In un giorno indefinibile in prossimità dell’equinozio, verso la metà del penultimo decennio dello scorso secolo, Lev aprì silenziosamente la botola sotto la sala di controllo dietro il sedile del copilota, mentre i colleghi restavano completamente concentrati sui rispettivi ruoli in quel momento di cruciale importanza. Un ultimo sguardo fuori dal finestrino gli permise d’inquadrare, dunque, il punto principale e la questione di quel giorno di gloria solenne: la bombata fusoliera dello spazioplano, a pochi metri dal corpo del pesante aereo da trasporto Antonov An-225 Mrya, agevolmente definibile come il velivolo più imponente al mondo. E all’altro capo della strana formazione, a una distanza impossibilmente ridotta, un altro identico gigante, come nel riflesso proiettato sulla superficie di un lago. Tuttavia non c’era neanche un attimo per meditare, o abbinare acute metafore al prospetto dei propri ricordi. Mentre l’impressionante stato di accelerazione continuava a esacerbare il possente magnetismo gravitazionale in senso retrogrado, minacciando d’interdire, e rendere del tutto impossibile qualsiasi movimento. Con un cenno all’indirizzo del capitano Viktor, che si era voltato per un attimo nella sua direzione, Lev inserì prima una gamba e poi la seconda nell’angusto cunicolo metallico, apprestandosi a fare ciò che nessun altro aveva mai potuto immaginare: camminare all’interno di un’ala sinistra, poi una piattaforma di lancio centrale ad oltre 10.000 metri di altitudine e 2.000 Km/h… Dopo circa una decina di secondi, mentre procedeva curvo dento il suo pertugio, le vibrazioni raggiunsero l’apice, ma lui sapeva molto bene di non potersi fermare. Soltanto la supervisione diretta di un membro umano dell’equipaggio, secondo le procedure stabilite dal controllo missione, avrebbe infatti potuto confermare i valori corretti nella serie di pannelli dei 34 motori presenti sul duplice mostro Antonov AKS, inviandone conferma presso entrambe le cabine di comando ai lati dell’iperborea questione. Raggiunta la sala intermedia, scorse rapido la quantità di dati presentati all’indirizzo del suo sguardo lungamente addestrato. “Tutto in ordine” segnalò alla sua destra premendo un pulsante rosso che si accese per confermare la ricezione del messaggio. Le sue labbra di mossero da sole, mentre immaginava di dire “Pronti al lancio”, premendo un tasto identico all’altro lato dello stesso pannello, interconnesso con un lungo filo lungo un’ala destra, fino a una seconda cabina di pilotaggio del tutto identica a quella da cui era partita. Finalmente soddisfatto, Lev si rannicchiò a quel punto nell’apposita cuccetta fortemente ammortizzata al fine di assorbire il colpo. Molto difficilmente, d’altra parte, 600 tonnellate potevano staccarsi da un dispositivo volante, senza arrecare un qualche tipo di notevole contraccolpo. Non che i progettisti avessero potuto pianificare la missione sulla base di esperienze pregresse. Giacché nessuno, prima di quel giorno, aveva mai tentato di portare a termine qualcosa di paragonabile, men che meno i rivali americani all’altro capo di un sempre più distante pianeta Terra.
