residui di quello che un tempo doveva essere l’intera Europa, prima che l’inarrestabile ricerca di spazi e risorse trasformasse completamente il suo volto, relegando gli antichi popoli lontano dagli occhi, il cuore e l’immaginazione degli umani…

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Il vecchio sistema dei vagoni sganciati al volo dai treni che non rallentavano in stazione

In una scena spesso ripetuta verso la seconda metà del XIX secolo, ma non meno eccezionale a causa di ciò, gli operatori dei primi convogli in uso presso la Grand Station di New York dovevano fare i conti con un singolare problema: la maniera in cui giungendo attraverso il tunnel di Park Avenue, lo spazio di deposito non disponesse di una quantità e varietà sufficiente di piattaforme rotative per gestire logisticamente la situazione. Ragion per cui all’avvicinarsi del punto di sosta designato, il macchinista accelerava, invece di frenare, mentre un addetto con il ghiaccio delle vene si sporgeva fuori dalla locomotiva, con in mano il lungo palo usato per sganciare la carrozza successiva e assieme ad essa, l’intera parte rimanente del treno. All’udire del segnale concordato, quindi, quest’ultimo si prodigava nel disattivare il gancio pneumatico in maniera rapida ed inesorabile, mentre la singola motrice distaccava l’intero complesso dei vagoni che facevano parte del suo stesso bastimento. Ecco che il personale in stazione, vedendola passare, attivava quindi quello che localmente veniva chiamato uno “scambio al volo” (flying switch) al fine di lasciar procedere per inerzia la coda del dragone presso l’area designata, presso cui un secondo macchinista avrebbe provveduto ad attivare l’impianto frenante in modo totalmente autonomo ed attentamente calibrato. Semplice, funzionale. Mortalmente pericoloso. Eppure mai una volta, per i molti anni in cui venne impiegato un simile sistema, si sarebbe verificato un incidente, in tale versione statunitense di un’ormai ben collaudata procedura, usata da almeno una decade all’altro lato dell’Atlantico, nel paese in cui la ferrovia era stata elevata al rango di arte tecnologica al servizio dell’intera popolazione. Sto parlando chiaramente della Gran Bretagna e della vicina Irlanda, entro cui i confini, a quanto narrano le cronache, i passeggeri dovettero riuscire a razionalizzare un particolare stile di viaggio. Quello effettuato all’interno di una cosiddetta slip coach o carrozza [lasciata] scivolare via, secondo un copione che non diventava più tranquillizzante ad ogni successiva esecuzione funzionale. Mediante cui di solito non tutto il treno, come nel caso newyorchese e successivo, bensì determinate sezioni di esso, venivano sganciate al raggiungimento di stazioni minori, permettendo ai loro occupanti di scendere senza per questo rallentare la corsa dei loro compagni di strada ferrata. Un approccio indubbiamente intrigante fondato sulla natura modulare di questa intera classe di veicoli, sebbene le complesse implicazioni organizzative, tecnologiche e psicologiche avrebbero progressivamente reso desueta una tale pratica. Che del resto non avrebbe mai preso piede fuori dai paesi anglosassoni, fatta eccezione per alcuni isolati esempi in Francia ed Olanda. Mentre osservando a posteriori la faccenda, non sarebbe stato possibile dubitare in alcun modo che in quel preciso momento storico, entro quel determinato luogo geografico, l’abbandono intenzionale dei vagoni rappresentasse l’onda del futuro ferroviario nell’opinione di molti, soprattutto coloro che ebbero il potere, e la capacità, di propagare gli specifici passaggi necessari a compiere correttamente la manovra.
C’è d’altra parte un significativo potere nell’inerzia, come ampiamente dimostrabile dalle leggi fisiche della conservazione del momento angolare e dell’energia, che un controllore di qualsiasi meccanismo deve necessariamente dissipare, per ciascuna attivazione di un qualsivoglia tipo d’impianto o dispositivo frenante. Ragion per cui, quale sarebbe la ragione per operare in tal senso verso l’intera collettività coinvolta, piuttosto che coloro, fra tutti, che hanno effettivamente raggiunto la propria destinazione finale? Qualcosa di simile dovette passare per la mente, anche senza tale serie testuale di parole, degli operatori addetti alla tratta tra Deptford e Spa Road, che nell’ancor più remoto 1836 misero in atto per primi l’approccio all’immagazzinamento già descritto in apertura presso il terminal americano ad oltre un lustro di distanza. Ma il primo esempio nazionale di carrozza passeggeri volutamente sganciata presso una stazione si sarebbe verificata nel 1858, quando la London, Brighton and South Coast Railway (LB&SCR) decise di essersi stancata, ragionevolmente, di far sosta per un numero estremamente ridotto di passeggeri presso la stazione di Haywards Heath, nella parte ovest del Sussex. Nondimeno intenzionata a mantenere attivo tale punto di sosta, decise perciò d’implementare un metodo per cui soltanto i diretti interessati, quando presenti a bordo, si fermassero presso quel particolare punto d’arrivo.

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