É possibile sfidare i giganti del rally a bordo di un minuscolo go-kart?

Concentrandomi sugli alberi che scorrono veloci, premo a fondo l’acceleratore, del tutto indifferente allo spazio ridotto che permane ai lati del veicolo della misura di un carrello della spesa. Mezzo a quattro ruote dal rumore acuto, non dissimile da quello di una moto fatta l’eccezione per la nota sorda restituita dall’ardita vicinanza con il suolo sterrato della foresta. Col tracciato chiaramente iscritto nella mente (zero spazio, in questo sport, per il navigatore!) abbino il gesto all’intenzione, prima ancora che la svolta giunga innanzi agli occhi materiali. Mentre con un formidabile colpo di reni, irrigidisco la schiena e le spalle, poco prima di tuffarmi dentro l’universo diagonale di un folle drift
Diligente, appropriata, nobile arte, di perdere il controllo al volante ma in maniera ben precisa, lasciando che la parte anteriore e quella posteriore di un’automobile, in un dato momento, agiscano in maniera indipendente per lo stesso fine: assecondare lo specifico andamento di una curva, dentro, attorno e infine oltre l’ostacolo, fino al raggiungimento del traguardo finale. Non è forse vero, tuttavia, che negli anni tutto questo è diventato in qualche modo TROPPO prevedibile? Sospensioni calibrate alla perfezione, gomme dalla mescola incrollabile, motori i cui rapporti giungono a coprire l’esatta lunghezza del più lungo rettilineo, meno la media dei suoi fratelli minori moltiplicati per la lunghezza della tappa di giornata… Matematica della vittoria, forse, questo è vero. Ma anche un terreno fertile per l’invadente arbusto della noia, che ad ogni evento cresce rigoglioso, privando d’aria e ossigeno il cespuglio dell’imprevisto. Col che non voglio dire, sia chiaro, che gli incidenti siano il sale di un rally, unico momento in grado di attirare l’attenzione della gente. Quanto piuttosto, l’esatto contrario: che nell’estremo ambiente delle moderne auto a trazione integrale preparate per la gara, non c’è più spazio per gli errori, poiché questi portano, immancabilmente, ad una fine improvvida del proprio contributo di piloti alle presenti circostanze. Ecco dunque, potenzialmente, l’idea: di quello che oggi prende il nome di Crosskart, o Kartcross che dir si voglia in base al paese di provenienza, nient’altro che l’applicazione del concetto originario del grande iniziatore Art Ingels, che negli anni ’50 nel suo garage in California costruì la prima automobilina per i piloti in carne ed ossa, futuro banco di prova e primo ambiente di trionfo ultra-giovane per piloti di chiara fama come Vettel, Hamilton, Alonso e lo stesso Michael Schumacher… Perciò ecco la domanda posta con i gesti da un oceano di distanza, quasi trent’anni dopo, dal pilota rallistico svedese Erland Andersson: “E per quanto concerne il fuoristrada, che cosa vogliamo fare?” Riuscite quasi a sentirla, potrei scommetterci: l’unione ultra-perfezionata dei concetti alla base di un’automobilina piccola ed economica, ma abbastanza potente da fissare tempi assolutamente degni di nota, sia sui tracciati “speciali” (normali strade di campagna) che in pista con terreno misto, nel moderno contesto della specialità rally-cross. Uno di questi selvaggi bolidi, così efficacemente riassunti dal video repertorio dell’editor spagnolo di settore Asturacing, dimostra essenzialmente l’incorporamento dei concetti comuni alle diverse interpretazioni del concetto di sprint car per la competizione negli ovali a trazione ridotta, meno l’enorme alettone e con un sistema di sospensioni in genere maggiormente sofisticato. Nel cui funzionamento, essenzialmente, è racchiuso il senso stesso di questo appassionante sport…

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Allarme per un missile piccione in avvicinamento