3…2…1…Accensione! Un conto alla rovescia piuttosto breve, a dire il vero. Siamo d’altra parte abituati a metodologie per dare inizio a un possibile tragitto verso l’orbita che partono generalmente nella stessa maniera: lo svettante razzo posto verticalmente, solenne e immobile come una cattedrale. La sovrastruttura della rampa che si sposta a una distanza di sicurezza, una volta che gli uomini hanno preso posto assieme al carico che sono stati incaricati di trasportare a destinazione. E poi, una volta che il terreno si allontana, primo e secondo stadio che si staccano, o razzi ausiliari destinati a fare la stessa fine; mentre un qualche tipo di velivolo riutilizzabile prosegue, indefesso, oltre i limiti di un’atmosfera originariamente destinata a contenere fino all’ultimo dei nostri sogni ed aspirazioni future. Laddove questo stesso termine preliminare di OOS, avrebbe dovuto significare nell’idea dei progettisti niente meno che Одноступенчатый Орбитальный Самолё, ovvero: Aereo Orbitale a Stadio Singolo. Come conseguenza ed ulteriore perfezionamento, sulla strada di un possibile miglioramento prestazionale, dell’originale ensemble costituita dal Buran OK-1.01 ed il suo razzo Energia; molto più comunemente (e prosaicamente) definito come lo “Space Shuttle Sovietico”. Perché non ci sono, oggettivamente, tanti approcci aerodinamici possibili per riuscire bucare la stratosfera. Tutt’altra storia rispetto all’effettiva creazione di una metodologia di lancio, a quanto pare…
aerei
Tre motori e una cicogna: storia del più strano aereo passeggeri degli anni Venti
Nella storia dell’aviazione esiste un modo di dire: “Se è brutto, è inglese. Se è strano, è francese. Se è brutto e strano, è russo”. Ma poiché come la maggior parte degli aggettivi, simili giudizi non possono che apparire fondamentalmente soggettivi, forse la connotazione migliore che si può trovare a tali e tanti pregiudizi è quella d’elencare una possibile serie d’eccezioni. Casi eclatanti e tanto memorabili, splendenti Soli di un possibile avvenire; scene da possibili reami alternativi dell’esistenza. Ove ogni soluzione pratica è la diretta ed innegabile risultanza di un bisogno: far volare la cosa. Qualsiasi… Cosa, in effetti.
Era una limpida giornata autunnale in quel 26 ottobre del 1907, quando i tre fratelli Farman si riunirono sopra un colle ad Issy-les-Moulineaux, località non troppo distante da Parigi, per imitare quanto i due Wright erano riusciti a fare a Kitty Hawk: far sollevare da terra un velivolo più pesante dell’aria, spinto innanzi dall’uso di un motore. A volare sarebbe stato il più esperto di loro e pluripremiato ciclista Henri, figlio di mezzo e già utilizzatore di una serie di alianti costruiti in casa, mentre il più giovane Maurice, esperto autista in diverse competizioni a livello europeo, avrebbe fornito il supporto morale e fatto il tifo per l’ottima riuscita dell’impresa. Richard il maggiore, d’altra parte, nonostante la preparazione ingegneristica, aveva un ruolo non poi così diverso; questo perché il biplano in questione, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, era stato acquistato e successivamente migliorato a partire da un modello già completo di Gabriel Voisin, costruttore che non aveva avuto l’intenzione di mettersi a rischio in prima persona. Il suo cliente riuscì a compiere quindi tre voli, di 363, 403 e 771 metri, per poi compiere un circuito completo di 1.030 metri il 10 Novembre successivo. La strada era stata finalmente aperta e anche nel Vecchio Continente, mentre la stampa e cinegiornali cominciarono a narrare direttamente le straordinarie meraviglie di questo nuovo mezzo di trasporto: l’aeroplano. Nel corso dei mesi successivi, lavorando questa volta in famiglia, i fratelli apportarono alcuni significativi miglioramenti al progetto di Voisin, aggiungendo tra le altre cose una coppia di “tende” verticali alle estremità dell’ala superiore ed inferiore, capaci d’incrementare la stabilità di quello che ora tutti chiamavano il Voisin-Farman I, riuscendo in questo modo a vincere la competizione del marzo successivo del Grand Prix d’Aviation organizzato dal petroliere Henri Deutsch de la