Sri Lanka di gimcane di gloria e tricicli borbottanti a motore

In principio l’uomo creò la ruota. E tutti videro che era cosa buona e giusta, poiché permetteva di spostare cose o persone da un insediamento all’altro senza particolare fatica, persino in assenza di una ragionevole approssimazione cavernicola del concetto di “strada”. Eppure lo spirito primordiale dell’avventura non era del tutto soddisfatto, come se ancora un qualcosa mancasse all’appello… La cognizione secondo cui Se Può Essere Costruito allora è necessariamente possibile, in qualche maniera, Usarlo per Fare le Gare. Una visione socialmente omnicomprensiva, la stessa che ci porta, in una vasta selezione di circostanze, a competere per determinare che ha il maggior diritto di primeggiare. Perché io sono, soprattutto: più veloce, più resistente, più intelligente, più forte di tutti gli altri! E così dev’essere vero, necessariamente, per i remoti discendenti della mia ininterrotta dinastia. Che dalle valli del Tigri e l’Eufrate marciarono verso Oriente, ponendo le basi delle eterogenee civiltà d’Asia. Tutte straordinariamente diverse tra di loro in molteplici aspetti, fatta eccezione per uno più d’ogni altro: la potente passione per quel leggendario triciclo, l’estremamente versatile, nonché sempre utile Tuk Tuk. Che come ogni altra cosa utile nella storia, sembrerebbe essersi guadagnato attraverso i circa 90 anni della sua esistenza una particolare personalità immanente, paragonabile a quella di un vecchio amico delle collettività urbana, grazie alla maniera in cui risolve quotidianamente quel problema antico. E se ha le ruote, come dicevamo, chi potrebbe mai davvero pretendere di mantenerlo perennemente incatenato alle stringenti quanto necessarie norme del cosiddetto senso comune?
Intendiamoci, di gare a tre ruote tenute tra l’India e il Sud-Est Asiatico ce ne saranno state, attraverso le generazioni, svariate centinaia. Tutte organizzate tuttavia localmente e rimaste, in funzione di ciò, eventi pressoché ignoti ai media internazionali, riuscendo a risultare per la fantasia comune poco più che leggende prive di un volto da associare all’idea. Almeno finché, ancora una volta, la pervasiva multinazionale della bibita col Toro Rosso non ha esteso i suoi peduncoli oculari (o tentacoli operativi) fino ai contatti necessari per ravvivare, con straordinaria enfasi, le braci motoristiche di un metaforico incendio tra le giungle al di sotto del decimo parallelo. Al ritmo sincopato di un tonante ronzio, che in terra italiana avremmo avuto ben poche esitazioni nell’attribuire al più operoso e laborioso degli “animali”, l’Ape. Quello stesso veicolo che, progettato per la prima volta nel 1948 dal designer della Piaggio Corradino D’Ascanio come seguito utilitaristico della Vespa uscita soltanto l’anno prima, sarebbe approdato in seguito ad Est, migliorando sensibilmente una serie di progetti giapponesi già precedentemente in uso ed acquisendo una vasta varietà di appellativi distinti, destinati a convergere nell’onomatopea internazionale del suo motore, che si trova in uso tutt’ora.
La ferocissima Tuk It, gara che lo mette finalmente in competizione, assieme ai suoi molti simili prodotti con licenza variabilmente ufficiale tra Pune e Bangkok, trova quindi il suo svolgimento presso lo stato isolano dello Sri Lanka da una quantità di almeno tre anni, come desumibile da una pagina d’invito all’evento rimasta su Facebook fin dal remoto anno 2017. Benché la vera celebrità mediatica non sarebbe stata raggiunta, in maniera piuttosto evidente, fino all’evento tenutosi lo scorso febbraio 2020, con conclusione appena pochi mesi prima che il mondo intero facesse il suo tragico ingresso nell’Era Covid. Un’impresa epica al cui confronto, persino l’Odissea omerica potrebbe sembrare poco più di un viaggio turistico che ha momentaneamente preso una piega inaspettata…

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Il bolide regale che fu una delle prime automobili sportive d’Europa

