L’essere nerastro dagli occhi tondi incede con flemma letargica lungo il verde delle foglie nella foresta pluviale, situata nell’entroterra dell’Ecuador. Eppure chi dovesse vederlo, non avrebbe particolari dubbi sul fatto che possa essere in cerca di guai. Poiché esso parrebbe muoversi, in assoluto silenzio, sopra un veicolo robotizzato con zampe lunghe ed articolate, ovvero quello che in gergo contemporaneo viene definito un mech. Sopra il suo corpo, in modo apparentemente casuale, due piccole escrescenze svettano a un’angolazione di circa 35 gradi. Ma nessuno può veramente sapere se si tratti di lanciamissili, o servano semplicemente per captare il Wi-Fi. Certamente utile a lasciare commenti goliardici sui forum internettiani di entomologia….
I troll: esistono figure mitologiche reinterpretate altrettanto spesso dalle diverse correnti folkloristiche del mondo? Creature mitologiche scandinave, in origine, famose per l’abitudine di rapire i bambini e allevarli in solitudine nelle montagne, o fare patti con i popolani non dissimili da quelli diabolici della tradizione cristiana. Per i giocatori di ruolo, nemici tipici del canone di D&D, capaci di rigenerare tutti i danni subiti tranne quelli da acido e da fuoco. Nell’epoca di Internet, persone inclini a seminar discordia, attraverso scherzi non sempre elaborati in assoluta buona fede, verso chi si trova a dovesse trovarsi a leggerli durante le proprie peregrinazioni digitali. Ma forse la rappresentazione più atipica di cosa possa costituire uno di questi esseri possiamo trovarla in uno dei capolavori a cartoni animati del maestro Hideo Miyazaki, concentrato di fantasia fanciullesca, amore per la natura e ideologia tipica della religione shintoista. Sto parlando, per chi non l’avesse ancora visto, dello storico film “Il mio vicino Totoro” (Tonari no Totoro – 1988) in cui due bambine, trasferitesi recentemente in campagna assieme al padre per stare vicino alla madre seriamente malata, si ritrovano in un mondo abitato da spiritelli benevoli di vario tipo, tra i cui “il signore della foresta” una sorta di surreale incrocio tra un totem ghignante e un cane-procione dalle orecchie affusolate e puntate verso il cielo. Eppure, nonostante figurassero in lui molti di quei tratti che nell’arte giapponese hanno sempre identificato l’animale noto come tanuki (Nyctereutes procyonoides) ovvero pelo a macchie, forma corpulenta, occhi tondi e arti piccoli e tozzi, nella critica occidentale non è mai esistito neppure il dubbio, che la buffa creatura dovesse rappresentare in effetti nient’altro che un gigantesco coniglio parzialmente antropomorfo. A tal punto consideriamo indicative, nella nostra cognizione estetica, quelle particolari orecchie di riconoscimento, presenti in molti (ma non tutti) gli appartenenti alla vasta famiglia dei leporidi.
D’altra parte in una delle scene più memorabili della pellicola, le due giovani protagoniste rimaste momentaneamente sole in casa decidono di avventurarsi nella soffitta della vecchia casa dove sono venute ad abitare per un’estate, sperimentando il loro primo contatto con il sovrannaturale nel momento in cui dalle ombre spuntano fuori numerose piccole creature tondeggianti dagli occhi bianchi, denominate dell’autore susuwatari, rappresentanti una personificazione della fuliggine e della polvere che si era accumulata nei lunghi mesi di abbandono. Ma la chiave interpretativa corretta della specifica vicenda, probabilmente, va rintracciata nel momento in cui alcune di esse estendono le lunghe zampette o braccia, per spingersi da parte o manipolare piccoli oggetti di vario tipo. Perché di certo, è quello il momento in cui qualcuno all’estero avrà vissuto un marcato senso di deja-vu. Già, sapete di che sto parlando? Accade talvolta in primavera, nei locali ai margini del consorzio urbano o nelle vere e proprie fattorie di tutti e cinque i continenti. Quando qualcuno, incuriosito da quelloche potrebbe sembrare in effetti un mucchio di sporcizia, va a disturbarlo con una scopa o un piumino. Soltanto per risvegliare, suo malgrado, un’aggregazione di quella che sembrerebbe a tutti gli effetti essere una moltitudine di piccoli “ragni”. Uso le virgolette perché, nonostante l’aspetto, ciò di cui stiamo parlando non appartiene affatto all’ordine degli aracnidi, famosi per l’appiccicosa ragnatela, il veleno e le crudeli pratiche nuziali, bensì a quello, imparentato soltanto alla lontana, degli Opiliones o come li chiamano gli anglofoni, daddy-long-legs (papà gambalunga). Forse ne avrete visti, anche qui in Italia: palline grigiastre grandi all’incirca la metà di un fagiolo, con arti deambulatori sottilissimi e delicati. Ma basta spostarsi, nel nostro viaggio concettuale, in uno di quei paesi che si trovano a ridosso dell’equatore, per scoprire quali fantastiche, terribili o spaventose meraviglie possa effettivamente sottintendere il concetto di artropode biodiversità!
