La chiesa dove si ode un brano musicale destinato a durare 639 anni

Nella ponderosa e inaspettatamente formale cerimonia, l’addetto ai tubi d’acciaio si avvicinerà il prossimo 5 febbraio con fare compunto all’assemblaggio del macchinario, poco più alto della sua mera statura umana. Una ricostruzione frattale e schematica, se vogliamo, di questo stesso involucro esterno se fosse portato alle ideali conseguenze; una specie di micro-ambiente ecclesiastico idealizzato, con tetto spiovente e due campanili che lo mettono ombra. Altrettanti sacchetti di sabbia continueranno a premere su altrettanti pedali (o se vogliamo, “tasti”) mentre il pubblico sembrerà trattenere il fiato. L’incaricato, allora, toglierà solennemente l’oblungo componente. E come se niente fosse, installerà la sua controparte lievemente più lunga. Dapprima nulla sembrerà essere cambiato nel circostante ambiente. Finché un poco alla volta, ci si abituerà al cambiamento. Il suono stesso, sarà diverso! La musica, di suo conto, continuerà ininterrotta.
Cos’è il silenzio, se non la percezione effimera di una cessazione del cambiamento… L’assenza transitoria, per lo più teorica o immaginifica, di alcun tipo di oscillazione nelle onde sonore, normalmente causata dall’interazione fisica tra le diverse monadi che compongono l’esistenza. Una situazione che risulta essere, formalmente, impossibile o quantomeno infinitamente improbabile. Poiché la stasi assoluta non è esiste in natura ed è molto complessa da ottenere artificialmente. Persino all’interno di una camera anecoica, dove la percezione sensoriale di un qualcosa implica la presenza di almeno un singolo portatore di coscienza. Il cui stesso corpo, il sangue nelle vene, i muscoli e le ossa, produrranno inerentemente il tipo di scricchiolio associato alla canticchiante e danzante sostanza che compone gli esseri viventi. Ma siamo davvero sicuri, in fin dei conti, che l’immobilità implichi necessariamente l’assenza? In una chiesa dedicata a San Burchardi facente parte di un ex-convento situato ad Halberstadt nel Circondario dello Harz, le orecchie aperte dei visitatori sono accolte dal prolungarsi di un singolo suono capace di prolungarsi anni, se non decadi prima di essere sottoposto a un progressivo cambiamento. Nell’universo totalmente arbitrario, completamente creato dall’uomo dell’ascolto musicale di un tale intento, esso potrebbe idealmente protendersi all’infinto. Pur risultando la voce, in un certo senso, di un’epoca e un autore appartenenti al nostro passato. Difficile immaginare a tal proposito che cosa avrebbe pensato il compositore statunitense John Cage (1912-1992) tra i principali creatori della teoria musicale contemporanea, di fronte all’utilizzo fatto in questo caso di uno dei suoi brani più famosi e filosoficamente interpretabili. Quello stesso ASLSP (As Slow As Possible – Il Più Lento Possibile) inizialmente scritto per pianoforte nel 1985 e successivamente adattato all’organo due anni dopo. Spalancando un abisso incolmabile per chi intendesse far seguito al titolo che è anche un invito sul metodo di suonarlo, quando si considera come la pressione della tastiera del più tipico strumento a corde domestico genera una nota che ha un inizio e una fine definiti, permettendo all’intera esecuzione ininterrotta una durata massima di 70 minuti. Laddove l’attrezzatura simbolo della musica da chiesa prevede la modulazione del passaggio dei suoni all’interno di una serie di canne, permettendo ad essi di prolungarsi per tutto il tempo in cui i mantici continuano a soffiare. Ovvero in un mondo servito dalla tecnologia moderna, ed a patto che qualcuno di abile ed attrezzato s’interessi alla questione, magari, chi può dirlo, per sempre…

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Le tre illusioni ottiche del maggior ponte nella baia di San Francisco