Meurthe, riuscendo in questo modo a conseguire un premio di 50.000 franchi. Lo stesso aereo, incredibilmente considerato il suo aspetto alquanto rudimentale, riuscì quindi a compiere una trasvolata di 2.004 Km entro la fine dello stesso mese. Entro la fine del 1908, la scienza dei volatili di metallo era ormai una disciplina largamente nota ed accettata in Francia, al punto da permettere ad Henri di aprire una scuola per piloti a Châlons-sur-Marne, nella quale un altro celebre pioniere, George Bertram Cockburn, diventò il suo primo allievo. Da lì, il passo successivo non fu eccessivamente difficile, anche vista l’epoca dai molti investitori e validi processi finanziari, per creare quella che sarebbe diventata la prima e più importante casa di produzione aeronautica francese, capace di sfornare in rapida successione quattro diversi biplani produrre in serie: il Farman III, l’MF-7 “Longhorn”, l’MF-11 “Shorthorn”, l’idroplano HF.14 ed il ricognitore militare HF.20 nel 1913. Con lo scoppio della grande guerra l’anno successivo, l’attenzione dei tre fratelli ebbe quindi modo di spostarsi chiaramente in tale ambito, dedicandosi alla creazione di una serie di velivoli di supporto e nella fase successiva del conflitto, quando ormai il campo di battaglia si era esteso in modi precedentemente inimmaginabili, anche caccia intercettori e bombardieri. Fu in questa accezione e con tale modalità d’utilizzo dunque che ebbe modo di comparire il primo e più importante successo storico dell’azienda, l’enorme Farman F.60 Goliath da 26 metri di apertura alare, capace di trasportare un carico di due tonnellate e mezzo per una distanza di 900 Km. Con una filiera di produzione completata solamente nel 1919, quando era ormai troppo tardi per fare la differenza. Così che i Farman, meditando a lungo sulla questione, elaborarono il principio di un’idea piuttosto avveniristica per il tempo: e se un simile approccio al trasporto volante, con alcuni piccoli ma significativi cambiamenti, fosse stato modificato e ottimizzato al fine di trasportare le persone?
In un turbinìo di raffiche, l’aviazione svizzera torna a danzare sulle Alpi Bernesi
“Piovoso, con possibilità di tungsteno” E appena un grammo percentuale di zirconio. Quello contenuto all’interno dei proiettili perforanti semi-incendiari scaturiti con trasporto dalle sei canne cannone rotativo M61 Vulcan, montato sul muso di un’intera squadriglia di F/A-18 Hornet intenta a fare una delle cose che gli riesce meglio: crivellare gli appositi bersagli arancioni distribuiti con cadenza regolare lungo i verdi pascoli sulle pendici dell’Axalphorn, dell’Oltschiburg e le altre montagne che circondano la notevole attrazione paesaggistica del lago alpino di Brienz. Uno scenario da sogno con il bello e il brutto tempo, sia d’estate che d’inverno, e soprattutto degno di essere severamente custodito, contro le incursioni di eventuali e certamente indecorose forze d’invasioni nemiche. E così sembra quasi di vederle, schiere di agili mezzi nemici, corazzati e pezzi d’artiglieria che spingono i motori al massimo, lungo gli irti declivi esattamente come teorizzato per la prima volta verso la metà degli anni ’30, puntando le proprie armi verso il cuore vulnerabile e neutrale del più elevato tra i piccoli paesi europei. Una Svizzera neutrale, ma che tale non avrebbe mai potuto rimanere, senza rendere le sue preziose terre relativamente inespugnabili, oggettivamente complicate da conquistare. Ma va da se che molta strada è stata fatta, dall’originale manciata di Messerschmitt Bf 109 e Morane-Saulnier D‐3800 ordinati originariamente dai paesi limitrofi, e che avrebbero costituito gli angeli custodi del paese nel corso del secondo conflitto mondiale. Un tragitto tortuoso (e dispendioso) tale da rendere l’odierna Aviazione Svizzera del tutto al passo coi tempi, sebbene numericamente meno ingente delle istituzioni simili di paesi più grandi. Nonché più di ogni altra cosa, perfettamente addestrata ad operare entro i confini di un territorio tra i più geograficamente inaccessibili al mondo, grazie anche ad esercitazioni e contingenze simili a quelle della Fliegerschiessen (tiro dell’aviatore) Axalp.
