L’elegante manovra gravitazionale del missile anti-nave russo P-800 Oniks

La storiografia guerriera è piena di grandi prove di abilità con l’arco, a evidente prova dell’errore intrinseco in quello stereotipo secondo cui colpire il nemico a distanza sarebbe stato “poco cavalleresco” o in qualche modo indesiderabile dinnanzi all’eventualità encomiabile di combatterlo all’arma bianca. Primaria, nell’iconografica narrativa dell’arazzo di Bayeux (1066) è la figura dell’arciere normanno che colpisce il re inglese Harold Godwinson all’occhio, vincendo istantaneamente la battaglia. Così come il personaggio giapponese di Nasu no Yoichi del clan dei Minamoto risolse uno dei maggiori conflitti navali della guerra Genpei (1180-1185) abbattendo il morale nemico dopo aver perforato in maniera impeccabile un ventaglio posto in cima ad un palo sul ponte della nave ammiraglia dello schieramento avversario. Ed altrettanto numerosi e significative sono le figure mitologiche che avrebbero potuto ispirarlo, come il dio cinese dell’arceria Hou Yi, che all’origine dei tempi perforò nove dei dieci soli che bruciavano la superficie della Terra o il divino guerriero Arjuna, a cui nel Mahabharata veniva attribuita una faretra magica che non esauriva mai frecce. Episodi che riassumono, ed in qualche modo riescono a costituire il prototipo ammirevole, di quella strana qualità che il famoso studioso degli scritti di Omero e veterano del secondo conflitto mondiale, Bernard Knox, definiva la “terribile bellezza della guerra” scevra di residui sentimentalismi o residue percezioni relative alle sue implicazioni meno evidenti.
E c’è senz’altro qualcosa di magnifico, leggendario persino, nella maniera in cui il tecnologico protagonista di questo video esegue il gesto che più di ogni altro gli riesce meglio, essendo stato la base stessa della sua progettazione principale: alzarsi in volo, per proiettare quella distruttiva volontà in avanti e verso il bersaglio definito al centro di quel vortice di fumo, fiamme e incomparabile rombo di tuono. Eppure non c’è nulla, in tale processo, che si richiami al drammatico e riconoscibile arco disegnato dalla traiettoria di un dardo convenzionale, o persino quello di un normale proiettile d’artiglieria: troppo lontano siamo giunti, a questo punto, dall’originale percezione di quanto debba contare la normale progressione fisica degli eventi, eccessivamente perfezionata risulta essere la metodologia ingegneristica che qui trova la sua più perfetta e iconica realizzazione. Mentre il missile Oniks (“Rubino”) si solleva dal suo tubo di lancio in maniera perfettamente verticale per circa una ventina di metri, quindi vira bruscamente verso Terra nella maniera ritenuta proficua dal suo bureau d’origine sin dai primi test verso la fine degli anni ’80, l’NPO Mashinostroyeniya di Reutov, vicino Mosca. E come l’infernale manifestazione di un piccione viaggiatore inviato da Lucifero in persona, cambia il senso del suo viaggio in direzione orizzontale. Fino alla drammatica realizzazione della sua spietata verità.
Stiamo parlando, per essere chiari, del moderno “dardo” o missile balistico creato con un singolo e fondamentale obiettivo: colpire un obiettivo avverso allo schieramento tattico delle forze messe in campo dai Russi, preferibilmente in un contesto marittimo/costiero ma non solo, grazie alla funzionalità di base offerta dal veicolo capace di trasportare e lanciare direttamente l’avanzato sistema d’arma da 3 tonnellate di peso, l’autocarro K-300P Bastion-P. Il quale prima di realizzare la sua principale ragion d’essere, come ha già potuto fare più volte nel corso della storia bellica recente (e non sto parlando SOLO di esercitazioni) punta i suoi tubi di lancio direttamente verso il cielo, in quella che sarebbe un’evidente sfida rivolta alle nubi e il volo insostanziale degli uccelli. Se non fosse per la capacità del missile di eseguire, in maniera pressoché perfetta, una delle manovre più importanti associate ai primi fondamentali minuti dell’esplorazione spaziale…

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Il peso storico dei tre bombardieri che hanno sorvolato Tampa ed il Super Bowl

