L’epica battaglia dei cuochi di cartone

Boxwars

Preparare un pasto per le diverse centinaia di persone presenti alla grande festa campestre di Tallarook, nella parte meridionale dello stato australiano di Victoria, sarebbe già abbastanza complicato senza doversi accontentare di pentole, mestoli, forchette, ciotole ingredienti, forni, padelle, mattarelli e coltelli fatti in spessa cellulosa corrugata, ovvero quello stesso materiale con cui Amazon spedisce le sue cose. Non c’è dunque molto da meravigliarsi, in tali circostanze, che il nervosismo possa crescere fino ad un punto di rottura, con i pluripremiati chef chiamati per l’occasione (già vincitori di molti confronti precedenti) che finiscono per sottrarsi le risorse a vicenda, in un crescendo di reciproci dispetti che ben presto sfocia, come spesso capita da queste parti, in una zuffa dalle proporzioni cosmiche e spettacolari. La data è lo scorso 8 settembre e questa è la ventunesima edizione del Boxwars, un evento di “creatività e distruzione” patrocinato dall’omonimo comitato di due persone, Hoss & Ross Koger, che l’inventarono nell’ormai distante 2002, nella loro città di Melbourne, fin troppo ricolma d’invitante e splendido cartone. Come del resto, tutte le altre. Il materiale rigido dal costo inferiore al mondo, che fluendo da cartiere in luoghi raramente definiti percorre ogni sentiero a sua disposizione, per giungere in fine, benvoluto o meno, nelle nostre case dallo spazio limitato. In scatole oblunghe oppure cubiche, di molte fogge o dimensioni e poi che fare? Qualcuno lo conserva, colpito dalla sua presenza un tempo funzionale, finché la quantità e l’ingombro superano il mero senso del “un giorno mi servirà”. Altri, più spietati, lo piegano brutalmente su se stesso, poi lo gettano nel cassonetto più vicino. È una legge, essenzialmente, di natura: tutto ciò che può essere riciclato, dovrà fluire, fino ai luoghi di rinascita a vantaggio della collettività. Ma da un punto all’altro di questa filiera, tra una vita e quella successiva, è possibile trovare strade parallele per l’arricchimento degli antichi presupposti. Ciò costituisce, essenzialmente, un simile contesto battagliero.
Una Boxwars, per come è stata definita dai suoi creatori e poi perpetuata dalle sedi periferiche dell’associazione, di cui ce n’è almeno una in Canada ed un’altra in Inghilterra, ha ben poche regole fondamentali: la prima è che l’evento è assolutamente gratuito ed aperto a tutti, con un incoraggiamento a mettersi comunque in discussione, che si rivolge in particolare a coloro che non hanno esperienze creative precedenti. Poi si vieta l’impiego, per ovvi motivi, di punti metallici, puntine, fascette in materiale plastico o altri sistemi potenzialmente lesivi di rifinitura del costume. Sono ammessi solo colla (a caldo o meno) e scotch. È infine severamente vietato lasciare in giro la propria spazzatura o i “resti” di quanto si era scelto da indossare al termine della battaglia, che per di più si dovrebbe, idealmente, trasportare fino a un punto di raccolta. Viene quindi suggerito un tema. E ce ne sono stati diversi di memorabili, tra cui l’antica Roma, i pirati dei Caraibi, il Medioevo, le automobili mutanti del film Mad Max, la prima e seconda guerra mondiale, l’invasione dei robot… Altre volte, si tratta di concetti più figurativi e fantasiosi, come “la ribellione contro l’ordine costituito” oppure “la rinascita del mondo dalle ceneri della sua fine”. Ma i tre precetti più importanti dell’intera serie di eventi, definiti non a caso leggi, sono i seguenti: 1 – Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te; (ma questa già la sapevamo) 2 – L’unica competizione è nella creatività; 3 – [Massimo] Buon Senso; soprattutto quest’ultimo valore appare fondamentale, in un contesto in cui dozzine di adulti intabarrati si spintonano l’un l’altro, spingendosi a terra vicendevolmente come demoni invasati. Per le ragioni o i pretesti più diversi. Interessante è stata in modo particolare quest’ultima edizione, per la scelta di un tema alquanto inaspettato: una parodia, o riproposizione, del celebre programma di cucina della Tv giapponese Iron Chef (Ryōri no Tetsujin) in cui cuochi di fama si confrontano nella preparazione di pietanze attorno a un ingrediente comune, il quale si è qui rivelato una colossale, spaventosa aragosta marrone…