“Guarda, stupisci, interrogati sullo stato di salute delle tue sinapsi.” Avrebbe potuto facilmente sussurrare a un’interlocutore prototipico l’altoparlante per i passeggeri del volo tra New York e l’area della Baia a bordo del quale si trovava Will Mandis verso la metà del mese scorso, momentaneamente intento a superare la sottile striscia di asfalto sospesa a bassa quota sopra le acque barbaglianti di un territorio dal nesso intellettivo chiaramente inesplorato. Ove le cose parevano rispondere a un tipo di regolamento del tutto nuovo: non era forse quello, perpendicolarmente situato sopra al valido passaggio, un altro volo aereo passeggeri diretto verso lo stesso scalo? E non si trovava forse esso, in un chiaro ed evidente stato d’immobilità sopra un tratto invariabile di un così vasto e strabiliante mare? Fermo, Bloccato, in stato di Arresto, allo Stop, Tranquillo, Sospeso. In maniera paragonabile alla situazione di un pilota di autobus il quale, avendo rilevato un guasto incline a compromettere la sicurezza dei passeggeri, avesse deciso di fermare il proprio mezzo a lato della strada per chiamare il soccorso stradale. Eppur difficilmente la gravità terrestre, nella maggior parte dei casi, tende a permettere quel tipo di soluzioni per i velivoli che necessitano di generare la propria portanza, essendo più pesanti dell’aria…
Diverse, nel frattempo, sono le tipologie di ponte costruite per unire punti contrapposti ai lati di un crepaccio, fiume, dirupo, tratto di mare; così come risultano possibili dei gradi di difficoltà variabili in base alle precise condizioni di ciascuna circostanza vigente. Ed è probabilmente questa la ragione, per cui associando la seconda più grande città della Costa Ovest al concetto di un’infrastruttura stradale di collegamento, l’immagine che sorge con preponderanza nella mente e nei motori di ricerca è quella delle rosse torri svettanti del Golden Gate, la sospesa meraviglia di metà secolo dell’architettura che avvicina la parte più estrema della penisola di San Francisco Bay al resto di quella metropoli dai grandi dislivelli, con la sua luce massima di 1.282 metri sui 2.737 di lunghezza totale. Quasi nulla del resto, in termini di mera distanza, rispetto a quella percorsa dai due trait d’union posizionati nella parte laterale della stessa lingua di terra, di cui il più significativo dei quali posto in essere già nel 1929, il San Mateo-Hayward Bridge, vanta ben 11 Km dall’inizio alla fine, con tuttavia appena 230 metri di distanza massima tra due dei suoi piloni in evidente (o relativo) stato di allineamento. Abbastanza, caso vuole, per riuscire a generare un soddisfacente effetto parallattico per chi volesse tentare, per esempio, di osservarne la prospettiva da un punto di vista sopraelevato. Il che costituisce a dire il vero anche il segreto di tale memetica sequenza d’immagini, in cui il secondo aereo “sembra” soltanto rimanere in quel particolare luogo perpendicolarmente al ponte, causa lo spostamento progressivo di colui che ne ha immortalato l’evidenza a beneficio dell’indefinita posterità internettiana. Niente venti contrari o strani fenomani ad opera di dischi volanti alieni, dunque! Eppur sovviene un’intrigante e secondaria domanda in merito all’intera questione. Non sembra in effetti, anche a voi, che il ponte contenuto nell’inquadratura abbia l’aspetto ragionevolmente approssimativo rispetto a quello di una colossale banana? Appare più che mai opportuno, a questo punto, offrire in merito una spiegazione…

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Lupo-coccodrillo ed orso-balena: binari tortuosi per l’evoluzione del cetaceo marino