Insediamento turistico, resort di prim’ordine, luogo ameno in un’ambiente bucolico ed estremamente ricco di luoghi ameni. Ed una volta l’anno, secondo le precise imposizioni del calendario militare, il poligono di tiro della più incredibile esercitazione e dimostrazioni pratica di competenza per gli eredi dei suddetti eroi dell’aria. Occasione nella quale, con notevole ritorno d’immagine ed una certa quantità di fama imperitura, l’accesso al pubblico di simili montagne non viene affatto interdetto, bensì piuttosto incoraggiato, creando l’approssimazione ragionevole di un vero e proprio show aereo. Con la differenza che i proiettili sparati sono veri. Così come i flare anti-missile rilasciati a fluttuare nell’intercapedine tra le montagne, mentre gli occupanti effettuano i loro incredibili passaggi a volo radente, non dissimili da quelli che potremmo architettare in una sessione d’intrattenimento all’interno di un innocuo simulatore di volo. Non senza finire per pensare, onestamente: “Bella forza, è tutto finto. Di sicuro NESSUNO avrebbe mai il coraggio di tentare una manovra simile mettendo a rischio la sua stessa vita.” A meno di esser… Svizzero, s’intende. Un’occasione, questa del recentemente conclusosi ottobre 2021, particolarmente significativa anche per la serie di sfortunate contingenze degli ultimi due anni, in cui l’evento era stato disdetto all’ultimo momento, la prima volta per una serie di crepe dovute alla corrosione scoperte nelle alette di atterraggio degli F/A-18 e la seconda a causa dell’impossibilità di assicurare le misure di distanziamento anti-Covid tra il pubblico all’apice della pandemia, questione questa volta posta in subordine al bisogno di mantenere vivida la fiamma, ed altrettanto funzionale la memoria muscolare dei piloti, necessarie ad effettuare un simile sfoggio d’ineccepibile neutralità nazionale. Non è certo un caso, d’altra parte, se come annualmente capita l’esercitazione è stata aperta con un’affollata conferenza stampa, in cui si è lungamente proceduto alla disanima dell’attuale condizione instabile internazionale, mentre alcune delle principali potenze globali continuano a migliorare gli armamenti e il Comandante delle Forze Aeree Peter Merz illustrava i programmi di queste ultime per gli anni a venire, inclusivi del ritiro dei velivoli più vecchi (gli ormai vetusti 20 F5-E Tiger II) e la loro sostituzione col più volte paventato NKF (Nuovo Aereo da Combattimento). La cui provenienza ed effettive potenzialità, al momento, nessuno sembrerebbe ancora pronto a descrivere, sebbene sia acclarato che gli addetti all’utilizzo nei cieli del paese saranno in grado di sfruttarlo davvero molto bene. A giudicare da quello che compare in questo video…
La transitoria chimera statunitense di un idrovolante supersonico da combattimento
In principio, era il Caos: una miriade di forme ed azioni, concepite dagli inventori nella vaga speranza che potessero condurre fino al nascondiglio dell’ennesimo Santo Graal. Quello rappresentato, sui loro tavoli da disegno, dall’ottenimento del volo più pesante dell’aria, ovvero non più condizionato tempo atmosferico, zavorre o grandi sacche di gas incline a infuocarsi alla benché minima scintilla degli sgraditi eventi. Cose che battevano, viti senza fine, ombrelli che si sollevavano, code vibranti con grandi parapendii sul dorso; in altri termini, la miglior congiunzione possibile tra il mondo naturale e quello attentamente calibrato dell’ingegneria creativa. Tutti egualmente inutili, alla fine. A partire dall’impresa di Kitty Hawk nel 1903, quindi, una strada davvero percorribile sembrò risplendere della luce dell’ovvietà. Il principio dell’aeroplano si sarebbe manifestato mediante lo sfruttamento di due ali rigide, un