Il primo significativo punto di svolta per la compagnia automobilistica di Barcellona Hispano-Suiza, il cui nome significa letteralmente “Spagnola-Svizzera”, sarebbe giunto secondo un famoso aneddoto nell’aprile del 1904, quando il re Alfonso XIII decise di visitare il castello di Sagunto a Valencia. Occasione in cui l’intraprendente agente di vendita e pilota Francisco Abadal, cogliendo al balzo l’occasione, fece in modo di sorpassare “accidentalmente” il corteo regale sulla ripida collina che portava al maniero, con la sveltezza e la rapidità che potevano essergli concesse solamente dalla sua T-20, elegante vettura con la carrozzeria in stile torpedo che colpì immediatamente la fantasia del sovrano, rinomato amante dello sport e dei motori. Al punto che entro pochi giorni, chiese di diventare anche lui un cliente dell’azienda, con il duplice effetto di aumentare in maniera esponenziale il prestigio in patria ed iniziare il lungo e felice percorso che l’avrebbe portato a possedere, fino alla sua deposizione ad opera di Francisco Franco all’inizio della guerra civile del 1936, oltre 30 veicoli costruiti da tale azienda. Detto ciò un posto speciale in questo lungo sodalizio sarebbe stato sempre occupato dall’unico veicolo che sarebbe stato giudicato degno di portare il nome del sovrano, in occasione della vittoria conseguita nella celebre gara parigina di Bois de Boulogne, contro alcuni dei più importanti marchi della sua Era. Grazie, soprattutto, all’innovativa soluzione tecnologica che fu una delle più dirompenti idee del brillante ingegnere e fondatore della Hispano originario della città di Ginevra, Marc Birkigt che aveva fatto costruire un motore dotato per la prima volta non di soli due cilindri bensì quattro, disposti verticalmente con una configurazione a T piuttosto che ad L come era stata la scelta più comune fino a quel momento. E posizionato, in maniera strategica, nella posizione più arretrata possibile dentro il lungo cofano dell’automobile, affinché una distribuzione del peso maggiormente vantaggiosa servisse a garantire un migliore controllo in curva. Ma le innovazioni della Re Alfonso XIII 45 CR come dimostrato in questo video del californiano Mullin Automotive Museum, che ne possiede uno degli appena 4 esemplari rimasti al mondo, sarebbero state molte ed altrettanto significative in tutti i campi che potevano considerarsi rilevanti al fine di percorrere un tracciato con la maggiore velocità, ed affidabilità possibili in queste prime decadi del Novecento.
A partire dal radiatore non più piatto bensì con la forma di un cuneo, ottenendo così un profilo aerodinamico migliore, e le sospensioni con la durezza regolabile per tutte e quattro le ruote, passaggio spesso necessario data la natura spesso imperfetta delle “strade” (se così possiamo chiamarle) dove si gareggiava a quei tempi, che potevano prevedere un fondo sterrato, di ciottoli o persino ancor più problematico per la tenuta dei veicoli coinvolti. I quali potevano già superare abbondantemente, d’altra parte, la velocità dei 110-120 Km orari, con conseguente posizione precaria dei due occupanti dell’abitacolo, privi di parabrezza, cintura di sicurezza e con sportelli che arrivavano appena alla fiancata dell’autoveicolo. Questo perché, data la natura e collocazione del tipico serbatoio della benzina in uso a quei tempi, era dato per scontato che in caso d’incidente il veicolo avrebbe preso fuoco, garantendo una maggiore probabilità di sopravvivere nel caso in cui si venisse sbalzati fuori immediatamente, e il più lontano possibile dall’ormai incandescente posizione di guida…

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La decennale battaglia tra una coppia di carri armati e la muraglia di neve