Il senso di accelerazione spropositata fuori dalla scatola oscura stava finalmente diminuendo, benché il fischio del vento non accennasse a calare d’intensità. Come fatto altre migliaia di volte all’interno della sua gabbietta, Jeff scrutò con solenne intensità ogni angolo della sua plancia di osservazione. Gli occhi attenti, il collo proteso, il becco leggermente aperto, nell’apparente tentativo disperato di assorbire il maggior numero possibile d’informazioni. Del resto Jeff sapeva, grazie ai suoi ricordi pregressi, che qualora non fosse riuscito a portare a termine l’importante missione non avrebbe ricevuto, fino al giorno successivo, altro cibo che quello assolutamente necessario alla sua sopravvivenza. Così le piume dorsali, all’improvviso, fecero per sollevarsi tutte assieme, mentre con un senso di trionfo aviario vide palesarsi, tra le nebbie mattutine, la sagoma desiderato dell’oggetto. Largo e piatto, come aveva appreso attraverso i lunghi mesi d’addestramento, con la protrusione verticale di quella che poteva solamente essere una ciminiera. Ma Jeff naturalmente, essendo un semplice piccione, non aveva conoscenza della terminologia specifica. Bensì la sola cognizione, rafforzata con sincera e reiterata enfasi, che colpendo tale cosa ancora e ancora e ancora, a un certo punto avrebbe ricevuto l’agognata soddisfazione alimentare. Così Jeff beccò, e beccò e beccò, la nave che tanto sembrava stesse facendo, per spostarsi dal centro esatto della sua magica finestra sul mondo. E man mano che continuava a farlo, il nemico ritornava proprio dove voleva che fosse, grazie alle azioni pregresse delle onnipotenti entità-umane, sole responsabili di averlo messo in quella strana situazione. Ci fu un momento sospeso nell’arco del tempo, quindi, in cui la scatola sembrò inclinarsi verso il basso, accelerando nuovamente fino a un punto privo di precedenti. E fu allora che Jeff comprese istintivamente, grazie allo strumento dell’istinto animale, che il momento della fine era ormai vicino.
Quanto descritto fino a questo punto, secondo le cronache pregresse, avrebbe dovuto verificarsi idealmente in un momento imprecisato della grande guerra del Pacifico, protrattasi tra il 1941 e il 1945 tra gli Stati Uniti e il Giappone, con un “semplice” piccione urbano nel ruolo di Jeff e possibilmente un incrociatore o corazzata battente la bandiera del Sol Levante all’altro capo dell’ideale arco, tracciato attraverso il cielo, descritto dal velivolo all’interno del quale si sarebbe svolta la scena. Nient’altro che una bomba guidata o missile che dir si voglia (un concetto certamente avveniristico per l’epoca) modello ASM-N-2 Bat, usata in combattimento non prima del 1944, successivamente al rilascio da parte di un quadrimotore Consolidated PB4Y-2 Privateer. Il cui volo avveniva tramite la tecnica dell’aliante, mentre la guida operativa fino al punto d’impatto sarebbe stata il frutto di un primitivo sistema di guida radar, idealmente capace di rilevare i potenziali spostamenti del battello nemico. Se non che i limiti di tale sistema, oltre al costo per singola unità, includevano una precisione stimata a circa il 50%, tutt’altro che ideale nella maggior parte delle situazioni di battaglia. E fu probabilmente proprio la preoccupazione relativa a tale inaffidabilità che avrebbe portato, verso il culmine di tale epoca sanguinaria, le autorità militari ad ascoltare, incoraggiare e infine finanziare un particolare progetto del celebre behaviorista e psicologo dell’Università di Harvard, Burrhus Frederic Skinner…

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Da un tempo di guerra, l’anello mancante tra il carro armato e la moto