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L’asino Brighty, eroe celebrato dalla Frontiera
So cosa state pensando: “Ecco la storia del solito animale idealizzato, in funzione di chi l’ha posseduto e qualcosa che costui ha fatto, con una semplice, patetica statua disposta in un luogo pubblico, affinché la gente del posto possa ricordarsi del suo passato.” Ebbene Brighty, il piccolo burro (particolare razza iberica d’equino) dal momento in cui le cronache acquisiscono il suo nome, non fu proprietà di nessuno, né ebbe modo di compiere alcuna spettacolare impresa. Diamine, spesso rifiutava persino di compiere il suo “dovere” di bestia da soma, strofinandosi contro gli alberi per far cadere a terra il carico, come sua prerogativa di bestia, fondamentalmente, ritornata alla vita selvaggia del West. No, questo personaggio peloso, rimasto famoso grazie alla testimonianza di molti, ebbe modo di diventare un simbolo dell’Arizona per gradi, attraverso coloro che seppero comprendere, interpretare ed analizzare la sua vicenda, così straordinariamente rappresentativa di quella della sua intera specie. Nonché del coraggio, e dello spirito d’intraprendenza, che ha sempre amato riconoscersi il variegato popolo americano.
Il suo viaggio verso la fama inizia, precisamente, nel 1893, quando il direttore di una società ferroviaria di nome Frank Brown, per ragioni largamente ignote, annega nel tratto più famoso del Colorado River: il Grand Canyon, gigantesco crepaccio nella pianura. Così che sua moglie, lungi dal rassegnarsi, andò a chiedere aiuto per cercare la persona scomparsa al pioniere ed allevatore John Fuller, che con un amico discende per trovare una qualsiasi traccia, anche postuma, del facoltoso turista. Una missione che sarebbe andata incontro all’assoluto nulla di fatto, tranne che per un ritrovamento del tutto inaspettato: una tenda per due abbandonata proprio nel mezzo della zona nota come Bright Angel Canyon, con un asino fuori in attesa del ritorno dei suoi padroni. Gli esploratori, a questo punto, fanno il loro ingresso scoprendo alcune lettere, un orologio ormai scarico e i bagagli di individui di provenienza incerta, la cui identità non sarebbe mai stata accertata. Dopo una breve meditazione, Fuller conclude che anche loro dovevano essere annegati, quindi slega l’asino e fa il suo ritorno in città.
Ora dovete sapere che i burros, come particolare tipologia d’animale, sono un prodotto sostanziale dell’allevamento umano. Creato per poter disporre di un trasportatore animale che sia sufficientemente docile, mangi poco e possa affrontare di buona lena una lunga giornata di lavoro. Importati nel Nuovo Mondo dai coloni spagnoli e portoghesi, simili creature diventarono quindi il vero e proprio simbolo dei cercatori d’oro del XVII e XIII secolo, che gli affidavano i propri picconi, la pala e i setacci nella speranza di riuscire a fare fortuna. Una volta raggiunto l’obiettivo prefissato, o abbandonato il sentiero della ricchezza potenziale, succedeva essenzialmente sempre la stessa cosa: l’uomo abbandonava il suo fedele compagno, nel preciso istante in cui non ne aveva più bisogno. Questi asini, tuttavia, lungi dal soccombere a causa delle avversità, si spostavano nelle zone più fertili, brucando l’erba che gli permetteva di sopravvivere e addirittura, prosperare. Si stima che all’inizio del ‘900, nel solo Grand Canyon vivessero parecchie centinaia di burros, per un numero destinato a superare i 3.000 entro soli 20 anni da quella data. Tra tutti quanti, tuttavia, Brighty era diverso. Nonostante il suo nome associato alla località topografica che aveva abitato (immagino che se fosse stato una femmina, l’avrebbero chiamato Angel) l’asinello iniziò spontaneamente a vagare, spostandosi al sopraggiungere dell’estate verso l’Orlo Nord, sito del primo hotel dedicato ai visitatori di questa zona impareggiabile nel panorama nordamericano. E fu qui, entro breve tempo, che iniziò il periodo più felice della sua vita.
