Progetto Zveno, la portaerei russa in volo tra le due guerre mondiali

Era il 10 agosto del 1941 quando, in una giornata ragionevolmente priva di nubi, le guardie tedesche impegnate a difendere il ponte di Re Carol I sopra il fiume Danubio nella Romania soggetta ad occupazione videro avvicinarsi da oriente una sagoma del tutto inaspettata: larga e dalle ali oblique, come un Tupolev TB-3, ma dotata di una coppia di preminenze al di sotto di quest’ultime, stranamente rassomiglianti a due aerei di dimensioni sensibilmente inferiori. Mentre si apprestavano a spostarsi presto i posti di combattimento, composti primariamente da mitragliatrici di vario calibro e Flak 88, qualcosa di strano avvenne innanzi ai loro occhi, intenti a sorvegliare il cielo con indubbia preoccupazione: il grosso bombardiere, virato in senso diagonale rispetto al suo obiettivo, aveva ora rallentato, mentre quelli che si rivelarono possedere la carlinga corta e tozza di due cacciabombardieri I-16 si erano staccati dai piloni di supporto, procedendo in linea retta verso di loro. Situati ad una quota sufficiente da sfuggire al fuoco di sbarramento fino a circa 3-4 Km di distanza, i due piccoli aerei iniziarono quindi una lunga picchiata quasi verticale, chiaramente frutto di lunghe sessioni di addestramento da parte dei piloti. Fu quello il momento, assolutamente terrificante, in cui le guardie dotate di una vista migliore notarono qualcosa sotto quelle forme: le grosse bombe, semplicemente troppo pesanti per poter venire sollevate al momento del decollo da simili velivoli, pronte ad essere sganciate contro una simile struttura strategicamente fondamentale, parte dell’oleodotto Ploieşti-Constanța usato per rifornire i loro commilitoni parte dell’offensiva che stava iniziando a diventare nota come il Fronte Orientale. Tentando di prendere la mira con la massima attenzione, i soldati fecero il possibile per prepararsi all’impatto…
Tsirk Vakhmistrova (Цирк Вахмистрова) erano soliti chiamarlo in modo semi-serio, ovvero “Il circo di Vakhmistrov, dal nome dell’ingegnere posto a capo di un suo bureau, secondo l’usuale prassi sovietica, che aveva scelto di rispondere ad un’esigenza da lui principalmente percepita nel 1931, per creare la perfetta unione tra aereo d’attacco e un imponente velivolo dall’altrettanto lunga autonomia. In altri termini, una portaerei alata: qualcosa che in svariate nazioni, attraverso l’ultima coppia di decenni, diversi suoi colleghi avevano perseguito attraverso metodologie diverse, tutte in grado di condurre senza falla allo stesso strumento del dirigibile, l’unico apparecchio volante considerato sufficientemente grande, nonché stabile, da poter lanciare o recuperare un aeroplano in volo. Ciò che gli inglesi della Royal Navy non potevano ancora affrontare con intento risolutivo nel 1918 dell’aeronave Classe 22 pensata per portare dei biplani Sopwith, era la limitante vulnerabilità di un simile apparato in territorio nemico, dovuta all’inerente velocità di movimento ridotta nella maggior parte delle circostanze d’impiego. Né del resto gli americani avrebbero tentato di risolvere il problema nel 1932, con il dirigibile USS Akron adibito al lancio e recupero di Curtis F9C Sparrowhawk. Mentre Vakhmistrov poteva ben dire di possedere, nel profondo della propria mente, un’idea degna di trovare un’effettiva e contrapposta realizzazione…

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Io, futuristico robot pompiere costruito in Estonia