Il 7 febbraio 2021 nel giorno più importante dello sport statunitense, mentre una rara versione collaborativa dell’inno nazionale finiva di essere cantata da Eric Church e Jazmine Sullivan, un tuono roboante si è abbattuto sulla cittadina floridiana e l’intero Golfo del Messico. Ma si è trattato, alquanto stranamente, di un evento tutt’altro che imprevisto, accompagnato da un’immagine accuratamente composta per sollevare un senso di patriottismo ed orgoglio nazionale anche nei cuori maggiormente induriti dall’epoca spoetizzante che stiamo attraversando. Tre sagome dall’alto contrasto, tre velivoli riconoscibili come altrettanti cavalieri dell’Apocalisse, un signum celeste che è anche un concentrato di tecnologia e munificenza della portata difficile da valutare immediatamente. Si, nient’altro che l’annuale flyby o flypast che dir si voglia, organizzato dalle Forze Aeree in occasione della finale di campionato della NFL. E si, davvero organizzato in una simile maniera; niente aerei d’epoca, niente caccia supersonici, soltanto tre incredibili giganti. Per un totale numerologico stranamente (casualmente?) significativo: B-1+B-2+B-52=55 (LV) ovvero il numero dell’edizione di questo strano, quasi surreale Super Bowl. Con lo stadio pieno soltanto a metà per via dell’attuale situazione pandemica ed anche gli aeromobili localizzati in quel cielo profetico, ridotti a una frazione del consueto numero impiegato in precedenza. Il che ha portato, di contro, a incrementarne il “peso”; e non sto parlando solo delle circa 200 tonnellate possedute da ciascuno di questi giganti dei cieli, bensì anche del messaggio rappresentato da una simile presenza sotto i riflettori del mondo, in questo particolare momento geopolitico e politicamente disagiato. Occorre considerare a tal proposito la maniera in cui, nell’AD 2021, siano rimaste solamente tre nazioni in grado di schierare, e condurre fino all’obiettivo in qualsiasi recesso del globo terrestre, la razza in estinzione del grande bombardiere strategico, un’arma nata in bilico tra le due guerre mondiali e che ha trovato una continuazione tattica nella teoria bellica del “triangolo nucleare” (missili intercontinentali, sottomarini, aerei) utile ad assicurare la mutua distruzione reciproca in caso di terza ripetizione, piuttosto che l’annientamento di una mera e deludente parte della popolazione umana attualmente preoccupata per altri problemi. Ma né la Cina, e di sicuro non la Federazione Russa, possiedono la storia mediatica e il servizio di un’ufficio stampa, collegato ad ogni livello della macchina comunicativa nazionale, capace di dare una simile visibilità ad un gesto tanto costoso ed esistenzialmente vacuo. Ma possiamo giungere davvero a definirlo, come osservatori esterni, del tutto superfluo? Dipende. Dall’interpretazione che vogliamo dare, in merito ai suoi tre ferrosi, fiammeggianti, alati protagonisti.
Una visione iconica, quasi un’impossibile allegoria. Giacché mai in precedenza, fuori da particolari esercizi a breve termine, tre aerei tanto differenti avevano trovato una ragione per volare nella stessa formazione celeste. A partire dal ponderoso B-52 Stratofortress, per usare un’ordine cronologico d’entrata in servizio nel remoto 1955, per certi versi il più “noioso” della triade, per quanto possa definirsi tale l’unico aereo al mondo dotato di un carrello sterzante anche nelle ruote posteriori, costretto ad atterrare come un granchio in situazioni ventose data la poca autorità direzionale del suo timone. Ma spinto innanzi dagli otto poderosi turbogetti Pratt & Whitney TF33-P-3/103, per una spinta complessiva di 608 Kn, tale da permettergli di condurre a destinazione l’intero arsenale di bombe, missili ed ordigni nucleari a disposizione del più temuto paese d’Occidente, senza dimenticare la salvaguardia dei suoi cinque membri dell’equipaggio grazie ad un sistema d’eiezione piuttosto originale: due verso l’alto, tre verso il basso. Il che non rende particolarmente difficile immaginare quale siano state le postazioni preferibili, durante il passaggio a quota relativamente bassa sopra il Raymond James Stadium!