L’antico topo velenoso dell’isola di Hispaniola
Nell’entroterra della seconda isola più grande dei Caraibi, ecologicamente non troppo diversa da Cuba, c’è una zona collinare che domina le vaste foreste umide dell’area centro-meridionale. Ed è qui, su un’altopiano che domina il lago salato di Azuéi, che si sta verificando l’incontro tra due animali della stessa specie. Se soltanto potessimo vederlo coi nostri occhi! Potremmo descrivere le due forme pelose, della lunghezza di circa 50 cm ciascuna, che si avvicinano molto lentamente, finché non giungono a toccarsi con le vibrisse. Quindi, per dimostrare la posizione dominante, uno di loro aprirà la piccola bocca, per prendere gentilmente il lungo naso della controparte e dimostrare la facilità con cui potrebbe stringerlo tra i suoi affilati piccoli denti. Fatto questo, non prima di aver emesso una serie di squeak, chirp e click simili a quelli degli uccelli, le due creature si disporranno una di fianco all’altra, esplorando le rispettive forme mediante l’impiego della proboscide flessibile, infilata nell’orecchio, sotto le zampe, lungo la coda scagliosa, presso le ghiandole nella parte posteriore del corpo. I successivi secondi, assai prevedibilmente, saranno cruciali: sono un maschio e una femmina? Tutto bene. Si tratta di due femmine? C’è un 50% di probabilità che ciascuna scelga di andare per la sua strada. Ma se gli strani rappresentanti della specie Solenodon paradoxus, più primitivi di molti dei dinosauri del Cretaceo, dovessero appartenere entrambi al sesso maschile, le probabilità di un combattimento aumentano drasticamente. Il che sarebbe un problema, poiché simili creature, disgraziatamente, sono tutt’altro che immuni al proprio stesso veleno. Così avviene di frequente che entrambi le parti di simili scontri vadano incontro ad una fine prematura, annientandosi vicendevolmente e privando così il mondo di un’ulteriore, piccola probabilità che la loro specie possa tornare diffusa come lo era stato un tempo. Prima della colonizzazione da parte degli occidentali, prima dell’arrivo dei gatti e dei cani e prima, soprattutto, dell’introduzione della mangusta di Giava sull’isola (Herpestes javanicus) un tempo imbarcata sulle navi come nemico implacabile di tutto ciò che abbia quattro zampe, un muso a punta e qualche dozzina di baffi sensoriali per dare la caccia alle possibili fonti di cibo.
Abbiamo esordito definendo simili creature “topi” per una sorta di semplice analogia, benché i nostri amici, come potreste forse desumere dalle circostanze, appartengano a un ordine completamente distinto, in grado di prendere le sue distanze genetiche da qualsiasi altro gruppo di mammiferi già a partire dall’epoca di 76 milioni di anni fa, rientrando nell’ordine degli Eulipotyphla (“grassi e ciechi”) assieme agli antenati degli odierni ricci, gimnuri e toporagni. Per lungo tempo, la loro genìa fu considerata estinta, finché nel 1833 il biologo membro dell’Accademia Russia delle Scienze Johann Friedrich von Brandt, non ricevette un esemplare in ottimo stato di conservazione, che non tardò ad associare al comunque raro, eppure già noto solenodonte dell’isola di Cuba (Solenodon cubanus). E a tal punto l’uomo restò perplesso dall’aspetto generale, la struttura fisica e le caratteristiche della creatura, che decise di dargli l’appellativo di paradoxus (paradossale) poiché nulla, del suo possibile ruolo nel sistema della natura, poteva essere desunto con gli strumenti e le conoscenze naturalistiche a disposizione dell’accademia. Il problema principale nello studio del solenodonte di Hispaniola fu fin da subito la sua propensione ed abilità nel nascondersi, che lo portano a scavare profonde buche nel sottobosco, da cui esce preferibilmente soltanto la notte per andare a cacciare insetti, il suo cibo preferito. Così timido e attento risulta essere questo strano mammifero, che persino gli abitanti indigeni dell’isola risultano essere largamente inconsapevoli della sua esistenza, fatta eccezione per chi racconta di aver avvistato, almeno una volta nella vita, la strana palla di pelo zigzagante, dal caratteristico odore simile a quello di una capra e le vocalizzazioni altamente riconoscibili, goffamente emesse nel momento in cui l’essere dovesse sentirsi minacciato…
Le palle da baseball e il grande sogno americano