“Carica!” Grida il collega ranger, mentre con senso d’urgenza stranamente intensa sollevo il grande proiettile dal bossolo metallico con entrambe le mani, raddrizzo la schiena e lo inserisco nell’apposito alloggiamento all’altro capo della bocca da fuoco. Con un’espressione concentrata, appoggio allora le mani al lato interno dell’alloggiamento dell’equipaggio all’interno della posizione tra le meno comode sul campo di battaglia: l’angusta torretta di un M60 Patton, pronto all’azione. “Carico!” Grido quindi e lui sembra rispondere con la prima sillaba della parola “Fuoco!” Ma non prima che un roboante suono scuota il profondo stesso del mio essere, accompagnato dalla vibrazione che pare coinvolgere l’universo e tutto quello che contiene. “Al termine di questa lunga giornata, faremo in modo che l’abbia capito. E se non l’avrà capito, torneremo domani. Carica!”
“Lei” è l’alto dirupo noto al grande pubblico come Montagna del Cowboy, ovviamente, che si staglia candida dinnanzi al punto di passaggio strategico dello stato di Washington per la città di Seattle, a sua volta chiamato Stevens Pass. Ma pura follia sarebbe scegliere di fidarsi del suo aspetto tranquillo e stolido, del tutto privo di alcun principio di minaccia immanente, come avrebbero potuto certamente testimoniare i nostri àvi al principio del secolo passato. Quando in un fatidico febbraio del 1910, senza nessun tipo di preavviso, una gigantesca valanga ebbe modo di sfiorare per pochi metri la struttura gremita dell’hotel sciistico Bailets, per colpire il deposito ferroviario sottostante. Nei cui treni, sfortunatamente, si trovava un grande numero di passeggeri addormentati, in attesa di continuare il proprio viaggio con le prime luci dell’alba, molti dei quali persero la vita. 96 vittime per essere precisi, nel disastro nevoso maggiormente significativo nell’intera storia della Nazione. Così che in quel giorno s’incrinò in maniera significativa il rapporto di fiducia tra uomo e natura, portando allo sviluppo di una situazione che, nel giro di poche generazioni, avrebbe condotto ad una guerra vera, senza più alcun tipo d’esclusione di colpi.
Diversi paesi montagnosi e soggetti al verificarsi periodico di un candido inverno, nei decenni immediatamente successivi alla grande guerra, stavano conducendo esperimenti in merito alla maniera migliore per gestire le valanghe, spesso anticipandone il verificarsi affinché nessuno fosse presente per riceverne l’impatto significativo, totalmente avverso alla continuazione della vita umana. Negli Stati Uniti in particolare, tuttavia, questo discorso non avrebbe avuto inizio prima dell’assunzione, da parte del Servizio Forestale, della figura professionale di Douglass Wadsworth nel 1939, il primo uomo destinato a ricevere la qualifica, e i doveri professionali, dell’innovativa qualifica di snow ranger. Istituendo il primo tipo di processo bellico per il controllo preventivo delle montagne. I primi esperimenti ebbero luogo presso l’area sciistica di Alta, tra le montagne Wasatch dello stato dello Utah, dove lavorando assieme ai suoi colleghi l’importante pioniere istituì una serie di regole per gli escursionisti, affinché questi fossero pronti a riconoscere il pericolo imminente di valanghe, tenendosi alla larga. Non contento di questo, tuttavia, si armò anche di una certa quantità di dinamite, per posizionarla e farla esplodere nei punti strategici dell’accumulo nevoso immanente. Ciononostante, provocarne intenzionalmente il sommovimento si rilevò non soltanto un’attività più difficile del prevista, ma anche potenzialmente pericolosa quando poche ore dopo che il suo team aveva lasciato un sito giudicato a rischio, l’intero fianco roccioso si scrollò di dosso il manto bianco, con un episodio che avrebbe potuto facilmente costare la vita di ogni singola personalità coinvolta. Fu chiaro pressoché immediatamente, a quel punto, che una soluzione migliore doveva essere trovata e implementata al più presto. E caso volle che proprio dal vortice terrificante della storia, sarebbe giunto un nuovo tipo di suggerimento utile allo scopo. Quando proprio l’anno successivo, sarebbe scoppiata la seconda guerra mondiale.