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L’uomo nato sotto il segno di una stella ninja in agguato

Col fermarsi momentaneo del vento, l’aria tacque in mezzo agli alberi della foresta di Boemia. L’uomo con la bandana, cogliendo l’auspicabile momento, impugnò quindi un’intera manciata delle armi necessarie per la sua sessione di addestramento. Piccole, simmetriche, appuntite shuriken. Quindi il cinque volte campione di lancio istintivo dei coltelli e 4 volte iscritto nel libro dei record Adam Celadin, tenendo lo sguardo fisso verso l’obiettivo, iniziò a correre tra i tronchi, poggiando in rapida sequenza le sue scarpe da ginnastica sulla corteccia dell’uno e l’altro fusto, per darsi lo slancio necessario a sollevarsi fino ai rami più bassi della selva in paziente attesa. Ed ogni volta, un lampo di luce, seguìto da un sibilo dell’aria separata per il transito di un affilato oggetto. Destinato a conficcarsi, con un tonfo spietato, nel bersaglio nudo del suo immaginario nemico. Faggio veterano, ricoperto dalle cicatrici dei lunghi anni di addestramento. E con più stelle di un intero albero di Natale. Al sesto lancio, l’atleta si fermò per qualche istante a meditare. E aperti nuovamente gli occhi, raccolse dalla sua riserva l’arma distruttiva usata per concludere il conflitto immaginario: la croce di metallo a quattro punte, dal peso complessivo paragonabile a quello di un’ascia da guerra. Caricando il colpo e misurando attentamente la distanza, iniziò il gesto utile a condurla verso l’obiettivo. E…
Molte disquisizioni variabilmente colte sono state spese in merito all’effettiva esistenza pregressa del ninja (忍者) o shinobi (忍び), il leggendario guerriero furtivo del Giappone feudale. Una tradizione legata almeno in apparenza all’esigenza percepita, da parte dei signori che si fecero la guerra per oltre dieci secoli, fino alla sofferta unificazione dell’arcipelago, di sfruttare metodi non propriamente convenzionali ed ortodossi, che tendevano spesso ad includere lo spionaggio, la diffusione di false informazioni e l’assassinio. Finché attorno al XVI secolo, o almeno così si dice, la pratica di tali arti non venne formalizzata in una serie di precise scuole d’arti marziali, ciascuna tramandata da una precisa linea di sangue, affine al concetto propedeutico di un clan. Ciascuna particolarmente specializzata, benché nell’ideale comune contemporaneo, ancora oggi, persista uno stereotipo ideale del tipico appartenente a questa misteriosa categoria professionale che include alcuni elementi esteriori continuativi nel tempo: furtivo ed invisibile, vestito completamente di nero e con il volto coperto dal tipico cappuccio. Armato di tutto punto, con la spada, vari tipi d’implementi atipici con corda/catena e soprattutto, attrezzi da lancio dalla foggia estremamente riconoscibile, pensati per ferire o rallentare gli eventuali inseguitori nemici. Il termine shuriken (手裏剣 – letteralmente: lama della mano nascosta) viene in genere attribuito ad un’intera classe di coltelli dalla forma in realtà piuttosto varia, che oltre ad includere gli hira shuriken (平手裏剣) dalla forma piatta, ovvero le caratteristiche stellette ninja, vedeva spesso l’impiego di sottili pugnali dritti come un bastone, chiamati per l’appunto bō shuriken (棒手裏剣). Armi, quest’ultime, certamente in grado di arrecare un danno maggiore di quanto si potrebbe essere indotti a pensare, come ampiamente dimostrato dal moderno praticante Celadin, benché l’impiego su un bersaglio in movimento dovesse risultare necessariamente più difficoltoso rispetto a quello effettuato ai danni di un povero tronco indifeso. Tanto da giustificare l’ulteriore leggenda secondo cui i suddetti attrezzi venissero preventivamente bagnati in vari tipi di veleno, oppure immersi nella melma per garantirne la contaminazione da parte dei micidiali batteri del tetano, per garantire la futura dipartita del proprio avversario. Una visione tanto improbabile, quanto conveniente alla propagazione del mito…

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La lunga e acuminata ricerca di un sistema per distruggere il sottomarino nemico