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Il calligrafo dei loghi commerciali

Seb Lester

Il punto dello scibile umano è che può anche essere, come dice la parola stessa, diviso, ma assai più spesso è un solo tratto che fluisce, come la punta di una penna usata nel corsivo. Così come non esiste una separazione netta tra l’acqua e l’aria di un oceanico orizzonte (poiché l’ossigeno fluisce tra l’una e l’altra) neanche si può affermare che attività come la pittura, la tipografia e la grafica non abbiano diversi punti di contatto, giungendo a sostenersi l’una con l’altra esattamente come i muri di un indistruttibile edificio. Il quale, anzi! Cresce a dismisura, con ciascuna ennesima espressione del bisogno di dar forza all’arte. Toccala, tracciala, mettila da parte. Come ha fatto il creativo pubblicitario Seb Lester in questi ultimi quattro anni, prendendo lo spunto da impreviste e tutt’altro che positive casualità del fato, per spegnere il computer e impugnare la sua versione forse più portatile, il semplice tubo con l’inchiostro dentro ed una punta che…Ascolta, non è veramente necessario usare una complessa descrizione. Qui si tratta solamente di tracciare, sulla base di nozioni ormai acquisite, l’asta e il trave della A, le doppie gobbe della B, l’asola aperta di C-olei che viene dopo. Finché a un certo punto, come sa chiunque abbia mai giocato a scacchi, Sudoku o Tetris per un tempo medio, l’astrazione porta alla sinestesia. Ciò che era un semplice segno sulla carta, gradualmente si guadagna nuove, imprevedibili connotazioni. La D è impostata, quanto stolidi pinguini all’aeroporto. E poi si va per Favole, Grandi Hits per Internazionale Latitudine del Mondo e così via, fino Nirvana dell’Ottima Calligrafia […] Ma non è un gioco, questo. Qui si tratta di trovare vie d’accesso differenti, con l’obiettivo specifico di farsi un nome e una carriera.
Basta prendere in considerazione la particolare scelta dei modelli: non chi è venuto prima, l’insegnante, il collega esperienziato, lo scrittore tecnico di manuali, ma colui/lei che è già arrivato e il suo successo giace, come niente fosse, sotto gli occhi di noi tutti. O per meglio dire, sopra l’etichetta di ciò che davvero consideriamo importante nella vita: le nostre bibite, scarpe, scatole di hamburger carichi di salse e foglie di lattuga. Vedere l’inglese Seb Lester che traccia questi loghi, provenienti in buona parte dal mondo del commercio ma anche direttamente dalla carta intestata di alcune produzioni cinematografiche o gruppi musicali, permette di capire al primo sguardo la complessa situazione tipografica in cui siamo. Come un bambino che non sappia comprendere la provenienza del barattolo di tonno (cresce sugli alberi? Viene dalle fabbriche?) Il cliente tipo tiene in mano oggetti con dei piccoli emblemi, oppure sfoggia stemmi sul vestiario; e non per uno, né per alcuno di essi, si applica a schematizzare la fondamentale essenza. È la dannazione del creativo moderno, che per sopravvivere rinuncia alla sua identità. Così come non esiste l’inventore della “sedia” oppure del “cucchiaio”, il ricciolo aerodinamico e il doppio archetto d’oro sono, rispettivamente, parte di altrettanti brand totalizzanti, così pervasivi che hanno un suono ed un contesto estremamente definito. Sono diventati, per ogni principio delle circostanze, essenzialmente: pittogrammi. Siamo come gli aruspici della Cina arcaica, che leggevano il futuro nelle ossa delle tartarughe, ma neanche lo sappiamo. Tutti, tranne chi, istintivamente, traccia il segno dell’Imperatore sulla carta, senza alcun tipo d’assistenza digitale tranne quella del minuto, del secondo e l’ora della verità. Ed anche se è difficile applicare, in questo caso, il tipico paradosso ipotetico della cessazione immediata d’ogni gruccia tecnologica: “Immagina, un giorno: niente più corrente elettrica, questi grafici moderni son finiti…” (Ma in assenza di mass media, a cosa serve la pubblicità!?) Va pur detto che tracciare con la penna veramente stretta nella mano non è un semplice strumento per la crescita interiore. Può offrire, anzi, ottimi spunti verso determinati approcci, un tempo semplicissimi e diretti, oggi sorpassati dallo strapotere dei vettori bi-tri-quadri-dimensionali; diciamo, perché il Nuovo è sempre meglio del Vecchio? Però pensa pure a questo: se tutti vanno nella stessa direzione, il visionario e innovatore si ritrova come l’ultima persona nella fila. Attardandosi e pensando, anch’egli, al suo futuro.