propulsore, una serie di superfici di controllo. Linee guida in realtà piuttosto ampie, tali che il secolo successivo sarebbe risultato pieno di approcci non meno variabili ad un simile canovaccio di partenza. Che una di questi potesse essere il triangolo rappresentato dalla lettera greca Δ (delta) era già largamente compreso all’epoca, in forza dei preliminari esperimenti di J.W. Butler ed E. Edwards nel 1867, per l’ipotesi mai realizzata di un velivolo guidato innanzi dalla forza motrice di un razzo. Idea analizzata in maniera ancor più pratica nel 1909, con una proposta non meno in grado di portare a risultati tangibili del pioniere dell’aviazione J.W. Dunne. Negli anni catartici del secondo conflitto mondiale, tale soluzione sarebbe stata indagata approfonditamente dall’ingegnere tedesco Alexander Lippisch, con svariati prototipi che per sua e nostra sfortuna, non sarebbero mai riusciti ad entrare in produzione su larga scala. Questo per alcuni problemi inerenti di tale approccio, tra cui l’alto grado di attrito con l’aria generato da una superficie tanto ampia, nonché la portanza ridotta dalla necessità d’impiegare l’intero estendersi della parte posteriore come alettone di manovra. Ma la possibilità sarebbe tornata sotto i riflettori, assieme alla spontanea risoluzione di tali problemi, con l’affermarsi del motore a reazione e l’impressionante potenza raggiungibile da una tale soluzione. Finché a qualcuno non venne in mente, osservando il jet intercettore Convair F-102 Delta Dagger, che una simile forma avrebbe potuto altrettanto facilmente riuscire a galleggiare. Offrendo uno spunto d’analisi ed introspezione militare che riusciva a manifestarsi proprio nel momento in cui avrebbe potuto fornire un vantaggio strategico significativo.
Ciò che occorre tenere a mente, per comprendere l’impostazione e composizione delle Forze Armate statunitensi dell’immediato dopoguerra, è il ruolo fondamentale occupato dalla marina nel corso della campagna del Pacifico, tale da convincere ogni personalità rilevante che l’unico modo per dominare realmente il campo di battaglia fosse costituire una letterale estensione del suolo nazionale a largo di un altro continente, da utilizzare come base di partenza operativa per le proprie manovre, assalti ed operazioni di bombardamento. Il che poneva naturalmente le portaerei al centro della questione, se non che i nuovi e più performanti aerei dotati di motori a jet, data la lunghezza della pista di decollo ed atterraggio necessaria, difficilmente avrebbero potuto adattarsi ad una simile dottrina di combattimento. A meno che… Imparassero a decollare direttamente dai flutti, così come facevano un tempo i grandi aerei da trasporto passeggeri degli anni ’20 e ’30, nonché i molti modelli successivi spinti innanzi da un’elica e impiegati in diversi contesti di tipo militare. Sarebbero stati tuttavia per primi gli inglesi nel 1947 a tentare di combinare il concetto di una barca volante con quella del getto a reazione, con la creazione dei tre prototipi del Saunders-Roe SR.A/1, un idrocaccia subsonico destinato a non raggiungere mai il servizio operativo. Ciò che la marina statunitense bandì l’anno successivo, tuttavia, era un vero e proprio concorso diretto ai suoi principali fornitori, per la creazione di un velivolo non soltanto capace di galleggiare, ma che potesse sollevarsi in cielo e superare la velocità del Mach 1 (1.192,32) rivaleggiando in tal senso i migliori dispositivi da combattimento messi a disposizione dei piloti di quell’epoca di cambiamento. Una finalità destinata ad essere perseguita con la maggiore efficienza dalla squadra di ricerca di Ernest Stout, presso la compagnia di San Diego della Consolidated Vultee, più generalmente nota come Convair…