Quando si considera lo stile di guida e lo stato d’animo, per non dire il modo in cui si guardano le curve, implicati da un particolare approccio veicolare agli spostamenti, non esistono probabilmente estremi più distanti che le due e le dodici ruote. Corrispondenti, le prime, al tipico implemento molto popolare anche in tempi di pace, con l’aggiunta di un motore alla versione più pesante di una bicicletta, meno i pedali; ed il secondo al caro panzer, corazzato sfondatore delle linee nemiche, oggetto di manovra ed ottima risorsa tattica della Wehrmacht, durante molte delle sue campagne condotte prima e dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale. E chi si mette dentro i panni del pilota, volta per volta, deve necessariamente riadattare i limiti delle sue aspettative, all’uno o all’altro caso, sulla base di capacità o prospettive ben diverse. Anche per questo fu inventata, in tempi soltanto lievemente sospetti, l’unione concettuale delle due cose, ovvero equivalenza veicolare di quello che potremmo definire un centauro delle valli, o una sirena dei mari. Sd.Kfz. 2 (Sonderkraftfahrzeug: veicolo speciale) o Kettenkrad (letteralmente “moto cingolata”) era una soluzione pratica a una grande quantità di problemi: spostare fino a due passeggeri, in aggiunta al guidatore, da una zona all’altra del fronte di battaglia, trainare pezzi d’artiglieria o aerei, consegnare bagagli o svolgere bobine di cavi. La sua popolarità, tuttavia, non avrebbe raggiunto l’apice fino all’operazione Barbarossa del 1941, quando i tedeschi s’inoltrarono attraverso il fangoso territorio della Russia coi loro mezzi, armi e bagagli, scoprendo quanto poco fosse nei fatti utilizzabile su tali superfici la moto con sidecar BMW R75, principale veicolo leggero da loro impiegato sui diversi fronti di battaglia. Ecco allora che i soldati Schmidt, Schulz, Koch o Bauer afferravano saldamente il rigido manubrio, riuscendo finalmente a trovarsi lungo i diversi punti della sovra-estesa catena di rifornimento militare della Germania.
La (o il) Kettenkrad costituiva, nei fatti, l’ottima espressione di un bisogno percepito da molte nazioni coéve, quello di un veicolo capace di essere impiegato attraverso le più diverse situazioni militari, un po’ come la Jeep dell’esercito americano. Sebbene fosse, rispetto a quest’ultima, sensibilmente più costosa e difficile da mantenere in condizioni operative. Questo perché il tipo di trasmissione e cingoli impiegati, l’onnipresente Schachtellaufwerk o sistema delle ruote sovrapposte era già sufficientemente complesso ancor prima di considerare il cingolo tenuto assieme da una lunga serie di cuscinetti a rullini, ciascuno chiuso in una capsula e da lubrificare individualmente, pena progressiva cessazione del funzionamento veicolare nel suo complesso. Benché la presenza di una ruota anteriore montata su una forcella a parallelogramma potesse costituire essa stessa un significativo vantaggio, capace di rendere più istintivo l’impiego del mezzo aumentandone nel contempo stabilità e agilità di sterzata. Dal che deriva la ragionevole questione di come, effettivamente, tale approccio relativamente poco significativo all’interfaccia di controllo umana potesse influenzare in qualsivoglia modo la direzione di spostamento di un qualcosa che pesava, tutto considerato, circa una tonnellata e mezzo esclusi i passeggeri. Ed è proprio in questo che possiamo trovare il genio fondamentale della compagnia costruttrice, la NSU Motorenwerke di Neckarsulm, vicino Stoccarda: poiché nel momento in cui si esercita pressione contro il suddetto manubrio, lungi da limitarsi a operare su di esso, il pilota mediante un complesso sistema idraulico interagisce con il sofisticato differenziale della moto/rimorchiatore, capace di arrestare l’uno o l’altro cingolo esattamente come avviene nella maggior parte degli altri mezzi cingolati. Verso l’ottimo e auspicabile raggiungimento della meta originariamente prefissata…