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Lo zar Pietro e il più imponente oggetto mai spostato dalla forza dei muscoli umani

Chi ha molto dire o fare, fieramente avanzi fino a un luogo elevato: lo stesso che occupa l’antica statua equestre di Marco Aurelio, lungamente esposta in Laterano a partire dall’VIII secolo, dopo aver occupato numerosi altri luoghi per oltre un millennio, nei diversi quartieri della città di Roma. Un destino che, molto probabilmente, non potrà mai toccare alla scultura concettualmente simile che oggi campeggia nel centro della piazza del Senato a San Pietroburgo, la città costruita per la volontà di un successivo Cesare ed a lui dedicata, tanto distante nel corso serpeggiante dei secoli da essersi trovato attribuito una versione traslitterata dello stesso appellativo: zar. Questo poiché uomo e cavallo, costruiti nello stesso materiale bronzeo, costituiscono un tutt’uno inscindibile anche con l’orpello inamovibile per definizione. Quel macigno dal peso impressionante di oltre 1500 tonnellate, costituente il piedistallo alto 7 metri da cui campeggiano, a loro volta, gli ulteriori 6 della statua del sovrano. Uno di quei lavori tanto eccezionali da trovarsi normalmente avvolti dalle nebbie tenebrose del mistero, se non fosse come nel presente caso possieda, nei fatti, un preciso contesto socio-politico e una data; quelli in cui la neo-imperatrice Caterina II, 3 anni dopo aver assunto il potere nel 1762 con il colpo di stato che aveva guidato contro il marito e sovrano Pietro III, trovò un modo potenzialmente funzionale a legittimare la sua presa salda sui sistemi di potere della nazione. Scegliendo di farlo, tra i diversi approcci a sua disposizione, proprio costruendo un monumento che potesse attraversare integro il passaggio delle Ere, indicando nel contempo a tutti chi sarebbe stato l’illuminato ispiratore del suo buon governo futuro. Così che per farlo, fece venire fino alla sua capitale la figura a volte controversa del celebrato scultore francese Étienne Maurice Falconet, ma si preoccupò anche di far disporre un “qualcosa” che potesse rendere la sua opera davvero immortale. L’oggetto fuori dal contesto era chiamato “pietra del fulmine” a causa della spaccatura nella sua parte superiore, che si riteneva fosse venuta a crearsi per l’impatto di una scarica elettrica durante un temporale. Una letterale piccola montagna di granito di Rapakivi, situata verso il golfo di Finlandia nella zona fuori dalle mura di Lakhta, del tipo che normalmente veniva fatto a pezzi per costruire i fregi e gli ornamenti di un’intera dimora signorile, se non che la prestigiosa erede del potere temporale russo aveva piani ben diversi per questo ponderoso dono della natura: “Prendetelo e spostatelo, così com’è. Sia questo il piedistallo della nostra opera immortale.” Ci sarebbe voluto del tempo, ovviamente. E fu proprio tale scelta la principale ragione per cui ben 14 estati sarebbero state necessarie, affinché la statua equestre dell’insigne predecessore trovasse finalmente posto al centro dello spazio che era stato riservato alla sua regale imponenza. Ma l’imperatrice sapeva circondarsi di sapienti consiglieri e fu così che in quel particolare frangente poté contare sull’ingegno del tenente colonnello dell’Esercito Russo originario dell’isola di Cefalonia, Marinos Carburis. Il quale sviluppando un particolare metodo per sollevare la pietra dalla nuda terra della patria d’adozione, diede l’ordine di muoverla in inverno, sfruttando l’inerente scivolosità del ghiaccio e della neve, in aggiunta alla sua specifica invenzione di una slitta di metallo sostenuta da una sorta di rudimentali cuscinetti a sfera. Per poi caricarla su una chiatta, sostenuta a sua volta da due navi da guerra, per compiere il tragitto fino all’iconica foce del fiume Neva. Espedienti tanto validi, e risolutivi, che l’impresa poté essere compiuta con il solo uso di argani e la dedizione di parecchie centinaia di uomini, senza far ricorso all’energia potenzialmente fornita da povere creature bovine o altri animali, sottomessi al pesante giogo di una simile ambizione. Quella di una città intera, che ormai tratteneva il fiato per vedere l’opera compiuta. Era già il 1775, quindi, quando la produzione della statua entrò nel suo momento più delicato…

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