L’idea che l’essere artificiale debba necessariamente essere costruito a nostra immagine è profondamente radicata nella genesi del concetto originale di robot: dalla genesi del termine, adottato su scala internazionale a partire dal dramma teatrale R.U.R. dell’autore cecoslovacco Karel Čapek in cui si parlava di esseri maggiormente simili a dei cloni, fino alle moderne opere creative che trattano di androidi, come Blade Runner, Terminator o Westworld. L’ideale tecnologico della macchina indistinguibile dall’uomo, tuttavia, si fonda sull’ideale secondo cui forma & funzione risultino inscindibili, connotato da una capacità tecnologica pressoché illimitata. Laddove all’interno dell’effettivo mondo fisico, l’esperienza c’insegna che il tipico agente artificiale dei nostri bisogni o desideri assume normalmente un aspetto configurato sulla base dell’evoluzione, ideale percorso che conduce al perfezionamento delle sue caratteristiche, con soltanto un parziale interesse in merito a quale impressione possa suscitare il suo aspetto. Immaginate, a tal proposito, di trovarvi intrappolati all’interno di un edificio, circondati da un turbinìo di fuoco e fiamme che minaccia ad ogni attimo di togliervi il respiro. Sareste veramente pronti a dubitare delle circostanze, se in quel drammatico momento l’equivalente su scala ridotta di un minaccioso carro armato facesse la sua comparsa oltre la soglia, spruzzando in ogni direzione copiose quantità di schiuma candida come la neve della salvezza?
Lungo una scala da 1 a 10 il nuovo modello della serie Multiscope Rescue di Milrem Robotics risulta dunque 11, in termini di aspetto aggressivo ed anti-antropomorfo. Il che non dovrebbe certamente sorprenderci, trattandosi dell’adattamento civile di uno strumento concepito da principio per un tipo d’impiego esclusivamente militare. Chiamato al momento soltanto “pompiere robotico” dai suoi produttori con base in Estonia ed equipaggiato con un sistema di multipli cannoni idrici a schiuma antincendio forniti dalla compagnia olandese InnoVfoam, questo veicolo a controllo remoto che rientra a pieno titolo nella categoria degli UGV (Unmanned Ground Vehicles) rappresenta la conveniente applicazione di un vasto comparto tecnologico allo scopo che dovrebbe accomunare, nella maggior parte delle circostanze, i pompieri di tutto il mondo: poter spegnere l’incendio senza mettere a rischio la loro stessa personale incolumità. In un video totalmente creato al computer e indicativo del funzionamento ipotetico di questo concept, dunque, il mezzo viene mostrato mentre avanza senza nessun tipo di timore verso il pericoloso incendio chimico, trascinando i lunghi tubi di rifornimento all’interno di un qualche tipo di stabilimento industriale. Pilotato a distanza di sicurezza, dunque, il robot riporta grazie ai suoi sensori la presenza di un perdita di gas, mentre l’operatore, reagendo di conseguenza, orienta i propri getti dove maggiormente se ne sente la necessità. In breve tempo, quindi, la situazione torna chiaramente ad uno stato di quiete, con una quantità minima di danni alle cose e persone coinvolte maggiormente in questo piccolo dramma digitale. Il che rappresenta un tipo di risoluzione che potremmo definire ideale, ancor prima che realistica, benché offrendo alla proposta in questione il giusto beneficio del dubbio, il suo svolgersi secondo tali presupposti non fuoriesca totalmente dal reame di un possibile futuro…

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Valutando il volo di una grande V nei cieli prossimi venturi

Tra tutte le consonanti e conseguenti lettere dell’alfabeto, oserei dire, non ne esiste una che sia maggiormente operativa, rapida e feroce della consonante labiodentale sonora [V] la cui pronuncia tende a comportare l’emissione d’aria ultra-veloce attentamente veicolata e fatta transitare tra la duplice membrana e quella solida barriera che protegge l’apertura della nostra bocca, composta da 32 candidi soldati sempre sull’attenti innanzi all’organo che li comanda, lingua umida che si contorce di continuo per parlare.
Ed è più di ogni altro questo, il metodo espressivo preferito dagli umani, che comporta la creazione di una serie di concetti tecnologici capaci di risolvere problemi, modificare i presupposti e i preconcetti di un particolare campo d’interessi. Vedi cosa, quindi esprimi: un Airbus A350-900, secondo i dati ufficiali, brucia tra i 5.000 e i 5850 Kg di carburante l’ora, qualificando in questo modo la maggior spesa di una compagnia aeronautica come la franco-olandese KLM. Postuliamo, a questo punto, che sia in qualche modo possibile ridurli del 20% o più, offrendo nel contempo un’esperienza di viaggio maggiormente confortevole ai passeggeri. Questa l’ipotesi quasi fantascientifica descritta, innanzi al gruppo d’insegnanti e i suoi colleghi, durante la discussione della tesi di laurea dal berlinese Justus Benad presso il politecnico di Delft, in Olanda, discussa nella sessione invernale del 2019 e intitolata “Analisi delle caratteristiche di volo di un’ala volante altamente piegata attraverso un test sperimentale”. Lunga espressione usata per riferirsi ad una serie di prove, effettuate nei dintorni di Amburgo, del suo modellino in scala raffigurante quanto, ben presto, avrebbe iniziato a comparire nei rendering promozionali della compagnia presso cui aveva effettuato il suo tirocinio. Capita talvolta, in effetti, che la prima occasione lavorativa offerta ad una persona carpisca il proverbiale fulmine in bottiglia, offrendo ad egli stesso e il mondo intero l’occasione di veder costruito qualcosa d’innegabilmente, eccezionalmente nuovo, archetipo rappresentato in pieno da quella che, per ora, tutti chiamano la (grande) [V] volante. Un aereo largo 65 metri e non un gioco di parole, contrariamente a quanto si potrebbe tendere a pensare dal modo in cui l’accostamento suona in lingua italiana, fondato effettivamente su una serie di scoperte aerodinamiche di notevole interesse. Prima tra tutte, quella che un aeromobile di tale inusitata forma possa risultare inerentemente migliore, nel far ciò che maggiormente riesce a definirne logica & funzione: attraversare i cieli della Terra, consumando la minore quantità possibile di risorse… Il che tende a sottintendere, per inciso, non soltanto il più costoso fluido necessario a farlo sollevar dal suolo, ma anche l’irrimpiazzabile ozono che protegge gli abitanti del pianeta dalla parte più pericolosa delle radiazioni solari. Il tutto a patto di abbandonare un certo numero di preconcetti, tra cui quello secondo cui un mezzo volante pensato per l’aviazione civile debba corrispondere, come i prodotti dell’evoluzione biologica, a un progetto sostanziale ed immutabile, composto da prua, coda, carlinga e un paio d’ali. Limite non tanto rigido e legnoso, quanto si potrebbe tendere a pensare…