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Donkey Kong, in stop motion sopra un telo

GuizDP

Se guardi King Kong al contrario, diventa la storia di un gorilla gigante che salva una donna dalla cima dell’Empire State Building, viene portato in giro per il paese in tournee e infine, per gratitudine, caricato sopra una barca e traghettato verso un’isola del Pacifico, suo habitat naturale. Se ci provi con l’equivalente ludico uscito dalla mente di Shigeru Miyamoto, colui che negli anni ’80 creò Super Mario, le cose diventano più complicate. Ci sono la scimmia, la donna e il grattacielo (ancora in costruzione) mancano le implicazioni conflittuali e la morale ecologica di fondo, così moderna e attuale. Si trattava pur sempre di una storia d’amore. Una, però, narrata con fiamme o barili rotolanti, al ritmo cadenzato di *kajingle* o *twingle* colonna sonora improvvisata e tutt’altro che casuale. Il gioco trovò la sua origine da un bisogno. Quello, da parte di Nintendo, di riciclare una grande quantità di cabinati arcade rimasti invenduti dopo il fallimento commerciale Radar Scope, un ben più consueto sparatutto spaziale. Il successo del prodotto sostitutivo, ovvero lo storico Donkey Kong, fu enorme, specie in seguito all’uscita dei sequel e anche successivamente, grazie alla conversione casalinga per il NES (1983) la console giapponese che, solitaria e splendida, riemerse dal grande crash dell’industria, avvenuto in quegli anni a causa della bassa qualità di molti giochi americani. Il NES, o come lo chiamavano qui da noi “Il Nintendo” aveva dal canto suo il grande problema dell’efficienza costruttiva, tutt’altro che puntuale. In particolare, molti ricorderanno il continuo bisogno di soffiare, prima d’iniziare. Il meccanismo di carica con la molla per le cartucce dei giochi, a volte, non consentiva una perfetta lettura dei contatti metallici, specie quando questi ultimi fossero sia pur lievemente ossidati e/o ricoperti dalla polvere. Il processo di avvio era in realtà pressocché randomico (diciamo che su 3 o 4 tentativi, l’ultimo avrebbe funzionato) ma un colpetto d’aria polmonare sembrava che aiutasse, il più delle volte. E pensare che ci sarebbe bastato un telo nero, qualche pezzetto di plastica e una piccola dose di fantasia! Almeno così è, a giudicare dall’ultimo video di GuizDP, youtuber esperto di ogni branca del geekdom digitale interattivo e

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PS3 game review: Modnation Racers

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Automobiline coloratissime che sfrecciano su piste paraboliche armate della più letale tecnologia bellica da cartone animato. Migliaia di combinazioni tra telai, motori, pneumatici ed un sistema di tuning dalla flessibilità superiore a qualsiasi Need for Speed mai concepito da Electronic Arts… ed al volante ci siamo noi, in prima persona. O meglio, il nostro alter-ego in stile designer toy 100% di gomma vinilica e del tutto diverso da quello di chiunque altro – o perfettamente identico ad un super-eroe, a Super Mario, ad Obama o a Lady Gaga, piuttosto che al personaggio reale o di fantasia da noi preferito in un dato momento X; non esiste al mondo copyright tanto blindato da resistere all’assalto dell’user-generated content. Il tutto sostenuto da un mood di fondo che non è urbano, non è cartoon, non è manga e soprattutto, fortunatamente, grazie a Chtulu non è kawaii.
Presentato durante la scorsa E3 di Los Angeles, Modnation Racers ha presto colpito la stampa specializzata per la semplice quanto efficace idea di partenza: l’ennesimo clone di Mario Kart, ma con la community e le funzionalità in stile Web 2.0 inaugurate su PS3 da LittleBigPlanet. Piuttosto che fare il classico reskin della gang Nintendo con i personaggi su licenza dell’ultimo franchise di successo, come decine e decine di corporation hanno fatto negli ultimi 18 anni (Shrek Kart! Star Wars Kart! Mucca e Pollo Kart!) La United Front Games sembra dirci dalla sua sede di Vancouver: “Conoscete la prassi, l’avete fatto dozzine di volte, ma stavolta ci mettete dentro quello che vi pare.” Totale libertà da qualunque tipo di brand. E già che ci siete fatevi anche i tracciati, che noi non abbiamo voglia. Qualcuno fermi quei dannati sovversivi!

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