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Ruggisce ancora il bolide sospeso tra la vita e la Mors

Nella sua forma più pura e non adulterata, la potenza può essere molte cose: carisma, agilità, impatto, velocità, dinamismo. Ma in un certo senso trasversale, essa coinvolge sempre una specifica caratteristica, al di sopra di ogni altra. Sto parlando della la massa ovvero, forza diviso accelerazione, ovvero quanto le regole immutabili della termodinamica possono essere piegate all’implacabile volontà dell’uomo, al fine di raggiungere lo scopo ideale di partenza. Spesso a discapito della presunta ragionevolezza e qualche volta, finendo per pagare il prezzo più alto. Era il 1901, durante la prestigiosa gara europea della Parigi-Berlino, quando il progettista e pilota francese poco più che ventenne Charles-Henri Brasier, al volante di una delle sue ultime creazioni, vide troppo tardi un bambino di 10 anni che stava attraversando la strada, coperto dall’automobile che stava superando in quel momento. Senza alcuna possibilità di frenare in tempo, svoltare bruscamente o gridare al malcapitato, lo investì uccidendolo tragicamente, un’esperienza che l’avrebbe segnato per il resto della sua esistenza. Ciononostante, la gara non venne fermata ed il pilota, riprendendo la gara dopo una pausa di circa mezz’ora, la portò a termine arrivando in quarta posizione. La profezia in latino, a quel punto, si era compiuta: Mors ianua vitae “la Morte è la porta per la vita” mentre lo slogan scelto per l’omonimo marchio automobilistico che prendeva il nome da due fratelli imprenditori, tra i primi a credere e investire nel mondo delle gare competitive, diventava orribile ed inaspettata verità.
Probabilmente non fu proprio quella l’ultima goccia valida per sigillare il vaso di Pandora, data la distanza cronologica da un tale necessario evento, eppure il sacrificio del piccolo Ernest Breyer valse a dare il proprio contributo a un cambiamento che per lungo tempo, la gente aveva atteso. E nel 1906, con la prova di Havana della Cuban Race di febbraio, poi seguìta a primavera dall’introduzione della nuova gara siciliana della Targa Florio, il Club Francese dell’Automobile (ACF) annunciò l’inizio della prima stagione internazionale del nuovo Grand Prix motoristico internazionale, un’iniziativa che avrebbe ben presto fatto la storia dei motori introducendo, inoltre, norme specifiche per la sicurezza di piloti e spettatori. A quei tempi, per inciso, nessun produttore doveva sottostare a particolari leggi e regolamenti, con il solo limite di un minimo di 10 modelli costruiti e il peso massimo di 1.300 Kg, mentre ogni altra soluzione ingegneristica veniva giudicata opportuna. Il che avrebbe portato negli anni successivi ciascun produttore, tra cui Itala, Renault, Rolls Royce e Darracq, a iscrivere una quantità di vetture totalmente diverse tra di loro, spesso guidate da quello stereotipo di “pilota gentiluomo” che nella generazione immediatamente successiva, sarebbe stato attratto dall’universo totalmente nuovo dell’aviazione a motore. In un vero e proprio vortice di soluzioni contrastanti, più o meno efficienti, risulta dunque assai difficile collegare oggi determinati nomi alla loro automobile, anche vista la penuria di testimonianze foto/videografiche in un’epoca in cui lo scritto, ancora, dominava l’informazione. Escluso il caso, certamente raro ma tutt’altro che inusitato, di un esempio che possa esser giunto ragionevolmente integro di questa particolare epoca tecnologica, come il veicolo perfettamente rimesso assieme dopo esser stato tirato fuori dal deposito dove era finito e messo in mostra in questo video, dal celebre restauratore Eddie Berrisford. Una creatura di un’altro tempo, quando ancora i dinosauri mordevano con gli pneumatici le lunghe strade della Terra…

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