Così perfetto, nelle sue forme. Tanto insolito a vedersi: dipinto coi colori della mente, sulla cima di un gibboso promontorio, in riva alle acque di un bacino idrico dimenticato. L’aspetto generale di un’antilope, la corporatura di un maialino, con la grandezza approssimativa di un gatto. Creatura il cui nome fu assegnato per la prima volta, circa 10 milioni di anni dopo che l’ultimo esemplare fu sopravanzato dalla marcia inarrestabile dell’estinzione: Indohyus. In tal modo scoperto nel 1983 da Thewissen e Bajpai, nella regione indiana di Kutch; non propriamente un polo archeologico di alto rilievo, né del resto ci sarebbe stato granché d’interessante nell’ennesimo mammifero vissuto durante il periodo del Miocene, caratterizzato forse dal più altro numero d’esperimenti biologici, in larga parte fallimentari, condotti parallelamente dalla natura. Almeno finché, esattamente 22 anni dopo, a un paleontologo statunitense sotto la supervisione di Thewissen capitò d’individuare una strana struttura ossea mentre puliva la collezione di fossili originariamente appartenuta al collega defunto A. Ranga Rao. Qualcosa che si rivelò essere, ad un’analisi più approfondita, indiscutibilmente un chiaro esempio d’involucrum, il sistema altamente distintivo usato dalle balene per percepire a distanza la propagazione dei suoni attraverso l’acqua di mare. La scoperta, per ovvie ragioni, risultò essere sensazionale: ecco finalmente il teorizzato “anello mancante”, la creatura situata tra gli originali ungulati preistorici e i cetacei moderni, individuabile come un antenato in comune tra questi ultimi e l’ippopotamo delle fangose pozze del Serengeti. Ora un’ampia serie di resti ossei accumulati nel corso degli ultimi decenni, sembrava assumere d’un tratto un diverso significato; tra questi, l’aggressivo aspetto del Pakicetus, probabile carnivoro dalla biologia e il comportamento ecologico paragonabili a quelli di un canide lupesco. La cui scoperta risaliva al 1981 ad opera di Philip Gingerich in Pakistan, essendo anch’esso caratterizzato da tratti della conformazione del cranio classificabili come pachyosteosclerosi, ovvero conduttivi ad un sistema uditivo marino. Il che non significava, d’altronde, che simili animali vivessero la maggior parte della propria esistenza completamente immersi nelle acque dell’oceano Paratetide, conduttivo alla creazione di un diverso ecosistema e ricche opportunità di prosperare. Facendovi ricorso, piuttosto, nel primo caso per sfuggire ad eventuali predatori, così come fatto dall’odierno iemosco acquatico (fam. Tragulidi) e nel secondo al fine di pianificare agguati, in maniera potenzialmente analoga a quella di un coccodrillo. Ipotesi, questa, fortemente confermata dalla particolare disposizione degli occhi sopra il cranio della creatura in questione, perfettamente idonei a rimanere immersa quasi totalmente mentre attendeva pazientemente il passaggio della propria vittima designata. Non propriamente la stessa cosa, delle odierne megattere che filtrano biomassa grazie all’uso dei lunghi fanoni…

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La leggenda del piccolo drugstore inchiodato tra terra e cielo

Convergenza: l’incrocio di una multipla sequenza di fattori che, in determinate circostanze, può instradare il senso dei momenti verso la trasformazione dei rapporti tra causa ed effetto. Cambiando le regole, alterando le aspettative, inducendo a nuove connessioni tra le idee. Il tipico escursionista arrampicatore del geoparco dell’entroterra montagnoso nello Hunan, noto con il termine di Shiniuzhai – 石牛寨 (“Villaggio della Mucca di Pietra”) era solito ad esempio giungere al momento cardine della propria spedizione trasportando il carico non certamente indifferente di almeno un paio di litri d’acqua. Ovvero il fabbisogno giornaliero tipico, rivisto verso l’alto in funzione dello sforzo necessario a giungere nel punto panoramico al termine di quel piccolo pellegrinaggio. Mentre a partire dal 2018, in modo indubbiamente inaspettato, un nuovo approccio risolutivo alla questione ha scelto infine di palesarsi; come un orologio a cucù a 119 metri da terra, come una casetta per gli uccelli, come il locale di servizio abbarbicato sulle mura della fortezza per il massimo vantaggio dei suoi abitanti. Ma nel caso specifico, la fonte inalienabile del consumismo, un luogo sacro dove la pecunia può essere scambiata con servizi, oggetti, accoglienza. O più semplicemente ed in modo assai rilevante, provviste per alimentare gli organi e la mente fino al concludersi dell’avventura, acqua, cibo ed energy drink.
Capito, che idea? Fondamentalmente nient’altro che il particolare tipo di rifugio, nella sostanza tutt’altro che infrequente, che viene usato lungo il corso delle vie ferrate come punto di appoggio per chi sente la sua presa indebolirsi lungo il corso verticale di quei difficoltosi tragitti. Con l’aggiunta importante di un intero staff di guide alpine trasformate in commessi e addetti all’approvvigionamento, all’inizio un po’ per gioco. Finché non si è scoperta su Internet l’incredibile risonanza mediatica dell’iniziativa, con un misurabile aumento dei turisti e potenziale clientela sul sentiero della propria realizzazione fisica e personale. Tutti interessati, incidentalmente, a fare compere nel luogo diventato celebre come “il negozio più scomodo al mondo”. Ma ha davvero senso una tale definizione ingenerosa, quando si considera l’eventualità della sua assenza?

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