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L’unica ragione per cui non esistono i pancake volanti

Durante il primo terzo degli anni ’30, il giovane ingegnere elettrico del Kansas Charles H. Zimmerman con già una carriera alle spalle nella progettazione di tunnel del vento per il National Advisory Committee for Aeronautics (quella che sarebbe diventata, un giorno, la NASA) era un uomo con una visione ben precisa, e questa visione era rappresentata dal prototipico disco volante. Non che fosse provenuto da un diverso pianeta, tuttavia, bensì controllato da un pilota di nazionalità rigorosamente americana, intento a proteggere, o in qualche modo espandere, i confini del possibile immanente. E sebbene tale oggetto del pensiero fosse destinato ad attirare qualche sguardo di perplessità, giungendo a guadagnarsi l’appellativo di pancake (frittella) o flapjack (barretta/galletta ai cereali) volante, tale insolito aeromobile sarebbe stato un giorno non troppo distante realmente costruito, complice l’inasprirsi di un conflitto globale che avrebbe reso i più alti vertici militari aperti ad ogni idea & suggerimento, non importa quanto folli potessero sembrare inizialmente. Ed almeno sulla carta, il futuro Vought V-173, inserito non a caso nel sistema di numerazione della stessa compagnia responsabile per il caccia di grande successo F4U Corsair, di stranezze ne aveva molte: prima fra tutte, la completa assenza di ali in senso letterale, dato che nei fatti, l’intera struttura del velivolo sarebbe stata responsabile di generare l’essenziale portanza. Grazie a un’intuizione assolutamente geniale, avuta probabilmente da Zimmerman durante i suoi studi approfonditi del flusso aerodinamico latente, relativa al fatto che quest’ultimo venisse costantemente modificato, e di frequente compromesso, dall’inevitabile generarsi di vortici al di sotto delle carlinghe di tipo convenzionale. Che cosa sarebbe successo, dunque, egli si chiese, se la coppia di eliche di un aereo bimotore fosse stata disposta in maniera tale da spingere via un simile orpello, liberando in questo modo le più segrete potenzialità del mezzo? Giungere a scoprirlo e dimostrarlo, naturalmente, non fu facile e l’avrebbe infine condotto, nel 1937, a lasciare il suo posto sicuro nei laboratori di Langley per spostarsi a Long Island presso gli uffici della Vought Aircraft Division, dove finalmente, gradualmente, il suo sogno si sarebbe trasformato in incredibile realtà. Non prima di aver dimostrato, tuttavia, tramite la costruzione di un modellino a propulsione elettrica, come il fattore d’efficienza del suo velivolo potesse trarre un improbabile beneficio dal valore d’attrito sviluppato contro il passaggio dell’aria, dimostrato nelle prove matematiche come proporzionale al coefficiente di portanza e direttamente inverso alle proporzioni delle ali. Tale fattore venne quindi definito in gergo “FOO” ed avrebbe confermato come, in ultima analisi, l’assenza del più grande elemento ingegneristico ispirato dalla natura (degli uccelli) fosse dopotutto sopravvalutato, e addirittura superabile mediante l’applicazione di particolari artifici…

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