La maestosa struttura a pali incrociati del David L. Lawrence Convention Center si rifletteva nelle acque del fiume Allegheny, mentre la luce limpida di un pomeriggio del luglio 2006 penetrava dalle sue vetrate. Dall’interno della sala al piano terra, la platea gremita divideva la sua attenzione, tra il magnifico scorcio dei palazzi di Pittsburgh, perfettamente visibili attraverso l’enorme vetro temperato, e il tavolo portato per l’occasione sul palco. Dietro il tavolo c’era un battitore d’asta, la cui cantilena nello stile tipico statunitense risuonava come una nenia per far addormentare i bambini: “Qui abbiamo una maglietta di Hank Aaron, risalente a quando giocava negli Atlanta Braves nel 1973… tra i primi giocatori neri della Major League… Media di battuta .305; numero di fuoricampo: 755… Base d’asta 5.000 dollari… 6.000… chi offre di più? Non troverete niente di simile, altrove… 6.500 dal signore in fondo…. chi offre 7.000?” E così via fino ai 13.000. L’interesse era palpabile, così come quello per i lotti successivi. Si trattava, dopo tutto, di uno dei più importanti eventi per i cimeli del baseball a memoria d’uomo, con la partecipazione di molti importanti collezionisti privati. E le commissioni della Hunt Auctions, fissate sul “solo” 15% per i pezzi di maggior valore, erano tra le più convenienti del settore una volta considerata l’importanza storica degli oggetti da prendere in considerazione. Passarono cappelli, guantoni, scarpe, bandiere. Ma per l’elite del pubblico in sala, niente di tutto questo aveva davvero importanza. Loro erano lì soltanto per il pezzo forte. D’un tratto, il maxi-schermo dietro il palco si accese, illuminandosi con l’immagine torreggiante di un volto. L’espressione bonaria e quasi umile, le sopracciglia folte, un copricapo con il logo dei New York Yankees. Un brusìo agitato percorse il pubblico, come un’onda di marea. Il battitore si voltò di lato, con espressione compunta: “Signori. Il più grande giocatore della storia: Babe Ruth. Che nel 1933, riuscì a battere un famoso home run nella partita annuale delle All Star presso il Chicago Comiskey Park. Per anni, quella palla è stata creduta perduta alle cronache del mondo. Ma essa era effettivamente in possesso di Earl Brown, il cui figlio, oggi, ha deciso di metterla in vendita per noi. Un addetto coi guanti bianchi entrò dal fondo dal fondo della scena. Tra le sue mani, una teca di plexiglass con all’interno il meraviglioso sferoide bianco. “Allora… La base d’asta è di 350.000 dollari. Chi offre di più? Nessuno offre…400.000? Al signore lì dietro…500.000 per te col cappello… 600.000…Qualcuno vuole arrivare a 700.000?”
La gente ama i palloni da Basket. E quelli da calcio, occasionalmente, vengono custoditi gelosamente nelle grandi sale di un club. Qualche volta, un dischetto da hockey finisce tra i tesori di famiglia, dopo aver impattato, generalmente con conseguenze nefaste, contro la testa di un povero spettatore malcapitato. Ma in nessuno sport di squadra, non importa quanto popolare nel suo paese di provenienza, vige lo stesso feticismo della palla del baseball, considerata una vera concentrazione estrema di tutto quello che c’è di splendido, sacro e mitico in questo vecchio sport. Come un piccolo, tangibile buco nero. E non si tratta di un fattore soltanto culturale: se pensate alle pigskin ovoidali del football, probabilmente il principale sport americano, non troverete mai prezzi simili in alcuna asta, non importa quanto prestigiosa e pubblicizzata. Le ragioni sono molteplici, prima fra tutte la frequenza con cui queste palle entrano in commercio a seguito di un’importante partita. In un gioco in cui lo scopo ultimo risulta essere, in effetti, spedire la palla tra il pubblico (incassando immediatamente tutti i punti dei giocatori che si trovino su qualsivoglia base) il siparietto degli astanti che si precipitano per accaparrarsi l’agognato oggetto è spesso considerata parte integrante dello spettacolo, in grado di monopolizzare le telecamere tra un lancio e l’altro. Esiste una particolare etichetta, e casi in cui si dovrebbe lasciare la precedenza ad altri, ad esempio se ci si dovesse trovare un bambino davanti, violando le quali si può facilmente andare incontro alla gogna mediatica e la derisione di tutti, inclusi i propri amici e parenti. E dopo la partita, l’usanza vuole che il giocatore autore dell’home run conceda l’autografo sulla palla, o alternativamente, se la rivuole indietro per la sua collezione, la scambi con qualcosa di valore più pari o maggiore, come la propria mazza, anch’essa autografata. Sapete quante palle vengono impiegate nel corso di una partita media di baseball? Svariate dozzine, con un tetto di 50 o 60. Naturalmente, non tutte finiscono nel pubblico: data l’estrema forza con cui esse vengono colpite, affinché si possano mantenere le specifiche regolamentari, uno di questi oggetti ha un’aspettativa di vita di circa 5 o 6 battute, dopo di che dovrà essere immediatamente sostituito. Il che ha dato origine, negli anni, ad un’industria se possibile ancor più fiorente di quella degli altri sport, con singoli stabilimenti, in Messico, Asia e Sudamerica che arrivano a produrre fino a 10.000-15.000 sfere in un giorno, dai diversi prezzi a seconda della qualità dei materiali. Tutti sempre di rigorosa provenienza statunitense. Ci mancherebbe altro!