Il tono monotono del sonar risuonava nella cabina parzialmente oscurata, nell’estremo tentativo di risparmiare le batterie. L’equipaggio tratteneva dolorosamente il fiato, mentre l’ufficiale addetto al rilevamento osservava l’indicatore elettrico, con le mani ben salde sulle sofisticate cuffie prodotte in Germania. Il sommergibile giapponese RO-105 procedeva innanzi ad un ritmo lento ma regolare, tentando laboriosamente di avvicinarsi alla prua del cacciatorpediniere americano, dove sarebbe risultato invisibile il tempo necessario a poter tentare un attacco capace di capovolgere finalmente la situazione. Con una lieve esalazione del suo respiro, il capitano Ryonosuke si guardò attorno, tentando di giudicare il morale del suo equipaggio: ormai da un giorno, una notte ed un giorno di quel drammatico maggio 1944 era diventato ormai evidente come l’operazione A-Go, concepita dal comando centrale per bloccare i rinforzi statunitensi navali in arrivo presso le isole dell’Ammiragliato e la Nuova Guinea, stesse andando incontro ad un drammatico fallimento. Senza più ricevere comunicazioni dagli altri sommergibili del suo gruppo di fuoco e una volta ricaricati per quanto possibili i suoi motori elettrici, il RO-105 si era quindi immerso, per quello che avrebbe probabilmente costituito il suo ultimo sacrificio nel nome dell’Imperatore. A quel punto i loro numerosi nemici, nel tentativo di affondarli, avevano accecato loro stessi; mentre sotto il suo esperto comando, ogni volta il battello riusciva a sfuggire durante le alterazioni del sottofondo sonoro dovute al rilascio fallimentare delle grosse bombe di profondità usate con relativo successo nell’Oceano Atlantico, ma ancor più cacofoniche nei complessi gradienti idrici e i sistemi di correnti del vasto mare d’Oriente. Ora, perfettamente consapevoli di dove si trovasse il nemico, erano stanchi di fuggire. Mentre lo scafo di quella che sarebbe passata alla storia come USS England (se mai un ossimoro…) sembrava fermamente intenzionata a puntare dritta su di loro, offrendo l’occasione perfetta per contrattaccare una volta schivato, per l’ennesima volta, lo sciame d’esplosioni subacquee a rilascio controllato. Eppure, sembrava esserci qualcosa di diverso nelle sue manovre, come se cercasse intenzionalmente di venire incontro al RO-105. E in quel momento, improvvisamente, Ryonosuke si accorse di avere un terribile presentimento sull’immediato corso del suo futuro…
Riuscite ad immaginare niente di peggio? Il mare che esplode attorno a voi, rinchiusi all’interno di una scatola di metallo, mentre qualcosa d’enorme ed incredibilmente determinato tenta di triangolare la vostra posizione, continuando a scaricare ordigni concepiti espressamente per infliggere danni allo scafo, mediante l’onda d’urto generata dall’ondata idrostatica. Uno scenario capace, tuttavia, di offrire un largo preavviso e diverse opportunità di fuga. Laddove l’ipotesi certamente peggiore, dal punto di vista dell’equipaggio, sarebbe un qualcosa di ben più subdolo e silenzioso. Capace di dettare il sopraggiungimento dell’ora finale in modo drastico e repentino, senza nessuna possibilità di appello. Una conclusione, questa, a cui giunsero famosamente i cervelloni del Dipartimento dello Sviluppo delle Armi Miscellanee a Whitehall, Londra (alias Wheezers & Dogers o “la scatola dei giocattoli di Churchill”) quando verso la fine del 1941 giunsero a poter montare sulla HMS Westcott un prototipo della loro ultima invenzione, concepita come approccio totalmente alternativo alla metodologia migliore per mettere letteralmente a tacere i marinai del Servizio Silenzioso. E c’era molto di dirompente, nonché prono a suscitare un certo livello di dubbio nei suoi futuri utilizzatori, nel sistema di mortai multipli denominato Hedehog (“Porcospino”) con un riferimento alla versione nordamericana di tale animale, più grande ed incline a “scagliare” i suoi aculei all’indirizzo degli eventuali aggressori carnivori tra le siepi della foresta. Ma anche il potenziale seme capace di rivoluzionare cosa fosse effettivamente possibile realizzare, nelle più terribili circostanze, quando le orribili regole della guerra allargavano a due interi equipaggi la spietata risoluzione alternativa possibile tra Noi, o Loro.

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